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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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mercoledì 23 dicembre 2015

Francia: tra difesa, sicurezza e legalità

Attacchi di Parigi
Francia, lo stato di emergenza e lo stato di diritto 
Benedetto Conforti
16/12/2015
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Tre mesi di stato di emergenza per evitare il ripetersi di altri attacchi. È questo quanto ha dichiarato, dopo gli attacchi del 13 novembre, il presidente della Repubblica francese che ha anche informato il Segretario generale del Consiglio d’Europa.

Deroghe alla Cedu
Poiché alcune delle misure conseguentemente prese dal governo avrebbero potuto comportare una deroga ad alcune delle obbligazioni previste dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), il Segretario generale era pregato di considerare la lettera come un’informazione ai sensi dell’art. 15 della Convenzione.

L’art. 15 prevede che, in caso di guerra o di “altro pericolo pubblico che minacci la vita della Nazione”, qualsiasi Stato contraente possa prendere misure in deroga agli obblighi della Convenzione limitatamente a quanto sia strettamente necessario per fronteggiare la situazione, purché esse non contrastino con gli obblighi di diritto internazionale e con quelli derivanti dagli art. 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti) e 4 (messa in schiavitù) della Convenzione. Di tali misure il Segretario generale del Consiglio d’Europa deve essere informato.

Il Segretario generale non può che prendere atto dell’informazione, non avendo né il potere di vagliare la conformità delle misure prese all’art. 15 né quello di monitorarne successivamente l’applicazione.

Soltanto la Corte europea dei diritti umani può decidere se sussistano le condizioni per l’applicabilità dell’art. 15, oppure se norme di diritto internazionale o gli anzidetti articoli siano stati violati. Ciò sempre che essa sia adita da uno degli altri Stati contraenti, cosa che sembra improbabile dato l’attuale contesto europeo, o da individui che pretendano di essere vittime della violazione.

L’art. 15 è anche oggetto di una riserva formulata dalla Francia all’atto della ratifica della Convenzione nel 1974, riserva secondo cui le misure previste dalla legge sullo stato d’emergenza dovrebbero ritenersi come “corrispondenti all’oggetto dell’art. 15 della Convenzione”.

La riserva è ovviamente assorbita dall’attuale informazione, come lo fu in un altro caso analogo relativo a dei moti occorsi in Nuova Caledonia nel 1988, caso che non diede luogo a controversie.

Allo stato attuale, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, una simile riserva sarebbe invalida e pertanto come non apposta, essendo di carattere generale e quindi contraria all’art. 57 sulle riserve.

La giurisprudenza sull’articolo 15 Cedu
Ciò premesso, per quanto riguarda le condizioni di applicabilità dell’art. 15, i numerosi attacchi terroristici verificatisi a Parigi, nonché la ferocia degli ultimi, non lasciano dubbi sulla loro natura di pericolo pubblico minacciante la vita della Nazione francese.

D’altro canto, dalla scarsa giurisprudenza della Corte sull’art. 15 si ricava che questa si è sempre in linea di massima adeguata alla decisione dello Stato derogante, ritenendola come rientrante nel margine di apprezzamento di tale Stato.

La Corte si è così comportata fin dal primo caso di applicazione dell’art. 15 (Lawless v, United Kingdom, sent. del 19 dicembre 1959) allorché ritenne, con i giudici britannici, che certe misure detentive, considerate dal ricorrente eccessive e viziate dall’abuso di diritto vietato dall’art.17 della Convenzione, fossero invece “strettamente necessarie” nel quadro della lotta ai terroristi dell’Ira.

Anche nel recente caso A e a v. United Kingdom, caso anch’esso di lotta al terrorismo internazionale, la Corte (sent. del 19 febbraio 2009), nel ritenere che alcune misure adottate dal Regno Unito dopo l’11 settembre non fossero proporzionate, e quindi strettamente necessarie, rispetto al fine da raggiungere, si è adeguata ad una pronuncia della House of Lords, che aveva già constatato l’illegittimità della deroga ex art. 15. Si trattava, nella specie, della detenzione a tempo indeterminato e senza processo di presunti terroristi stranieri che non potevano essere estradati senza rischiare la tortura nei Paesi di destinazione.

Anche la giurisprudenza della Corte circa l’inderogabilità delle norme degli art. 2, 3 e 4 e le norme di diritto internazionale è assai esigua.

Per un caso di condanna per trattamenti disumani e degradanti in regime di art. 15 occorre risalire alla sentenza del 12 gennaio 1978, Ireland v. United Kingdom, in cui furono denunciate la violenza durante gli interrogatori e le famose cinque tecniche praticate tra un interrogatorio e l’altro. Si trattò di misure infliggenti sofferenze così intense che oggi la Corte, in base agli sviluppi successivi della sua giurisprudenza, dovrebbe considerare come atti di tortura. Né il diritto alla vita, né il divieto di schiavitù sono mai stati oggetto di decisioni.

E come obblighi internazionali si è sempre pensato al diritto internazionale umanitario applicabile alle guerre internazionali o civili, laddove nel nostro caso si tratta di azioni di polizia.Con riguardo al diritto alla vita e al divieto di tortura esiste un’enorme giurisprudenza, tutta utilizzabile che ci si trovio meno in regime di emergenza.

Un auspicio
Certamente, alcune fattispecie hanno maggiore possibilità di verificarsi durante un regime siffatto.

Per fare qualche esempio di violazione del diritto alla vita e del divieto di tortura più facilmente verificabili in periodi di emergenza, ricordiamo la giurisprudenza sul trattamento dei detenuti; ricordiamo in particolare, per il diritto alla vita, le molte condanne per le sparizioni quando lo Stato detentore non potesse almeno dimostrare di aver svolto una seria inchiesta sulle cause delle medesime, e, per il secondo, le condanne di Stati dalle cui carceri il detenuto era uscito con chiari segni di maltrattamenti fisici o psichici.

C’è da augurarsi che siffatti eventi non accadano in un Paese dove la libertà è da secoli la regola.

Benedetto Conforti è Professore emerito di diritto internazionale.
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martedì 15 dicembre 2015

L'ISOLAMENTO TURCO

Alessio Pecce

Dopo l'iniziale difesa degli Stati Uniti, sembra arrivato il momento anche da parte loro, di passare ad una risoluzione ONU in grado di porre fine alla disputa terroristica  in Medio Oriente, condotta dall'ISIS, il quale è stato in grado di creare i presupposti per un'alleanza tra Putin e Obama. L'obiettivo della risoluzione è quello di porre un freno al mondo sunnita, le monarchie del Golfo e la Turchia, colpevoli di aver finanziato le basi del califfato. Ragion per cui i turchi hanno deciso di inviare truppe militari in Iraq, col fine di addestrare i peshmerga curdi contro l'avanzata dello Stato Islamico, ma l'ingresso dei militari turchi in Iraq, circa 150 (non secondo le fonti statunitensi che parlano di circa 1200 unità), ha provocato sentimenti di discordia presso Baghdad. È bene sottolineare come Mosul, città a nord dell'Iraq, sia un grande centro petrolifero, che nel 2014 ha dato la “spinta” decisiva alla crescita del califfato e in virtù di ciò il governo iracheno ne chiede il ritiro immediato, accusando la Turchia di violazione della sovranità territoriale. Il premier Haider al-Abadi afferma di un ingresso   militare turco in terra irachena, ufficialmente per addestrare la popolazione, ma senza alcuna autorizzazione da parte delle autorità irachene. A rincarare la dose ci ha pensato anche Fouad Masoum, presidente iracheno, il quale parlando dell'ingresso turco fa riferimento, senza giri di parole, ad una violazione del diritto internazionale, chiedendo pertanto il ritiro immediato e sollecitando il ministero degli Esteri a prendere le dovute precauzioni per garantire il rispetto della sovranità. Il governo turco, dal canto suo, si difende invocando alle attività di addestramento a favore del popolo iracheno e giustificandosi come portatore della conoscenza/pratica difensiva, a base militare. A sostegno di ciò ci ha pensato il Ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, il quale cerca un ritorno al dialogo con la Russia, contrariamente ad Erdogan che sostiene di poter attingere alle risorse di gas e petrolio tramite altri paesi, snobbando così l'importanza geopolitica/strategica con il Cremlino e incrementando di conseguenza la disputa iniziata dall'abbattimento aereo sulla Penisola del Sinai. Nel frattempo è in fase di avvio un riposizionamento delle potenze regionali, vista la possibilità di un'eventuale alleanza USA-Russia e Teheran (alleata di Mosca) ha subito colto “la palla al balzo”, a differenza dei “colleghi” arabi e turchi, forti anche di strategie a medio-lungo periodo, in previsione della fine delle sanzioni all'Iran. Basti pensare che già quattro anni fa l'Iran, in concomitanza con gli Hezbollah, era  l'unico paese a offrire sostegno a Damasco e a contrastare i jihadisti: strategia che ha dato i suoi frutti, considerando  che ad oggi è presente, oltre alla Russia, un'alleanza occidentale composta da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, le quali a loro volta, solo nel 2013, erano decise a bombardare Assad.


Alessio Pecce (alessio-p89@libero.it)

La difficile partita fra Nato e Russia

Alessandro Ugo Imbriglia
In concomitanza all’entrata in scena del Regno Unito e della Germania nella coalizione internazionale contro lo Stato Islamico il governo siriano ha accusato la coalizione militare guidata dagli Stati Uniti di aver colpito una base delle truppe lealiste, uccidendo tre soldati e ferendone altri tredici, vicino ad Ayyash, nell’est della Siria. Damasco ha inviato una lettera di protesta alle Nazioni Unite in cui denuncia il bombardamento. Gli Stati Uniti hanno sconfessato la ricostruzione del governo siriano. A tal proposito il colonnello Steve Warren ha dichiarato che  la coalizione ha effettuato quattro bombardamenti nella provincia di Deir Ezzor il 6 dicembre, escludendo categoricamente il  coinvolgimento di soldati o veicoli appartenenti alle forze lealiste. Gli attacchi sarebbero avvenuti 55 chilometri a sudest di Ayyash e avevano come unico obiettivo i pozzi petroliferi controllati dallo Stato Islamico. In u  n clima di perenne tensione le grandi potenze riunite a Vienna hanno definito una road map per avviare e consolidare un processo di pace in Siria, gettando le basi per un accordo tra le forze governative e le numerose fazioni degli oppositori al regime. I venti paesi che hanno partecipato al summit per la risoluzione del conflitto  hanno deciso che i colloqui tra regime e opposizione potrebbero cominciare il 1 gennaio; le tappe fondamentali di questo percorso prevedono una transizione di governo entro sei mesi e la successiva convocazione delle elezioni entro diciotto. Sul ruolo dell’attuale presidente Bashar al Assad, invece, persistono progetti al momento inconciliabili. L’Iran vuole che Bashar al Assad continui ad avere un ruolo nel governo di transizione, mentre le potenze occidentali, la Turchia e l’Arabia Saudita hanno accantonato qualsiasi ipotesi di coinvolgimento del leader siriano nella fase di transizione. In tanto Riyadh ospiterà un incontro preliminare fra i ribelli di Ahrar al Sham, che in passato erano affiliati al Fronte al nusra e quindi ad Al Qaeda, e novanta altri rappresentanti di gruppi di ribelli siriani, il cui fine è preparare un fronte d’opposizione coeso e unitario in vista dell’incontro del 18 dicembre a New York, a cui parteciperanno le grandi potenze sotto l’egida dell’Onu. Mosca non ha certamente gradito la mossa di Riyadh. La Russia non accetta che Ahrar al Sham faccia parte dei negoziati di pace sulla Siria, poiché è nella lista dei gruppi terroristici. Ad alimentare ulteriormente le preoccupazioni di Mosca è stato l’apertura dell’Alleanza Atlantica al Montenegro; agli occhi del Cremlino si tratta indubbiamente di un passo significativo verso il progressivo accerchiamento della Federazione Russa da parte delle forze Nato, che segue due episodi significativi: prima il taglio della corrente elettrica in Crimea ordinato dai proconsoli ucraini e, in seguito, l’abbattimento del su-24 al confine fra Turchia e Siria. Il fine di queste manovre strategiche è quello di provocare una reazione spropositata della Russia contro i paesi Nato e rafforzare le misure di isolamento internazionale nei confronti di Mosca. Intanto  la Russia ha rafforzato il contingente militare nei pressi di Aleppo schierando carri armati T-90 per difendersi dagli eventuali attacchi dei missili anti carri armati forniti dalla coalizione occidentale ai ribelli siriani.

                                                                                                          

Occidente: Alla ricerca di Annibale

Terrorismo
Califfato e crisi della società globale
Roberto Iannuzzi
07/12/2015
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All’indomani degli attacchi di Parigi, l’Occidente si è trovato davanti a un dilemma: chi è esattamente il nemico, e dove colpirlo? La difficoltà di definire il sedicente Stato Islamico traspare già dall’infinità di nomi che gli sono stati attribuiti.

Espressioni come “Stato” e “Califfato” sono particolarmente fuorvianti poiché ci danno l’impressione di confrontarci con una struttura centralizzata, cosa solo parzialmente vera.

L’acronimo arabo “Daesh”, che ultimamente sta prendendo piede anche in Occidente, ha invece il vantaggio di non attribuire significati specifici a questa entità, esaltandone la sua indeterminatezza.

Un sintomo del tracollo mediorientale
Daesh è in effetti solo il sintomo di una crisi più grave e profonda, che si articola su molti livelli. Il terremoto delle rivolte arabe del 2011, sommandosi ai cronici focolai di instabilità mediorientale degli ultimi decenni, ha provocato un vero e proprio collasso regionale che ha innescato nuovi conflitti.

Tale sconvolgimento trae origine da ragioni politiche, economiche e sociali che hanno segnato la crisi dello Stato-nazione arabo postcoloniale. Esso è inoltre frutto della crisi globale del 2008, la quale ha anche inasprito le contraddizioni interne al modello europeo e segnato l’inizio di un tumultuoso mutamento negli equilibri mondiali.

Daesh si annida nel vuoto di potere creato da conflitti prolungati, dalla presenza di innumerevoli fazioni in lotta, e dall’assenza di governi funzionanti in Iraq, Siria, Libia, Yemen, e altrove. In simili contesti di caos e violenza, la brutalità di Daesh non appare eccezionale, ma spesso equiparabile a quella di altri attori.

Anzi, l’organizzazione garantisce a coloro che governa servizi e sicurezza che altri soggetti spesso non forniscono. A cavallo tra Siria e Iraq, il gruppo ha fondato un proto-stato che legifera e tassa i propri cittadini.

Le metastasi del “Califfato”
Daesh va però al di là di questa realtà semi-statuale. Sfruttando la molteplicità dei focolai di crisi, esso si è replicato in molte parti della regione (la Libia è uno dei casi più preoccupanti). Allo stesso tempo si è assicurato un costante flusso di “combattenti stranieri”, provenienti dal mondo arabo-islamico e da altre regioni, fra cui l’Occidente.

Sebbene sia generalmente considerato come un gruppo oscurantista e medievale, Daesh ha molti tratti della modernità. Esso agisce come un marchio che opera in franchising, come già faceva Al-Qaeda dopo che venne distrutta la sua centrale in Afghanistan.

Nell’attuale contesto di crisi, l’organizzazione riesce a vendere il proprio marchio non soltanto perché ha un ottimo sistema di pubblicizzazione, ma perché può contare su una domanda costante, alimentata dalle aree di conflitto e dai regimi mediorientali, ma anche dalle sacche di emarginazione in Occidente.

Il problema, infatti, è anche in Europa, nelle banlieues francesi, nei quartieri belgi come Molenbeek, nel cosiddetto Londonistan della capitale britannica.

Gli attacchi di Daesh, rispetto a quelli della prima Al-Qaeda, sono a basso costo ed hanno un livello più elementare di organizzazione. I suoi esecutori possono essere neofiti, o persone che hanno compiuto un addestramento di settimane o mesi in qualche area di crisi del Medio Oriente (non necessariamente in Siria).

L’organizzazione ha un’economia diversificata, con introiti derivanti da forme di tassazione, estorsioni, traffici illeciti, vendita di materie prime. Essa può contare su connivenze politiche, collusioni finanziarie, e sulla complicità di interi stati (emblematico il caso della Turchia) a livello regionale e mondiale.

Daesh opera come gruppo terroristico, proto-stato, e organizzazione criminale. È una vera e propria rete di militanti, fiancheggiatori, comunità virtuali e interessi sparsi nel mondo. È realmente un termometro del deterioramento della società globale. Ne sfrutta le connessioni e le strutture, le reti clientelari e criminali.

Un nemico alimentato dallo scontro regionale
Daesh è allo stesso tempo potente e fragile. La sua realtà semi-statuale e la sua economia sarebbero insostenibili in un contesto di pace e legalità, ma prosperano in un quadro di conflitto e corruzione. L’organizzazione trae vantaggio dalle contrapposizioni regionali ed internazionali. Tramite le reti di trafficanti, ottiene perfino armi dai suoi nemici.

In assenza di risposte politiche ed economiche ai conflitti mediorientali, di un ripensamento del modello di integrazione europeo, e di una rinnovata governance globale, Daesh è destinato a sopravvivere, nella sua manifestazione attuale o in nuove forme.

Anche se la “casa madre” a cavallo tra Siria e Iraq venisse annientata, essa si polverizzerebbe in nuovi gruppi che si rifanno alla stessa ideologia, mentre altri spezzoni dell’organizzazione, come ad esempio quello libico, potrebbero assumere la leadership.

La corsa in ordine sparso a bombardare la Siria, inaugurata dalla Francia prima ancora degli attacchi di Parigi, difficilmente servirà a scongiurare nuove minacce terroristiche, ed anzi rischia di complicare ulteriormente la situazione regionale.

Viene il dubbio che questo caotico dispiegamento di mezzi militari, più che a combattere efficacemente Daesh, serva a permettere a coloro che vi prendono parte di posizionarsi più vantaggiosamente al tavolo negoziale che dovrebbe decidere i destini della Siria.

Il rischio, tuttavia, è che a causa delle rivalità fra gli attori coinvolti non si giunga ad alcuna soluzione. Ciò vorrebbe dire prolungare il conflitto, inasprendo ulteriormente le tensioni regionali e dando nuova linfa al terrorismo.

Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale (Twitter: @riannuzziGPC).
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sabato 5 dicembre 2015

Il Clima al centro di ogni attenzione

COP21 e banche centrali
Il global warming che gela il mondo finanziario
Marco Magnani, Gilda Giordani
30/11/2015
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Jackson Hole, Francoforte, Washington, New York sono le città più frequentate dai banchieri centrali. Kyoto, Montreal, Copenaghen, Doha le sedi di alcune tra le più importanti conferenze sull’ambiente negli ultimi 20 anni. Circuiti diversi, storicamente lontani. Parigi potrebbe essere il punto d’incontro e porre il climate change sull’agenda delle Banche Centrali.

Parigi può superare i limiti di Kyoto
La capitale francese accoglie infatti in questi giorni i rappresentanti di 196 paesi per la COP21, il summit dell’Onu sul cambiamento climatico. Le aspettative sono elevate, nonostante i precedenti. La prima Conference of Parties, a Berlino nel 1995, fu un fallimento; l’ultima, lo scorso anno a Lima, si concluse con un nulla di fatto.

La conferenza più nota rimane Kyoto, grazie al protocollo firmato nel dicembre 1997 da oltre 180 paesi ed entrato in vigore nel 2005 con la ratifica di firmatari che superavano in aggregato il 55% delle emissioni mondiali di gas serra.

Molti, tuttavia, i limiti di quell’accordo. Cina e India furono esonerate dagli obblighi del trattato e gli Stati Uniti, che rappresentavano oltre 1/3 delle emissioni globali, non lo ratificarono.

Parigi potrebbe mettere d’accordo paesi industrializzati ed emergenti. L'intesa nel settembre scorso tra Barack Obama e Xi Jinping sulla lotta al riscaldamento globale è di buon auspicio. Così come il recente impegno pubblico di 79 multinazionali a ridurre emissioni inquinanti e consumi energetici. Negli ultimi anni sono cresciuti senso d’urgenza e consapevolezza sul tema. Anche da parte dei banchieri centrali.

Lo conferma il recente discorso che il governatore della Bank of England ha tenuto a una cena dei Lloyd’s a Londra rilevando i costi, presenti e futuri, causati dal climate change. Pur parlando di global warming, Mark Carney ha “gelato” assicuratori e banchieri in sala. Dal 1980 gli eventi climatici causa di forti danni sono triplicati e le perdite delle assicurazioni, al netto dell'inflazione, sono quintuplicate, arrivando a 50 miliardi di dollari l'anno.

Le conseguenze vanno ben oltre il settore assicurativo e riguardano la minaccia del cambiamento climatico per la stabilità finanziaria globale, tema prioritario per le Banche Centrali. Tre sono i rischi.

Quello “fisico”, relativo ai rimborsi assicurativi dei danni causati da inondazioni e tempeste, specie in agricoltura e commercio. Il liability risk, legato alla possibile futura richiesta di risarcimenti delle parti danneggiate nei confronti dei presunti responsabili, innanzitutto i settori estrattivo e petrolifero. Infine il rischio di transizione, cioè i costi di aggiustamento dell’economia verso un modello più sostenibile. Tre fattori che possono scardinare equilibri economici consolidati e creare forte instabilità nei mercati finanziari.

Instabilità del quadro macroeconomico e costi dell’aggiustamento
Il tema dell’aggiustamento economico in relazione al cambiamento climatico è centrale. In assenza di accordi e scelte condivise di crescita sostenibile, il rischio è che i cambiamenti climatici aumentino fortemente l’instabilità del quadro macroeconomico. Un tasso di crescita che fluttua significativamente di anno in anno in modo poco prevedibile metterebbe le Banche Centrali in una difficile posizione.

Se invece l’aggiustamento sarà programmato con un certo grado di cooperazione tra i paesi, la transizione potrebbe essere più graduale nel tempo, più prevedibile e probabilmente creare nuove opportunità di crescita e occupazione grazie allo sviluppo di nuove tecnologie e fonti rinnovabili di energia. Anche in questo caso tuttavia, come sempre quando si cambiano le strutture produttive di un sistema economico, vi sarebbe un certo grado d’instabilità.

Volatilità dei prezzi agricoli e sfide per la politica monetaria
Un settore particolarmente sensibile al clima è quello agricolo. L’aumento di frequenza d’improvvise siccità, inondazioni e gelate può esacerbare la tendenza degli ultimi anni alla crescente volatilità dei prezzi. Inoltre, nel lungo periodo le variazioni di precipitazioni e temperature medie influenzano produttività e distribuzione geografica delle colture.

Peraltro, l’aumento di CO2 e delle temperature favorisce lo sviluppo e la diffusione di nuovi parassiti e patogeni, cui si attribuisce circa il 30% della perdita di produzione agricola. Anche il settore zootecnico è influenzato negativamente.

La volatilità aumenta le difficoltà di adottare un’adeguata politica monetaria e di prevederne l’impatto sull’economia. Inoltre, il rincaro dei prodotti agricoli può influenzare in modo rilevante il costo della vita nei paesi in via di sviluppo, dove la quota di reddito destinata ai consumi alimentari è elevata.

Prezzi dell’energia e inflazione: il difficile ruolo delle Banche Centrali
Altro fronte sensibile è l’energia. Il raggiungimento di un accordo internazionale per rallentare il riscaldamento del clima comporterebbe infatti un aumento dei prezzi dei combustibili fossili. Ciò può interferire direttamente con l’obiettivo principale delle Banche Centrali: la stabilità dei prezzi. È ancora vivo il ricordo degli anni ’70, quando due crisi petrolifere causarono un forte aumento dell’inflazione nelle economie avanzate.

Oggi in realtà molte di queste economie hanno una struttura diversa, meno dipendente da combustibili fossili. Anche per questo tra 1999 e 2000 il forte aumento del prezzo del greggio - quasi raddoppiato - ha prodotto un incremento d’inflazione solo marginale.

In ogni caso, il ruolo delle Banche Centrali sarebbe complesso. Da una parte non dovrebbero contrastare l’aumento dei costi dell’energia, al fine di non compromettere politiche climatiche volte a rendere l’economia più sostenibile. Dall’altra non potrebbero abbassare la guardia sul livello generale dei prezzi. L’aumento dei costi energetici potrebbe infatti generare tensioni salariali volte a mantenere inalterato il potere di acquisto, innescando una spirale inflazionistica.

La scelta condivisa di puntare a un’economia più verde può consentire di gestire meglio la tempistica dell’aggiustamento, minimizzando il grado d’incertezza e volatilità e aprendo nuove strade di crescita. Tuttavia, la transizione non sarebbe priva di difficoltà e le decisioni di politica monetaria rimarrebbero in ogni caso molto intricate. Se anche Parigi facilitasse un accordo per rallentare il global warming, la temperatura nelle Banche Centrali resterebbe alta.

Marco Magnani è docente di Monetary and Financial Economics alla LUISS e non-resident fellow dello IAI. Come Senior Research Fellow a Harvard Kennedy School ha pubblicato Sette Anni di Vacche Sobrie con UTET e Creating Economic Growth con PalgraveMamillan (www.magnanimarco.com; twitter @marcomagnan1).
Gilda Giordani è laureanda del corso magistrale in inglese di International Relations di Scienze Politiche alla LUISS e ha un forte interesse in temi energetici e di cambiamento climatico
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venerdì 4 dicembre 2015

Il sistema S-400 e la forza aerea russa.


 di Federico Salvati

(mosca novembre 2015)
    In un intervista rilasciata la settimana scorsa alla Pravda, il colonnello Sergei Khatylev ha spiegato come il nuovo sistema di difesa missilistica S-400 non avrebbe rivali, specialmente a confronto del  suo corrispettivo americano ( sistema patriot).
    L'S-400 è un sistema di difesa aerea che utilizza 4 tipi diversi di missili a medio e lungo. Il missile è lanciato da un condotto di lancio e può arrivare ad un altezza di 30 metri prima che si azioni il la propulsione secondaria. La portata di fuoco invece può arrivare a coprire una distanza di ben 600 KM. I missili sono dotati di un sistema di guida semiautomatica che permetta di direzionare il missile in una certa area. Una volta entrato nell'area il missile cerca il suo obiettivo automaticamente agganciandosi a a fonti di energia compatibili con il suo sistema di puntamento.
    I possibili obiettivi da cui il sistema missilistico fornisce copertura sono i più svariati. La lista comprende jet figher, elicotteri, missili cuiser e cruiser ipersonici, missili tattici, aerobaistici ecc. Il sistema radar dell'S-400 è un grado di identificate ben 300 obiettivi simultaneamente a 600 Km di distanza.
    Il colonnello Sergei Khatylev ha fatto notare, quindi, come la difesa americana, per quando possa essere considerata performante, tatticamente, non regge il confronto con il sistema S-400. Ad onor del vero, l'area di sorveglianza americana copre solo determinati settori più sensibili per Washington, mentre Mosca ha dei bisogni difensivi di gran lunga più estesi. I sistemi Patriot americani però non sono all'avanguardia come quelli russi. Ad esempio, il sistema patriot fatica a reagire se l'obiettivo cambia improvvisamente direzione e soffre di condizioni di lancio più sfavorevoli rispetto a quelle dell' S-400.
    Se la Russia sembra avere la meglio sul piano difensivo, anche nell'offensiva le prospettive di confronto sono scoraggianti per gli USA.
    Washington sembra non aver ancora risolto i suoi problemi con i tristemente noti Figher-35. Secondo fonti giornalistiche, i veicoli non sarebbero in grado di sparare un solo colpo con la loro arma principale (un cannone a fuoco rapido da 25 mm) fino al 2019. Si sarebbero riscontrate, infatti, delle difficoltà insormontabili con il software di supporto dell'arma. Inoltre il veicolo risulterebbe troppo facilmente individuabile secondo la revisione indipendente della RAND Corporation. L'efficacia degli F-35 resterebbe,in fin dei conti, solo sulla carta e le lamentele degli alleati americani in merito aumentano giorno dopo giorno.
    Il Cremlino invece ha annunciato, non molto tempo fa, l'imminente completamento dei Sukhoi PAK-FA di 5 generazione. Questi aerei da combattimento una volta dispiegati dovrebbero superare qualitativamente le performance degli F-35 in ogni aspetto.
    Se veramente l'efficienza, millantata da Mosca, rispetto al proprio potere aereo sia una realtà concreta è difficile da stabilire con certezza. Le dimostrazioni pratiche del sistema S-400, infatti, sono poche e il suo impiego sul campo non è ancora avvenuto in maniera così significativa da permettere un bilancio neutrale.

    La situazione merita comunque la massima attenzione visti, sia gli attriti degli ultimi due anni tra l'occidente e il Cremlino, sia la difficile situazione del settore ricerca e sviluppo dei sistemi americani impiegati nello spesso campo. Sanzioni Russe: una prospettiva da Mosca

mercoledì 2 dicembre 2015

Economia: la strada da seguire

Economia
Visco: La forza dell'Europa è nello stare uniti
Simone Romano
27/11/2015
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C’è bisogno di più Europa e non di meno euro. È questa la posizione esposta dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nel suo intervento in occasione delle celebrazioni per il cinquantenario del nostro Istituto.

Visco ha offerto una riflessione sul delicato momento che l’Unione europea, Ue, e l’Eurozona stanno vivendo. Partendo dall’analisi degli eventi che hanno preceduto la crisi finanziaria e dei debiti sovrani e passando in rassegna le misure messe in atto per contrastare la conseguente recessione, il governatore ha delineato la strada da intraprendere per superare le attuali difficoltà e garantire all’Ue un futuro migliore.

Rischi di una moneta senza Stato 
La necessità di completare l’Unione monetaria europea, rendendola più forte attraverso la realizzazione di una vera unione politica, è in questo momento ampiamente dibattuta. Tuttavia, ha sottolineato il numero uno di Banca d’Italia, questa questione è stata a lungo sottovalutata o volutamente ignorata.

L’incompletezza del progetto europeo ha giocato un ruolo fondamentale nella crisi dei debiti sovrani che ha rivelato una sostanziale mancanza di fiducia nel futuro dell’euro e dell’Unione monetaria. La gravità di tale crisi ha minacciato l’esistenza stessa della moneta unica e, quindi, del progresso più importante compiuto verso l’integrazione finanziaria europea.

Ciò che è accaduto negli ultimi anni ha confermato la lungimirante visione di Tommaso Padoa Schioppa che aveva messo in guardia dai pericoli di una moneta senza Stato.

La moneta unica europea, seppure rappresenti un cambiamento di portata storica, è solo un passo nel processo di creazione di una genuina e profonda unione economica e monetaria e non può rappresentare in alcun modo il traguardo finale.

Nell’assenza di unione politica, Visco ha evidenziato come la governance dell’area dell’euro si sia retta su una fragile alleanza tra forze di mercato e regole di condotta. Questa però non è riuscita a garantire che i comportamenti degli agenti nazionali fossero in linea con il benessere dell’area euro nel suo complesso. La soluzione non è tornare sui propri passi, ma accelerare verso un’unione fiscale e politica.

Risposte alla recessione
Il lungo periodo di recessione che è seguito alla crisi finanziaria e in seguito a quella dei debiti sovrani ha avuto cause radicate sia in ambito nazionale che comunitario. Al primo va iscritta la fragilità delle economie e delle finanze pubbliche di alcuni Stati membri, al secondo l’incompletezza della costruzione europea.

Le misure messe in campo per rispondere a questo periodo di difficoltà si sono articolate in entrambi questi ambiti. I singoli Stati hanno intrapreso politiche di consolidamento fiscale e riforme strutturali volte a favorire la competitività e a rendere più sostenibili le dinamiche del debito pubblico.

A livello comunitario è stata avviata un’opera di riforma della governance economica europea di vasta portata. Nonostante i tanti ostacoli, il giudizio del governatore è che ci si sia mossi nella giusta direzione.

Visco ha anche ribadito la necessità dell’unione bancaria e del completamento dell’unione dei mercati finanziari al fine di ottenere un’Eurozona meno esposta ai rischi derivanti dagli shock asimmetrici.

Anche l’opera svolta della Banca centrale europea, Bce, è stata preziosa, permettendo di mitigare la contrazione della domanda aggregata e contrastando la pressione dei mercati finanziari sui titoli del debito pubblico di molti Stati europei. Tuttavia, quanto fatto fino ad ora non basta,la politica monetaria non può da sola garantire una crescita sostenuta e sostenibile.

Le sfide che l’attuale congiuntura economica pone sono molteplici: sostenere la domanda aggregata, innalzare i livelli di occupazione, governare il processo di automazione e le dinamiche demografiche in modo che siano compatibili con la crescita economica e con la tutela dell’ambiente. In tal senso, le riforme su scala nazionale volte ad aumentare il potenziale di crescita attraverso un miglioramento della produttività sono necessarie, ma non sufficienti a risolvere i problemi attuali dell’Eurozona.

La strada da seguire
Secondo Visco, il sentiero da seguire è quello indicato dal rapporto scritto a giugno dai cinque presidenti che stabilisce le linee guida da percorrere per completare l’Unione monetaria europea e per aumentare la robustezza della stessa agli shock locali.

Alle azioni in campo economico e finanziario però si devono accompagnare parallelamente azioni a livello istituzionale e politico. La revisione del ruolo della Bce e la vigilanza macroprudenziale sugli istituti di credito sono passi importanti, ma le recenti opposizioni a uno schema di assicurazione e garanzia unico per i depositi lasciano intendere che il cammino verso un’unione economica più solida non sarà semplice.

Quello che è certo è che le azioni necessarie per rafforzare l’Unione monetaria europea richiedono non solo uno slancio di fiducia nella costruzione europea, ma anche la comprensione che il benessere di ogni stato membro dipende dalla persecuzione del bene dell’Ue. La forza dell’Europa è nello stare uniti. Ora più che mai si è chiamati a realizzare questa unità.
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Verso un cambiamento strutturale dell'economia europea

Economia 
Investimenti europei a sostegno della crescita
Alberto Majocchi
18/11/2015
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L’eurozona sta uscendo dalla recessione, ma a un ritmo ancora debole e incapace di generare l’aumento dei posti di lavoro necessario per ridurre il livello di disoccupazione.

Questo almeno quello che ci dicono i dati del Fondo Monetario Internazionale, Fmi, che prevedono per il 2015 e il 2016 un tasso di sviluppo nell’eurozona rispettivamente dell’1,5% e dell’1,6%. Un tasso che è ancora largamente inferiore a quello di crescita dell’economia statunitense, che viene stimato pari al 3,1% e al 3,6% nei due anni considerati.

Gli investimenti della Bei
In verità, la Commissione europea si è resa conto che occorre stimolare la domanda per accompagnare la manovra di espansione monetaria promossa da Mario Draghi. Ha quindi elaborato un piano per promuovere un flusso di 315 miliardi di investimenti in tre anni grazie all’intervento della Banca Europea degli Investimenti, Bei, garantiti da 16 miliardi messi a disposizione dal bilancio europeo e da 5 miliardi concessi dalla Bei.

Si tratta di una svolta importante, soprattutto in relazione al riconoscimento del fatto che, in presenza di un processo di sdebitamento generalizzato nel settore pubblico e privato (deleveraging), un sostegno della domanda aggregata è indispensabile, anche per sostenere gli effetti espansivi del Quantitative Easing. Un passo in avanti, ma ancora insufficiente.

In realtà l’Europa si trova di fronte a una serie di problemi, che si intrecciano e che richiedono misure incisive per essere affrontati e risolti. In primo luogo c’è un problema di debolezza della domanda effettiva, a seguito delle manovre di consolidamento fiscale; ma c’è anche, al contempo, un accentuarsi del divario fra i paesi della core Europe e i paesi periferici.

Vi è infine un problema strutturale legato da un lato alla globalizzazione che ha favorito la delocalizzazione dei processi produttivi nei settori più maturi e, d’altro lato, agli sviluppi tecnologici che rendono più concreta la prospettiva di una ripresa economica non accompagnata da una crescita dell’occupazione (jobless recovery).

A fronte di queste difficoltà il piano Juncker, rivolgendosi a tutti i paesi dell’Unione e al fine di essere avviato in tempi brevi per sostenere l’uscita dalla crisi, non prevede un aumento delle dimensioni del bilancio europeo, ma si limita a fornire una garanzia affinché la Bei possa finanziare anche investimenti caratterizzati da un maggior grado di rischio.

Rischio jobless recovery 
Tutto questo non basta più. Occorre puntare su una dose massiccia di investimenti, non soltanto per completare le reti infrastrutturali (energia, trasporti, banda larga), ma anche per promuovere l’innovazione, la ricerca e sviluppo, l’istruzione superiore al fine di aumentare la produttività e, quindi, la competitività delle imprese europee.

E si tratta al contempo di fare in modo che vengano superate le asimmetrie fra i paesi del nord e del sud, determinate dal fatto che la Germania, dopo il varo della moneta unica, è entrata in un circolo virtuoso di investimenti.

Se da una parte questi hanno favorito la produttività e, quindi, la crescita delle esportazioni; dall’altra la crescita del costo del lavoro per unità di prodotto ha subito una frenata. Tutto questo ha impedito un riequilibrio a medio termine della bilancia commerciale dei paesi del sud, obbligati di conseguenza a pesanti manovre deflative, che hanno reso sempre più ampio il divario all’interno dell’eurozona.

D’altra parte, anche il rischio di una jobless recovery deve essere affrontato attraverso misure di sviluppo sostenibile destinate a promuovere non soltanto la tutela dell’ambiente, ma anche la soluzione dei problemi sociali connessi alla crescita della disoccupazione, determinata non soltanto dalla crisi, ma anche dallo sviluppo tecnologico.

Cambiamento strutturale dell’economia europea 
Tutto questo richiede che, al di là del piano Juncker, nuove risorse vengano destinate al bilancio europeo per sostenere gli investimenti e la produzione di beni pubblici necessari per affrontare la sfida di una crescita sostenibile, garantendo il finanziamento di un fondo all’interno del bilancio dell’Unione che sia in grado di promuovere un cambiamento strutturale dell’economia europea.

Per raggiungere questo obiettivo è necessario che un gruppo di paesi all’interno dell’Unione, a partire dai Paesi che fanno già parte dell’eurozona o intendano aderirvi in futuro, si doti, oltre che di una moneta comune, di un bilancio alimentato da vere e proprie entrate fiscali, in primo luogo un’imposta sulle transazioni finanziarie e una carbon tax.

L’attribuzione di nuove risorse proprie a un bilancio destinato ai paesi dell’eurozona all’interno del bilancio dell’Unione rappresenta una sfida rilevante dal punto di vista politico e allarga notevolmente il quadro rispetto agli obiettivi limitati del piano Juncker. Questo piano è importante per ridare fiato all’economia europea e ricostituire la fiducia dei cittadini nel processo di unificazione europea, e non soltanto nell’euro.

Una volta ricostituita la fiducia occorre che la parte più sensibile delle forze politiche e sociali si mobiliti per indurre gli Stati, a partire dai paesi dell’eurozona, ma includendo gli Stati che pensano di aderirvi in futuro, dopo la cessione della sovranità monetaria, a rinunciare parzialmente anche alla sovranità fiscale, procedendo così, dopo l’Unione monetaria e l’Unione bancaria, verso un’Unione fiscale che a sua volta dovrà sfociare necessariamente in un’Unione politica.

Alberto Majocchi è Professore di Scienza delle Finanze nell’Università di Pavia e Vice-Presidente del Centro Studi sul Federalismo di Torino.
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lunedì 30 novembre 2015

Siria ed Iraq al centro degli interessi internazionali

di Alessandro Ugo Imbriglia

In Siria, nelle ultime settimane, le potenze sunnite hanno fornito missili anticarro a gruppi dell’Esercito Siriano Libero e del Fronte Islamico, mentre non si dimostra efficace l’offensiva delle forze armate del regime, sostenute dal supporto logistico e militare iraniano oltre che dai raid russi. Dunque il piano di Vladimir Putin, finalizzato a facilitare lo scontro tra Assad e i jihadisti per aumentare il potere di contrattazione del regime in un eventuale patto con la comunità internazionale, si sta rivelando più complicato del previsto. La Russia vorrebbe svolgere un ruolo da protagonista nella soluzione della crisi, perché ne uscirebbe rafforzata sul piano del prestigio, consolidando la propria posizione in Medio Oriente. Per tal motivo sta rafforzando i contatti con le altre potenze internazionali, lasciando intendere che la resistenza potrebbe partecipare al negoziato. La Russia sarebbe favorevole ad un passo indietro del presidente siriano dopo le elezioni, mentre Stati Uniti, Arabia Saudita e Turchia sosterrebbero le elezioni solo dopo l’uscita di scena di Assad. Nel frattempo, sul fronte iracheno, l’esercito e le tribù sunnite locali hanno sottratto il 40 per cento della provincia di Ramadi, a circa 127 chilometri a ovest di Baghdad, al gruppo Stato Islamico, compreso l’impianto di raffinazione di Baiji. La provincia di Ramadi si estende per 138.500 chilometri quadrati nella parte occidentale del paese, e prima del conflitto aveva un milione e mezzo di abitanti. Una seconda operazione via terra, condotta dai peshmerga e coaudivata dalle forze statunitensi è stata effettuata a sette chilometri a nord dalla città di Hawija,  nell’area occidentale dell’Iraq, al confine con il Kurdistan iracheno, e ha condotto alla liberazione di circa settanta ostaggi che stavano per essere giustiziati. Era  previsto che le truppe statunitensi si limitassero a fornire consulenza ai combattenti curdi, ma sono intervenute sul campo a causa delle difficoltà incontrate dal contingente curdo. Durante l’incursione ha perso la vita un militare statunitense, il primo da quando il presidente Obama ha ordinato il ritiro delle truppe dall’Iraq nel 2011. Inoltre è la prima volta che un soldato americano perde la vita in un combattimento sul terreno contro il gruppo Stato islamico. Il soldato è stato colpito a Hawija e poi trasportato all’ospedale di Erbil, dove è deceduto. A questo punto  sarà fondamentale per le forze irachene consolidare le due vittorie e giungere ad una riconciliazione con gli abitanti dei territori sottratti al controllo dello Stato Islamico. Una fonte del ministero della difesa iracheno ha rivelato che il governo iracheno non era stato informato dell’operazione di salvataggio. In questo quadro complicato gli Stati Uniti provano a coniugare gli interessi delle forze curde con gli obiettivi delle autorità irachene, che combattono entrambe contro lo Stato islamico, nonostante l’equilibrio precario che ha contraddistinto da sempre i loro rapporti. Dall’anno scorso diversi consiglieri militari e istruttori statunitensi sono tornati in alcune zone dell’Iraq per addestrare le truppe irachene e i combattenti curdi. A questo punto  sarà fondamentale per le forze curde ed irachene consolidare le due vittorie e giungere ad una riconciliazione con gli abitanti dei territori sottratti al controllo dello Stato Islamico.
27 ottobre 2015
Alessandro Ugo Imbriglia
uogo1990@hotmail.it



venerdì 27 novembre 2015

La Guerra al Califfato


Tutti per uno? La Francia invoca la clausola europea di difesa
Marco Gestri
23/11/2015
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Una novità assoluta. A portarla è stata l’invocazione, da parte della Francia, dell’art. 42 del trattato sull'Unione europea, ovvero la clausola di difesa collettiva.

Introdotta nell’Unione europea, Ue, col Trattato di Lisbona, si tratta di una disposizione analoga a quella che era prevista dall’art. V del Trattato del 1948 istitutivo dell’Ueo, estinto nel 2010 dai dieci Stati parti. L’idea di una norma sulla difesa collettiva nell’Ue, venne elaborata dalla Convenzione che presentò il Progetto di Trattato/Costituzione, firmato nel 2004, ma mai entrato in vigore.

Clausola di difesa collettiva e clausola di solidarietà
Il comma 7 dell’art. 42 stabilisce che “qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso”, in conformità coll’art. 51 della Carta Onu. Condizione d’attivazione è un’aggressione armata.

Da notare che una norma distinta (art. 222 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, Tfue) stabilisce una clausola di solidarietà europea con specifico riferimento ad attacchi terroristici.

La scelta francese d’invocare l’art. 42.7 sembra comunque legittima, ed è stata accolta unanimemente dagli altri membri, a conferma che anche un attacco terroristico sferrato da entità non statali, qualora proveniente dall’esterno e di particolare gravità, può esser qualificato “aggressione armata”.

L’articolo 222 del Tfue
Come si può però spiegare il mancato ricorso all’art. 222 Tfue? Quest’ultimo ha una dimensione essenzialmente interna, assicurando un’assistenza allo Stato vittima sul suo territorio, mentre la Francia richiede un aiuto anche all’esterno (ma a mio avviso le due clausole potrebbero comunque esser invocate simultaneamente).

Soprattutto, a differenza dell’art. 42.7, il meccanismo previsto dall’art. 222 prevede un obbligo di solidarietà non solo tra gli Stati membri ma anche da parte dell’Ue e, conseguentemente, un coinvolgimento diretto delle istituzioni europee (le modalità sono definite dalla Decisione Ue 2014/415).

Secondo alcuni commentatori, la Francia avrebbe evitato l’attivazione dell’art. 222 per mantenere un pieno controllo della crisi.

Inoltre, la clausola di solidarietà viene invocata quando lo Stato interessato “ritiene che la crisi oltrepassi chiaramente la sua capacità di reazione”.

Clausola europea e Nato
Potrebbe apparire sorprendente il fatto che la Francia abbia deciso d’invocare la clausola di difesa europea e non l’art. 5 del Trattato Nato (attivato dagli Usa dopo l’11 settembre). È un luogo comune che mentre la Nato assicura procedure e mezzi efficaci, la clausola europea avrebbe una portata più simbolica che operativa, non avendo l’Ue capacità militari.

Sul piano politico, la scelta conferma la volontà della Francia di sostenere lo sviluppo di una politica europea di difesa, per certi versi autonoma rispetto alla Nato (e agli Usa). Anche se lo stesso art. 42.7 afferma, per gli Stati Ue membri della Nato, il carattere prioritario dell’Alleanza quale meccanismo di difesa collettiva ed è ragionevole pensare che la scelta francese sia stata operata con un qualche coinvolgimento della Nato (il cui Segretario generale ha partecipato al Consiglio Ue).

Ma al di là del suo significato politico, evidenziato dall’Alto rappresentante Federica Mogherini e dal Ministro della difesa francese Jean-Yves Le Drian, quale l’impatto della clausola?

Cercasi assistenza concreta 
L’art. 42.7 stabilisce un obbligo giuridico per gli altri Stati membri di prestare aiuto e assistenza (anche se, trattandosi di politica estera e sicurezza, essi non possono esser chiamati a risponderne di fronte alla Corte Ue). Si tratta poi di un obbligo qualificato.

Ogni Stato deve valutare i mezzi in suo possesso e il generico riferimento a “aiuto e assistenza” implica che sussiste un margine di discrezionalità e uno Stato non ha l’obbligo di partecipare direttamente a missioni armate.

Inoltre, l’obbligo non pregiudica il carattere specifico della politica di difesa di taluni membri (neutralità ma anche obblighi costituzionali di ottenere il consenso del parlamento nazionale per azioni armate).

Dunque, gli altri Stati dovranno “fare qualcosa” per assistere la Francia, ma la precisa individuazione dei mezzi più appropriati per assolvere a tale obbligo resta affidata al singolo Stato. Questi dovrà comunque decidere secondo buona fede e alla luce di negoziati bilaterali colla Francia.

Dalle dichiarazioni del Ministro Le Drian emerge che non viene richiesto un sostegno puramente simbolico, ma un’assistenza concreta che, secondo modalità da concordare caso per caso, potrà declinarsi in una cooperazione nei riguardi delle operazioni francesi in Siria e Iraq ovvero in interventi di supplenza rispetto al ruolo della Francia su altri scenari (Africa, Libano).

Per il momento, al di là della solidarietà dichiarata, tra molti partner europei, inclusa l’Italia, sembra prevalere la prudenza (se non l’attendismo).

Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe.
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venerdì 20 novembre 2015

Un Problema urgente

Immigrazione
A La Valletta per recuperare il tempo perduto
Bruno Nascimbene
10/11/2015
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Il vertice internazionale che si terrà a La Valletta l’11-12 novembre 2015 per discutere dei profili più urgenti e problematici relativi alla tematica dell’immigrazione rappresenta l’occasione per formulare alcuni rilievi e proposte in argomento.

L’appuntamento vedrà la partecipazione, oltre che degli Stati membri dell’Unione europea, Ue, di organizzazioni internazionali e regionali, quali le Nazioni Unite, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, l’Unione africana, nonché di rappresentanti di vari Stati africani e di altri Paesi particolarmente interessati dal fenomeno migratorio, quali sono, in particolare, i Paesi partecipanti ai processi di cooperazione denominati “processo di Rabat” e “processo di Karthoum”, di cui si dirà oltre.

La decisione di convocare un vertice internazionale è stata presa all’esito del Consiglio europeo del 23 aprile 2015, riunito in via straordinaria in seguito ai tragici eventi verificatisi nel Mediterraneo.

La Dichiarazione adottata dal Consiglio propone, nel più ampio contesto della necessità di prevenire i flussi migratori illegali, di “rafforzare la cooperazione politica con i partner africani a tutti i livelli per affrontare la causa della migrazione illegale e contrastare il traffico e la tratta di esseri umani”, dedicando appunto un vertice ad hoc a Malta.

Affrontare l’evoluzione del fenomeno migratorio
Il vertice sull’immigrazione di La Valletta si propone pertanto da un lato di elaborare risposte condivise che vadano alla radice del problema e che si pongano quali programmi d’azione incisivi nel lungo termine; dall’altro di ricercare soluzioni più immediate da offrire alla recente evoluzione del fenomeno migratorio.

Si vogliono, insomma, studiare soluzioni comuni per affrontare sfide che sono di interesse reciproco: per la Ue e per lo sviluppo dei Paesi africani che saranno coinvolti direttamente e attivamente.

Il vertice si pone nel quadro di altra recente iniziativa, di carattere europeo-internazionale: la Conferenza sulla rotta Mediterraneo-Balcani occidentali tenutasi l’8 ottobre che ha coinvolto, oltre ai Paesi Ue (e dello Spazio economico europeo) vari organismi internazionali (Alto Commissariato per i rifugiati, Organizzazione internazionale per le migrazioni) ed europei (Frontex, Easo), oltre che vari Paesi di provenienza dei migranti.

La presa di coscienza della pressione migratoria, che è globale ed internazionale, è avvenuta con colpevole ritardo da parte della Commissione, pur appartenendo al programma politico del presidente della Commissione Juncker, ove la gestione della migrazione era indicata come una delle priorità.

Il programma, del 15 luglio 2014, ha dovuto attendere molti mesi perché si concretizzasse in un documento formale denominato “Agenda europea sulla migrazione” (del 13 maggio 2015, COM[2015]240), che fa seguito alla ricordata dichiarazione del Consiglio europeo straordinario e a una risoluzione, del 29 maggio 2015, del Parlamento europeo.

Obiettivi del vertice di La Valletta
Il vertice di La Valletta si propone, dunque, ambiziosi obiettivi.

Secondo le conclusioni del Consiglio europeo del 25-26 giugno 2015, precisamente, si vuole:

a) garantire assistenza ai Paesi partner nella lotta ai trafficanti (lotta comune, peraltro, alle finalità della Conferenza di alto livello prima ricordata);
b) rafforzare la cooperazione per quanto riguarda una efficace politica di rimpatrio;
c) migliorare la cooperazione allo sviluppo e il potenziamento degli investimenti in Africa, perché siano esaminate le “cause profonde” (in questi termini le conclusioni, punto 7c) della migrazione e siano fornite opportunità economiche e sociali. Il traffico e la tratta di esseri umani, la previsione di efficaci sanzioni penali dovrebbero essere al centro del dibattito.

Gli Stati coinvolti hanno assunto, in una dichiarazione ad hoc, una serie di impegni che, pur non creando diritti ed obblighi di diritto internazionale, e quindi non incidendo sulla sovranità nazionale degli Stati, ha un importante valore politico.

Sono indicate priorità legate allo sviluppo, alla cooperazione economica, ai vantaggi di una migrazione regolare.

Parimenti il processo di Rabat si propone la realizzazione di un dialogo politico euro-africano sulla migrazione e sullo sviluppo, coordinando, attraverso uno specifico comitato (“Comité de pilotage”) di cui fa parte anche l’Italia, le iniziative e gli organismi nazionali.

Il dialogo coinvolge ventisette Paesi africani (più l’Algeria, osservatore) e trentuno Paesi europei, nonché la Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao) e la Commissione europea.

La quarta Conferenza di tale processo, tenutasi a Roma il 27 novembre scorso ha adottato una dichiarazione politica cui è allegato un programma che definisce il quadro operativo del processo per il 2015-2017. Le due dichiarazioni dei ricordati processi assumono un significato rilevante (a un anno di distanza da quando sono state adottate), per i lavori del vertice di La Valletta.

In questo ampio quadro internazionale, l’Ue è chiamata a svolgere un ruolo di primo piano, anche attraverso l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

Gli orientamenti espressi nelle conclusioni dei Consigli europei, prima ricordate, nonché nel programma oggetto dell’Agenda della Commissione, sono coerenti con le finalità che i temi delle migrazioni e dell’asilo pongono a quel livello internazionale di cui è (e sarà) espressione il vertice.

L’impegno europeo non è sufficiente: la Conferenza ad alto livello, prima, e il vertice di La Valletta, poi, dimostrano la necessità di un quadro decisionale internazionale. Se ne è reso conto il Parlamento europeo che in una risoluzione del 10 settembre 2015 “sulle migrazioni e i rifugiati in Europa” ha chiesto alla Commissione e all’Alto rappresentante di convocare una conferenza internazionale sulla crisi dei rifugiati, con la partecipazione di agenzie, organismi internazionali, Ong, Paesi arabi, Stati Uniti, perché sia posta allo studio e sia adottata una strategia di aiuto umanitario e globale.

Il ruolo del nostro Paese al vertice di La Valletta dovrebbe essere quello di un vero e proprio protagonista nel processo di dialogo e cooperazione con i Paesi del Nordafrica, considerato il ruolo svolto e in corso di svolgimento nel processo di Khartoum e in quello di Rabat.

L’auspicio, dunque, è nel senso di un ruolo attivo ed efficace nel più vasto quadro delle relazioni internazionali.

Bruno Nascimbene è ordinario di diritto dell’Unione europea nell’Università di Milano.
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mercoledì 18 novembre 2015

La FED non tocca i tassi

Economia
Politica monetaria: quel bazooka da usare con prudenza
Marco Magnani
08/11/2015
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Ancora una volta. La Federal Open Market Committee della Fed ha deciso di lasciare invariati i tassi di interesse e la possibilità di un rialzo il 15-16 dicembre è consistente.

Tuttavia, le incertezze mostrate dalla Banca Centrale americana negli ultimi mesi sulla tempistica dell’inevitabile stretta monetaria hanno suscitato critiche e divisioni, anche all’interno della Fed. Le dichiarazioni pubbliche di alcuni membri del Board devono aver procurato a Janet Yellen un certo disagio. Il mestiere del banchiere centrale non è più quello di una volta.

Sono finiti i tempi in cui attivando poche leve s’indirizzavano le economie nazionali. Le relazioni causa-effetto erano abbastanza prevedibili e l’impatto sul resto del mondo relativamente limitato.

Oggi la maggiore complessità e l’elevata interdipendenza delle economie mondiali rendono tutto più difficile, anche in politica monetaria. Le decisioni prese dalla Fed a Washington sono attese con più ansia a Pechino, Rio de Janeiro e Mosca, di quanto non lo siano a Detroit o a Minneapolis.

Le iniziative della Banca centrale europea, Bce, a Francoforte possono cambiare gli equilibri, economici ma anche politici, di Atene, Roma e Madrid.

Politica monetaria sempre meno “convenzionale”: dalle frecce al bazooka
Le difficoltà iniziano dagli strumenti. La complessità dell’economia odierna rende quelli tradizionali - tasso di sconto, coefficiente di riserva obbligatorio e operazioni sul mercato aperto - meno efficaci e la trasmissione di stimoli all’economia reale più difficile da prevedere.

Basti pensare alla dimensione raggiunta dal shadow banking - l’intermediazione al di fuori del sistema bancario tradizionale - che rende arduo conoscere la quantità di moneta in circolazione e meno efficace l’uso di strumenti convenzionali.

Inoltre, in una situazione di tassi d’interesse prossimi allo zero (zero lower bound) alcune delle frecce nella faretra delle Banche Centrali si rivelano spuntate. Perciò si è fatto ricorso al bazooka del Quantitative Easing, Qe, una misura non convenzionale con il duplice obiettivo di aumentare l’offerta di moneta e stabilizzare il mercato del credito. Da fine 2008, in sei anni di Qe la Fed ha iniettato nell’economia statunitense 4,5 trilioni di dollari, circa il 25% del Pil.

Obiettivi nazionali, conseguenze internazionali
Gli esempi delle conseguenze derivanti dalla forte connessione fra politiche monetarie non mancano. E per la Fed il fenomeno è accentuato, essendo il dollaro la valuta di riserva mondiale.

La riduzione dei tassi della Bce nel 2003-05 è stata in parte influenzata dalla precedente politica monetaria espansiva della Fed nel 2002-04, a sua volta reazione alla recessione Usa del 2001. Il denaro facile nell’eurozona ha contribuito alle successive bolle immobiliari in Grecia, Irlanda e Spagna, le cui conseguenze economiche, sociali e politiche non sono ancora esaurite.

La politica monetaria espansiva iniziata dalla Fed a fine 2008 è stata imitata da vari paesi emergenti per evitare perdite di competitività. John Taylor di Stanford stima che dopo il Qe Usa 18 Banche Centrali - tra cui Brasile, Cina, India, Messico, Turchia - hanno mantenuto in media i tassi d’interesse 5 punti percentuali al di sotto di quanto vari benchmark di politica monetaria suggerivano.

L’effetto del cambiamento climatico sulla stabilità finanziaria 
La speculazione riguarda anche le materie prime, i cui prezzi sono raddoppiati nel periodo 2009-11. La perdita di valore del dollaro, conseguenza del Qe di Ben Bernanke, ha contribuito all’aumento dei prezzi di prodotti agricoli.

La FAO ne ha denunciato il picco storico a fine 2010. L’impatto è stato particolarmente duro nei paesi in via di sviluppo, dove la quota di reddito pro-capite destinata al cibo è elevata.

Senza arrivare ad imputare eccessive responsabilità alle decisioni della Fed, è un dato di fatto che la “primavera araba” inizia in Tunisia ed Egitto nel 2011 con manifestazioni di protesta per l’aumento dei prezzi di prodotti alimentari, che in questi paesi assorbono il 50-60% del reddito medio contro il 2-3% nei paesi europei.

Le recenti parole del governatore della Bank of England, Mark Carney, sull’impatto del cambiamento climatico sulla stabilità finanziaria, dimostrano che anche fenomeni apparentemente estranei alla politica monetaria quali l’ambiente sono oggetto di attenzione da parte dei banchieri centrali.

Stretta monetaria e fragilità dei Brics
Con l’economia Usa tornata a crescere, la Fed si appresta ad aumentare il costo del denaro. Le ripercussioni saranno diffuse e forse non solo economiche. Il rialzo dei tassi riporterà capitali negli Stati Uniti, sottraendo investimenti alle economie emergenti e svalutando le loro valute rispetto al dollaro. Il rafforzamento della valuta Usa renderà più pesanti e onerosi i debiti denominati in dollari di paesi e multinazionali straniere.

Oltre il 70% del debito pubblico in valuta in Asia e America Latina è in dollari. Tra i paesi più esposti anche Russia, Ucraina, Turchia, Brasile, Sud Africa, già segnati da rallentamenti dell’economia e tensioni politiche. Le conseguenze, anche in termini di stabilità interna e di equilibri internazionali, sono difficili da prevedere.

Il rischio si estende al settore privato. Multinazionali come la russa Gazprom, la cinese Cnooc, le brasiliane Petrobras e Vale, l’indiana Tata hanno oltre il 50% del debito in dollari. La Banca dei regolamenti internazionali stima i debiti in dollari di società non finanziarie di paesi emergenti in 9.000 miliardi (+50% in 5 anni).

Anche se non si può imputare alle Banche Centrali la responsabilità di crisi economiche, instabilità politiche e cambi di regime, la maggiore complessità e interdipendenza delle economie mondiali rende difficile stimare l’impatto e prevedere gli effetti collaterali della politica monetaria.

Le decisioni delle Banche Centrali non sono più frecce scoccate con precisione verso un bersaglio economico definito, ma sempre più spesso potenti colpi di bazooka. Da maneggiare con prudenza!

Marco Magnani è docente di Monetary & Financial Economics alla Luiss e non-resident fellow dello IAI. Come Senior Research Fellow a Harvard Kennedy School ha pubblicato “Sette Anni di Vacche Sobrie” con Utet e “Creating Economic Growth” con Palgrave Mamillan (www.magnanimarco.com. twitter @marcomagnan1).
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martedì 10 novembre 2015

Cesena. Conferenza. 23 ottobre 2015

L’incontro si è svolto  nella sala Vaienti gremitissima incentrato sul concetto di caoslandia. In una visione globale, oggi il mondo si presenta in due parti ben distinte: una serie di Stati, che hanno il potere di decidere che sono in aree di sicurezza, stabili e in piene pace: sono Gli Stati Uniti, l’Europa, la Cina La Russia, l’India ed il Sud Africa, a cui si deve aggiungere i Brasile ed il resto dei paesi della America Latina meridionale. Il resto è una regione in cui non esiste più lo stato come tale, imperversa la guerra, la violenza, la mancanza di sicurezza, la certezza del diritto; in cui vi sono fenomeni estesi di corruzione, criminalità organizzata, archi di crisi, di conflitti e di tensioni, pirateria, dove le popolazioni cercano in ogni modo di sfuggire, dando origini a fenomeni migratori di larghissime proporzioni. Area che definiamo Caoslandia


Se vediamo che l’Islam presenta cinque colori, ci risulta che abbiamo  l’Islam Nero, l.Islam Arabo, L’Islam Russo-Mongolo, L’Ilam Iraniano Indiano e l’Islam Indonesiamo.

Confrontiamo le due carte vediamo che tutto il mondo islamico è in pieno caos.

La cartina descrive i confini di caoslandia. I maggiori fenomeni si riscontrano in alcune aree che ancora chhiamiano con il vecchio nome di Stati, ma che tali non sono più.

Siria, che ormai come stato si è diviso in almeno quattro nuove entità sottostatuali: quello che rimane dello stato di Assad, arroccato sull’asse Aleppo Damasco, nell’area a maggioranza aluita appoggiato e difeso dalla Russia, che vuole mantenere in attività le sue basi a Tartus e Latakia, , che potremo definire non più Siria, ma “Aluitistan”; la Siria in mano alle forze ribelli al già potere centrale, la cui configurazione è tutta da definire; la Siria Curda, che si allaccia alla area curda  dell’Iraq, con ideali e concreti collegamenti con i curdi in Turchia e in Iran, ovvero quelle componenti del Kurdistan che è nei sogni ed aspirazioni di tutti i Curdi dalla dissoluzione dell’impero Ottomano. Infine la Siria in mano allo Stato Islamico, come da cartina 2, che occupa l’area per lo più desertica della ex Siria, ma che ha l’appoggio delle popolazioni locali che non accettano più l’autorità, da sempre lontana, ne di Damasco ne di Bagdad.

Libia: in mano a tre entità: quella tripolitina, quella cirenaica, e quella del derseto meridionale3, per essere ottimistici, ma che in realtà la frantumazione si è attestata nel sottostato tra le principali tribu e clan .

Israele: l’ennesima intifada porta lo stato ebraico a chiedere quale è la sua prospettiva di sicurezza

Queste le principali aree, poi l L’Ira, l’Afganistan, e tutta l’area subsaariana per finire in Nigeria che è untta in èieno caos. Ed  andando sia a destra, per arrivare nel sud-est asiatico,  e a sinistra oltre atlatico con il mediterraneo caraibico , con la Colombia ed il problema della droga, le Farce cc, completano il quadro.

E l’Italia?

Il nostro paese è al limite: mentre il centro nord è acorato all’area di stabilità, il meridione e sempre più vicino a caoslandia. Per ragioni che sono sotto gli occhi di tutti.

Mentre le Grandi Potenze rimeditano su come gestire questo caso, che può andare bene anche così, perché loro sono al sicuro e gli altri nel caso, l’Italia deve comprendre che le attuali alleanza hanno eprso collante, in primo luogo la Nato, che occorre ricordalo, è nata per difendersi dalla espanzione del comunismo e dell’Unione Sovietica; ora che entrambi on ci sono più, è rimasta in piedi e completamente trasformata. Che fa il nostro paese se l’Lo stato Islamanico attacca la Turchia, paese Nato?
Il rischio concreto di essere risucchiati da caoslandia sono concreti. Secondo analisti strategici[1] da sola non potrà mai farcela. “ma illuderci che “amici ed alleati” vengano spontaneamente in nostro soccorso è assolutamente da escludere. Se vuoi farti aiuta e comincia ad aiutarti  Smettere di partecipare alla disgregazioe degli stati intorno a noi, come fatto dai governi italiani passati, a cominciare dalla Jugoslavia per finire alla Libia. Cercare di collaborare con quei stati europei che mostrano, solo per spirito di conservazione, di coltivare interessi più ampio di quelli che oggi li racchiudono in spazi ristretti, come l’esperienza degli  immigrati ( muri, Marsiglia, Caen sono esempi chiari) . Questa è la speranza che coltiviamo
 Ma sicuramente tutto dipenderà da chi sarà il prossimo presidente statunitense: se vorrà imboccare la strada della strategia dell’ordine e ridurre gli spazi di caoslandia ( è l’entrata in scena della Russia sulla crisi siriana, potrebbe aiutare su questa strada) la speranza di un futuro si può coltivare. Altrimenti i tempi che oggi giudichiamo così negativi, li rimpiangeremo.




[1] Limes, Redazionale, n.6  2015

sabato 7 novembre 2015

La liberazione dei commerci mondiale

Area transatlantica di libero scambio
Ttip e Brexit: meglio pensarli insieme
Adolfo Battaglia
30/10/2015
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Una volta c’era la corsa mondiale alle materie prime. In tempi più moderni c’è la corsa mondiale alla liberalizzazione dei commerci.

Sotto questo punto di vista gli Stati Uniti sembrano in testa. Hanno raggiunto da tempo l’accordo per un mercato integrato con Canada e Messico; concluso di recente il Trattato per la partnership transpacifica con 12 nazioni asiatiche tra cui Giappone e Australia e sollecitato più volte la conclusione della trattativa per il Ttip, Transatlantic Trade and Investment Partnership, l’iniziativa lanciata da Stati Uniti e Unione europea (Ue), per la creazione di un accordo commerciale preferenziale.

A sua volta, la Cina ha in corso la trattativa con 19 paesi per l’Apec, Asia Pacific Economic Community. Mentre la Russia, avendo perso le nazioni europee, cerca a sua volta di riorganizzare qualcosa dirigendosi verso Oriente.

Europa in ritardo
E l’Europa? Come al solito è in ritardo. Divisa, incerta, esitante, le è difficile andare oltre il raggio degli interessi settoriali. E la mancanza di un disegno di respiro è perfino comprensibile, perché la crisi in cui l’Europa è precipitata da un decennio non ha finora mostrato classi dirigenti in grado di indicarne sbocchi ragionevoli.

Il negoziato euro-americano, così, prosegue stancamente. Impelagato, a quanto sembra, sulla questione della competenza giurisdizionale a decidere sulle controversie; ma più veramente, forse, dalla carenza di sostegno politico che affligge i negoziatori europei. Questo, malgrado i ripetuti inviti del presidente Usa Barack Obama.

Anche in questo caso “il tempo si è fatto breve”. Anzi, se c’era un’occasione per distogliere gli Stati Uniti dall’assegnare priorità ai problemi asiatici, è stata già mancata.

C’è da domandarsi dunque che cosa ancora si aspetti in Europa. Ricompare l’incubo della trattativa in materia di libero scambio tra Europa e Canada che durò sei anni. Ma se è vero che nell’Ue la materia è di competenza esclusiva della Commissione è anche vero che l’accordo euro-atlantico darebbe un forte contributo allo sviluppo economico dei Paesi europei: il che non dovrebbe sfuggire né al Consiglio europeo né ai differenti Consigli dei ministri dell’Ue, in cerca come sono di strumenti d’alimentazione della crescita.

Referendum sulla Brexit
Oltretutto un grande problema economico come questo si congiunge con un fondamentale evento politico: il referendum britannico sull’Europa previsto tra il 2016 e il 2017.

È già in corso il negoziato chiesto dal premier David Cameron per concedere a Londra clausole di favore che lo aiutino a battere l’idea del distacco. E sarà una storia penosa, perché è evidente che la posta è così alta da non poter pensare ad altro che a concedere più di qualcosa alla Gran Bretagna.

Ciò desterà inesorabilmente rumori e disordini nell’assetto già fragile dell’Unione. Né, d'altronde, può trattarsi di clausole così straordinarie da convincere vittoriosamente l’opinione pubblica dell’isola.

Ecco invece che un elemento di natura politica potrebbe, forse, fare meglio di ciò che difficilmente farà un negoziato strascinato. Il mercato euro-atlantico delineato dal Ttip porterebbe l’Europa a una condizione di forte connessione economica, ed inevitabilmente politica, con gli Stati Uniti. E altrettanto inevitabilmente lascerebbe la special partnership tra Gran Bretagna e Stati Uniti alquanto priva di vento nelle vele.

Il futuro della relazione Gran Bretagna-Stati Uniti 
Verrebbe colpita la concezione degli anti-europei britannici secondo la quale, dopo l’abbandono dell’Europa, il Regno Unito avrebbe come alternativa il rafforzamento della tradizionale relazione con l’America.

Sarebbe piuttosto l’Europa ad avere una special relationship con gli Stati Uniti. Se la Gran Bretagna uscisse dall’Ue troverebbe uno spazio occupato da una struttura più forte. E il costo che in ogni caso dovrebbe pagare per l’uscita diverrebbe assai maggiore.

Anche gli scozzesi più stolidi dovrebbero abbandonare questi terreni scivolosi. Esser fuori dall’Europa, isolati nel mondo, ma alle prese con i movimenti e le novità indotti dalla globalizzazione, non sembra una prospettiva che possa aiutare gli anti-europei del Regno Unito.

Può darsi che in una questione così vitale per il futuro del continente un impetuoso spirito politico trascini un’immagine vincente dell’Europa. Sarebbe un fatto nuovo.E un fatto nuovo è anche che la sua leader, la cancelliera Angela Merkel, sembra oggi avere parecchie difficoltà in Germania.

La immaginiamo esprimersi come il Riccardo II shakespeariano: un disegno, un disegno per il mio regno. Sembra in effetti averne bisogno, sia per riaffermare la posizione tedesca sia per portare l’Europa fuori dalla palude. Può riflettersi che sotto questo profilo Renzi potrebbe esserle molto utile.

Adolfo Battaglia, già Sottosegretario agli Esteri e Ministro dell’Industria.
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venerdì 6 novembre 2015

Politica dei Trasporti: le iniziative di Gazprom

Energia
Geopolitica dei gasdotti, i progetti di Gazprom
Marco Siddi
28/10/2015
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Nord Stream 2 e Turkish Stream. Sono questi i gasdotti messi in cantiere da Vladimir Putin per ridurre l’influenza dell’Ucraina sulle sue esportazioni di gas verso l’Unione europea, Ue.

Nel primo caso, si tratta dello sdoppiamento di un gasdotto già esistente, il Nord Stream, che ne espanderebbe la capacità da 55 a 110 miliardi di metri cubi l’anno. Il Turkish Stream invece trasporterebbe 63 miliardi di metri cubi annui dalla costa russa sul Mar Nero alla Turchia occidentale, e da lì si collegherebbe ai mercati europei.

Con la realizzazione dei due gasdotti, la Russia punta a sospendere completamente il transito del proprio gas in territorio ucraino entro il 2019.

Tuttavia, il progetto Nord Stream 2 dovrebbe prima ottenere l’assenso della Commissione Europea, che al momento pare poco propensa a sostenere nuovi progetti infrastrutturali che coinvolgono Gazprom. Bruxelles non vede di buon occhio nemmeno Turkish Stream; i Paesi europei dovrebbero infatti investire ingenti somme nelle infrastrutture necessarie a collegarlo ai mercati europei.

I paletti del Terzo pacchetto energia 
Oltre alle questioni economiche, la legislazione europea costituisce il principale ostacolo ai progetti russi. Secondo le norme del Terzo pacchetto energia (un insieme di direttive e regolamenti adottati dalla Ue nel 2009), la produzione e la trasmissione del gas devono essere gestite da entità separate.

Nel caso specifico di Nord Stream 2, questa regola implica che Gazprom, in quanto proprietaria della produzione del gas, dovrebbe cedere il controllo della rete di trasmissione in territorio Ue.

In alternativa, la compagnia russa dovrebbe ottenere un’esenzione dal Terzo pacchetto energia, come avvenuto per la prima sezione del gasdotto Nord Stream. Considerate le tensioni tra Mosca e Bruxelles, al momento è però poco probabile che la Commissione conceda nuove esenzioni a Gazprom.

D’altra parte, nell’aprile 2014 la compagnia russa ha aperto un contenzioso con la Ue presso l’Organizzazione mondiale del commercio, nel quale sostiene che le regole del Terzo pacchetto energia danneggiano ingiustamente i suoi interessi.

Presunto monopolio di Gazprom
La disputa sul Terzo pacchetto energia si aggiunge a quella, ancora più rilevante, relativa alle presunte politiche monopolistiche di Gazprom nell’Europa centro-orientale.

Nel settembre 2012, la Commissione europea ha aperto un’indagine su una possibile violazione da parte di Gazprom degli articoli 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Ue riguardanti la concorrenza e l’abuso di posizioni dominanti nel mercato europeo.

Lo scorso aprile, il Commissario europeo, Margrethe Vestager, ha deciso di portare avanti l’indagine. In particolare, la Commissione accusa Gazprom di aver imposto clausole di destinazione negli accordi di vendita del gas coi Paesi dell’Europa centro-orientale, dove Gazprom ha una posizione dominante.

Vietando la rivendita del gas russo, tali clausole avrebbero permesso alla compagnia di imporre prezzi differenziati sui diversi mercati nazionali.

Sempre secondo la Commissione, le differenze di prezzo non sarebbero spiegate da diversi costi di trasmissione del gas, ma da una strategia di ‘divide et impera’ dei mercati attuata da Gazprom.

Dipendenza europea dal gas russo
Nei prossimi mesi, la compagnia potrebbe raggiungere un accordo con la Commissione, correggendo o eliminando le pratiche contestate. Eviterebbe così che il contenzioso prosegua per vie legali dall’esito potenzialmente negativo (con multe persino di diversi miliardi di euro). Gazprom ha le risorse per adeguare le sue strategie commerciali alle regole della Ue e al contempo continuare a esportare con buoni margini di profitto sul mercato europeo.

D’altra parte, l’Ue non può fare a meno del gas russo, quanto meno per i prossimi 15-20 anni. Per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO₂, la Ue necessita di gas a basso prezzo come fonte alternativa a combustibili fossili più inquinanti (carbone e petrolio in primis).

Allo stesso tempo, i Paesi europei dovrebbero investire le risorse disponibili nelle energie rinnovabili, il cui sviluppo permetterebbe una crescita sostenibile e la riduzione della dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili esteri.

Questo articolo è tratto da un’analisi più ampia delle relazioni tra Ue e Russia nel settore del gas. Lo studio è qui disponibile.

Marco Siddi è ricercatore presso l'Istituto Finlandese di Affari Internazionali (FIIA) a Helsinki.
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