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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

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mercoledì 28 giugno 2017

Una minaccia sempre presente

Golfo di Aden
Pirateria: tra minaccia e stabilità
Marco Petrelli
22/06/2017
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Un angolo di mondo travagliato, un corridoio marittimo fra i più trafficati nel globo, scafi commerciali e del Wfp (Word Food Program) bersaglio di azioni di pirateria: il Golfo di Aden e il vicino Stretto di Babel Mandeb sono teatro di un'articolata serie di operazioni condotte da Nato e Onu per il contrasto agli illeciti in mare e non solo.

Un problema, quello dei predoni, che affonda le sue radici nella storia stessa del Corno d'Africa: è, infatti, dai tempi più antichi che mercanti, contrabbandieri, schiavisti solcano le acque fra l'Africa e la penisola arabica, commerciando di tutto, anche uomini. Ancora oggi, malgrado la crisi yemenita, sono migliaia i clandestini trasbordati dalla Somalia allo Yemen, disperati che cercano poi di raggiungere l'Arabia Saudita.

Dall’epoca coloniale ai giorni nostri
La pericolosità degli illeciti che si consumano nel Golfo di Aden è nota sin dall'epoca coloniale. Nel 1890, ad esempio, la Regia Marina schiera a Massaua la Divisione Navale del Mar Rosso forte di quattro incrociatori e di una cannoniera con funzioni di gendarmeria marittima. Compito che, oltre un secolo più tardi, esercita il Maritime Security Centre - Horn of Africa (Mschoa), centro operativo dal quale dipende la missione EeNavfor - Operazione Atalanta.

“La Forza Navale Europea opera in una zona compresa tra il Mar Rosso, il Golfo di Aden e parte dell’Oceano Indiano, Isole Seychelles incluse, che rappresenta una zona di mare che per grandezza è simile a tutto il Mar Mediterraneo. […] Può sequestrare le imbarcazioni appartenenti ai pirati, nonché le armi e le attrezzature ritrovate a bordo. Le persone sospettate di avere commesso atti di pirateria possono essere giudicate presso lo Stato membro Ue che le ha catturate, dallo Stato di appartenenza della nave mercantile sequestrata, oppure, in applicazione di specifici accordi con l’Unione europea siglati dal Kenya e dalle Seychelles, discrezionalmente dalle Autorità di tali Paesi. Il contingente militare interforze italiano che opera nella Base Militare Italiana di Supporto a Gibuti è composto da personale per il supporto logistico alle operazioni”: lo si legge in una nota del Ministero della Difesa dedicato all'attività dei soldati italiani a Gibuti, base nella quale si trova personale di tutte le FFAA, dalla Marina forte della fregata Espero agli operatori del 32° Stormo dell'Aeronautica Militare che lavorano con i droni MQ-1C Predator A+, velivoli a comando remoto indispensabili per il pattugliamento aereo di un così esteso specchio d'acqua. C’è pure, a protezione della base, un distaccamento di fucilieri dell'aria dell'Aeronautica, subentrato al 3̊ Rgt Alpini lo scorso febbraio.

Italiani, ma non solo: americani e financo serbi
Al fianco degli italiani, inoltre, ci sono giapponesi, statunitensi (USAfricom), francesi della 13° demi Brigade della Legione straniera e, fino al 2014, i reparti d'elite del VojskaSrbije, come si legge in una nota dell'esercito di Belgrado: “I membri delle forze speciali serbe hanno il primario compito di garantire la sicurezza della nave MSM Douro che trasporta merci per il World Food Program".

Uno schieramento di uomini e mezzi ingente che, tuttavia, non riesce a debellare un fenomeno che ha ripreso vigore inseguito alle sanguinose guerre civili che hanno infiammato Somalia ed Eritrea nell'ultimo ventennio.

“La mancanza di opportunità educative e di lavoro è una delle principali fonti di tensione per la maggior parte dei giovani della Somalia, cosa che li espone all'adescamento da parte di gruppi terroristici e di pirati. La Somalia ha uno dei tassi di iscrizione scolastica più bassi al mondo - poco più del 40% dei bambini va a scuola - e uno dei più alti tassi di disoccupazione giovanile del mondo. L'aspettativa di vita è bassa a causa di elevati tassi di mortalità infantile e materna, della diffusione di malattie, prevenibili, della scarsa igiene sanitaria, della malnutrizione cronica e dei servizi sanitari inadeguati”. Così il World Factbook della Cia (Central Intelligence Agency) descrive la situazione interna somala.

Povertà, criminalità e terrorismo
Un quadro simile a quello uzbeko e tagiko: per chi ha necessità di sopravvivere l'illecito può anche diventare una fonte di reddito. E per le forze navali e terresti internazionali la miseria è un nemico pericoloso quanto il pirata che opera sì sul mare, ma recluta, si rifornisce e si arma a terra, forte dell'assenza di controlli e dell'instabilità del territorio.

Alla criminalità, poi, si aggiunge il pericolo rappresentato da organizzazioni terroristiche, altra piaga che mina la sicurezza della Somalia. E, malgrado gli sforzi internazionali come la missione Amisom (African Union Mission in Somalia), l'isolamento di alcune aree interne rende ancora più precaria la stabilità politica e sociale. Nel rapporto Dei (Diplomazia Economica Italiana), il Ministero degli Esteri ricorda che “la pressoché totale assenza di infrastrutture adeguate, soprattutto nel settore dei trasporti, come porti, aeroporti, strade, ecc, rende gran parte del Paese, e in particolare alcune regioni remote dell’entroterra, difficilmente accessibili”.

Ironia della sorte, altra missione Onu impiegata nel Corno è quella del Qatar che, con il ruolo di mediatore sulle dispute territoriali fra Eritrea e Gibuti (sfociate in aperto conflitto nel 2008), mantiene sulla Penisola di Ras Doumeira un proprio contingente militare con funzioni di peacekeeping.

Una missione di pace all'estero nello stesso momento in cui il Qatar è tutt'altro che in pace e sereno: le accuse di sostenere il terrorismo internazionale mosse da Arabia Saudita, Bahrein, Egitto ed EAU e l'annuncio turco di inviare un contingente di supporto a Doha sono segnali piuttosto evidenti d’una crisi internazionale che sposterà l'attenzione del mondo sui Paesi del Golfo Persico, dimenticando, ancora una volta, tutte quelle aree più periferiche (dalla Somalia al Libano) in cui forze multinazionali operano da anni per assicurare pace e sicurezza nonostante la scarsa, se non quasi inesistente, attenzione dei media e dell'opinione pubblica internazionali.

Marco Petrelli, Laureato in Storia all'Università degli Studi di Firenze è giornalista e collaboratore di testate, online, nazionali per le quali approfondisce argomenti legati alla politica internazionale e alla difesa. È autore di due libri sull'Aeronautica Nazionale Repubblicana.

Alla ricerca di una soluzione al problema dei migranti

Politica estera e di difesa
Ue: un anno di Strategia Globale, un punto
Lorenzo Vai
21/06/2017
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Circa un anno fa, nonostante il referendum sulla Brexit, il Consiglio europeo dava il benvenuto alla Strategia Globale Ue presentata dall’alto rappresentante Federica Mogherini. Oggi, con il primo rapporto sull’attuazione della Strategia indirizzato ai 28 capi di Stato e di governo che si riuniranno a Bruxelles nel Vertice del 22-23 giugno, si possono trarre le prime valutazioni di quella scelta. E sembra proprio che il coraggio dimostrato allora nell’andare avanti nonostante la Brexit stia pagando.

Un documento da non tenere nel cassetto
La prima novità interessante è di metodo. La Strategia Globale Ue, la Eugs, prometteva di essere - a differenza della Strategia di sicurezza europea promossa da Javier Solana nel 2003 - un documento “vivente”, sottoposto a monitoraggio e adeguato e aggiornato laddove ritenuto necessario. La prima pubblicazione del rapporto annuale sull’attuazione della Eugs va quindi considerata in quest’ottica.

Il documento è suddiviso in sezioni che richiamano le priorità dell’azione esterna europea identificate nella Eugs. Si sofferma quindi sulle azioni intraprese per sostenere la resilienza dei Paesi del vicinato europeo considerati fragili, sull’approfondimento di un approccio integrato da parte Ue nella gestione dei conflitti e delle crisi, sugli sviluppi della difesa europea, sul coordinamento della sicurezza tra la sua dimensione interna ed esterna, sugli aggiornamenti apportati alle strategie regionali e tematiche dell’Ue e sugli sforzi nel campo della diplomazia pubblica.

Negli ultimi dodici mesi, le proposte presentate e le iniziative lanciate per ognuno dei capitoli della strategia sono state numerose. In molti casi sarebbe forse prematuro tentare di dare un giudizio sul loro successo, ma potere constatare un buon attivismo da parte dell’alto rappresentante è già una buona notizia, visti i precedenti.

Realizzare un approccio globale
Ciò che ben emerge dalle sezioni del rapporto in maniera trasversale è la costante ricerca di un approccio globale che, facendo fede al nome della Strategia, riuscisse a costruire una politica estera dell’Ue basata su una maggiore coerenza e sinergia tra tutte le sue politiche (comunitarie e non), le sue istituzioni ed i suoi Stati membri.

Nella fase di attuazione della Eugs questa idea si è declinata in un metodo di lavoro - la joined-up Union - il più possibile partecipato e aperto a tutti gli attori interessati e si è oltremodo concretizzata nelle azioni intraprese. La nascita di una divisione del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) dedicata alla prevenzione dei conflitti, alla riforma dei settori della sicurezza e della giustizia, alla stabilizzazione e alla mediazione (Prevention of conflict, Rule of Law/Security Sector Reform/Integrated Approach, Stabilisation and Mediation - Prism), che lavora in stretto collegamento con la Commissione in una cornice di approccio integrato alle crisi, ne è un esempio.

O ancora: la cooperazione rafforzata tra Seae, Commissione e agenzie Ue quali Europol o Eurojust nella lotta al terrorismo; la nascita della guardia di frontiera e costiera europea unita all’ampliata cooperazione politica ed economica con i Paesi terzi per migliorare la gestione del fenomeno migratorio; il tentativo di sfruttare al meglio il potenziale comunicativo e di dialogo offerto dalle 139 delegazioni dell’Ue sparse per il mondo, soprattutto nel momento in cui tra istituzioni europee e Stati si può vantare un’univoca coerenza di messaggi e posizioni.

Per quanto riguarda le strategie settoriali e geografiche, la Eugs conferma la sua funzione di Strategia quadro, all’interno dei cui orientamenti vengono definiti programmi d’azione più specifici, come è già avvenuto, ad esempio, per la Politica europea di vicinato, la Strategia spaziale europea, la Strategia dell’Ue per le relazioni culturali internazionali, oppure la Strategia europea per la Siria.

Difesa europea: bicchiere mezzo pieno?
Un’attenzione particolare merita l’area sicurezza e difesa. Un rinnovato livello di ambizione da parte dell’Ue, indubbiamente facilitato dalla finestra di opportunità spalancata dalla Brexit, ha reso ad oggi possibile la creazione di un quartier generale per le operazioni di addestramento (non di combattimento) condotte dall’Ue (Military Planning and Conduct Capability - Mpcc), e l’inizio, nell’autunno 2017, di una revisione annuale coordinata tra gli Stati membri dei piani di difesa nazionali (Coordinated Annual Review of Defence - Card) al fine di migliorare lo scambio di informazioni, la pianificazione e la cooperazione.

Manca ancora all’appello una riforma degli strumenti di reazione militare rapida, i Battlegroups, per renderli più facilmente utilizzabili e finanziariamente più efficienti, il che comporterà peraltro una revisione del “meccanismo Athena” (spesso criticato). E l’Alto Rappresentante è stato incaricato dal Consiglio di presentare l’atteso piano di rafforzamento della capacità civili di risposta alle crisi.

Tuttavia, la portata principale, quella attesa da molti (e da molti anni) risponde al nome di Cooperazione Strutturata Permanente (Permanent Structured Cooperation - Pesco). Come già auspicato su queste pagine, il rapporto conferma che i prossimi mesi potrebbero essere quelli buoni per definire i criteri, gli obblighi e la governance della Pesco, in modo da arrivare ad un suo lancio entro della fine dell’anno.

Si tratta di un obiettivo carico di prospettive, che unito al coordinamento della Card, e agli stimoli economici assicurati dal Fondo europeo per la difesa della Commissione, potrebbe rappresentare uno storico salto in avanti per il processo d’integrazione in uno dei suoi momenti più difficili.

Viste le premesse della nascita, il primo anno della Eugs è da considerarsi positivo. Il documento è riuscito a promuovere il dibattito sulla politica estera dell’Ue e a sostenere il lancio di iniziative non scontate. Se nel rapporto i pessimisti non avranno difficoltà a trovare una maggioranza di buone intenzioni su una sostanza ancora minoritaria, gli ottimisti potranno sempre dire che quattro anni fa le cose erano messe molto peggio. Per comprendere fino a che punto la Eugs sarà servita a rendere più efficiente ed efficace l’azione esterna dell’Ue toccherà aspettare ancora un po’. Solitamente, anche i bambini iniziano ad alzarsi in piedi e a camminare dopo il primo anno di vita.

Lorenzo Vai è ricercatore dello IAI e del Centro Studi sul Federalismo.

domenica 18 giugno 2017

Verso nuovi orizzonti nella cooperazione

Cooperazione
Sviluppo: ‘partnership’ rimpiazza ‘aiuto’
Giampaolo Silvestri, Maria Laura Conte
16/06/2017
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La parola ”aiuto” allo sviluppo non piace più molto a Bruxelles, sepolta dalla storia e da esperienze che non hanno prodotto risultati validi. La parola regina agli European Development Days - 7 e 8 giugno - era piuttosto“partnership”: partnership tra Paesi diversi, tra Paesi e Ue, tra soggetti plurali come realtà della società civile, Ong e settore privato.

Per usare un’immagine plastica: è come se il piano inclinato sotto il peso di diseguaglianze che si manifestano a livello internazionale dovesse e potesse ritrovare la sua posizione di equilibrio intorno a questo cardine.

Basta interventi neo-colonialistici
Lo ha scandito il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker. E lo hanno ribadito leader e portavoce dei Paesi africani presenti: non vogliamo più interventi di stamponeo-colonialistico, hanno dichiarato; chiediamo interventi in cui noi giochiamo alla pari con gli altri.

In questo grande open space che sono gli ‘Edd’, la “Davos della cooperazione” come li chiama qualcuno, l’Italia quest’anno si è ritagliata un posto di rilievo: non solo perché c’erano e sono intervenuti nei vari dialoghi molti responsabili della nostra cooperazione internazionale, ma anche perché, a tre anni dall’introduzione della legge 125, si è verificato che anche il nostro Paese è attrezzato per stare al passo con i trend internazionali.

E forse è capace di qualcosa di più: non solo ha gli strumenti (l'Agenzia, un viceministro dedicato, il riconoscimento del settore privato come soggetto di cooperazione, il ruolo di Banca di Sviluppo della Cassa depositi e prestiti, il Consiglio nazionale della Cooperazione), ma ha anche la spinta a un’azione di ampio respiro. O almeno ci vuole provare.

Italia: migrazioni, strumenti e spinta
Si pensi al tema delle migrazioni: il contributo dell’Italia è stato all’origine del Migration Compact europeo. Ora il punto è non ristagnare e continuare a battere un sentiero anche se c’è chi sembra smarrirsi. Ma verso dove?

Ci sono alcuni temi che incrociandosi, generano situazioni di crisi e richiedono il nostro contributo di esperienze maturate sul campo insieme a idee innovative: migrazione e sviluppo da un lato; e migrazione e sicurezza dall’altro.

Il tema migrazioni verso l’Europa non si risolve provando a spostare i confini europei in Africa, investendo fondi destinati alla lotta contro la povertà (Trust Fund Africa) per aumentare i controlli e la polizia di frontiera. Questo piano sta mostrando la sua debolezza: sotto la spinta demografica, della fame, della siccità, delle guerre, comunque i flussi migratori trovano sempre varchi attraverso cui passare.

La chiave dei posti di lavoro
Se partiamo dai dati di realtà, approdiamo a un’altra parola che risuona a tutte le latitudini: job creation, posti di lavoro.Una condizione irrinunciabile sia per contenere le partenze di migranti, sia per per favorire l’integrazione.L’External Investment Plan (Eip) che l’Unione europea sta attivando e che potrebbe mobilitare 60 miliardi da destinare alle imprese intenzionate ainvestire in Africa, potrebbe essere una grande occasione di creazione di veri posti di lavoro con il coinvolgimento della società civile e delle realtà e istituzioni locali.

Vale anche per i rifugiati. Chi opera nei campi dei profughi siriani, solo per citare uno dei tanti casi, sa per esperienza che un progetto di cash-for-work può permettere, achi sosta per tempi infiniti nei campi in Libano, in Giordania o in Kenya,di riguadagnare la propria dignità. Un progetto di questo tipo sostenuto dalla Cooperazione italiana in Libano attesta questo nel dettaglio.

Il denaro contante in cambio di un lavoro, che molto spesso è di utilità pubblica, giova in due modi: all’Europa, che così contiene l’arrivo di nuovi disperati, e ai Paesi di origine delle migrazioni. Previene infatti la dispersione delle “risorse umane”, capitale prezioso per Paesi che, come la Siria, a un certo punto, finita la guerra, dovranno ripartire dal loro popolo. Chi arriva in Europa di rado torna indietro.

L’abbinamento lavoro/educazione
Ma il lavoro non basta. Il lavoro senza educazione rischia di avere il fiato corto, come il viceversa. Educazione senza lavoro, genera frustrazione. Solo che il tempo che viviamo chiede di definire bene “educazione”. Si è usata questa parola come un mantra nella cooperazione, ma le sfide di oggi chiedono di considerarne non solo il contenitore, ma anche i contenuti.

Educazione non coincide con istruzione, deve essere quality education, educazione inclusiva, prevedere accanto alla trasmissione di competenze tecniche, anche una precisa “sostanza”.

Pensando che pure i reclutatori d’estremisti violenti aprono scuole e investono in forme di training, in Avsi proviamo a sintetizzare così l’alternativa: accompagnare a pensare criticamente e scoprire che l’altro, chiunque sia - la persona diversa per cultura, appartenenza, religione, ecc - è un bene sempre, quindi non può essere percepita mai come un ostacolo da far fuori.

Il progetto Back to the future
Questa per esempio è la sfida del progetto Back to the future, finanziato dal fondo Madad, che Avsi con altri partner sta realizzando in Libano e Giordania. I numeri aiutano a capirne la misura: 30.000 i bambini coinvolti in Libano, 10.000 in Giordania, per un totale di 200.000 beneficiari indiretti.

Lavoro ed educazione intesi in questo modo meritano, dunque, il massimo degli investimenti che si vogliano destinare a sviluppo e sicurezza. A tre condizioni: la capacità di pensare a lungo termine; la libertà dagabbie ideologiche e dai ritmi delle campagne elettorali; la collaborazione con tutti i soggetti coinvolti, a partire dall’Unione europeae da un uso intelligente delle sue regole e dei suoi strumenti.

Giampaolo Silvestri, segretario generale AVSI; Maria Laura Conte, direttrice comunicazione AVSI.
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La fine di un era

Ue/Germania
Morte Kohl: il cancelliere della mia infanzia
Daniela Huber
18/06/2017
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Sono nata in Baviera nel 1981, un anno prima che Helmut Kohl diventasse cancelliere. Ciò vuol dire che fino ai miei 17 anni sono cresciuta sotto un solo capo di governo. Provenendo da una famiglia socialdemocratica, nei miei ricordi Kohl è stato il cancelliere che ha attuato la strategia del doppio binario adottata dalla Nato nel 1979 (quando ancora al governo era l’Spd di Helmut Schmidt) in seguito alla crisi degli euro-missili, nonostante le forti proteste del movimento pacifista.

Kohl è stato il leader che non solo visitò insieme al presidente statunitense Ronald Reagan il cimitero di Bitburg in cui sono sepolti i soldati della Waffen SS, ma che al Parlamento israeliano parlò della fortuna della sua “tarda nascita” (era classe 1930), che gli evitò il servizio militare durante la seconda guerra mondiale (una dichiarazione che lo pone nel solco di una tradizione aperta con la “genuflessione di Varsavia” dell’allora cancelliere Willy Brandt nel ghetto della capitale polacca e seguita dallo storico discorso dell’allora presidente Richard von Weizsäcker davanti al Bundestag, a 40 anni dalla fine del conflitto).

Kohl è stato anche il cancelliere che pressoché unilateralmente ha imposto la sua idea di una Germania unita, ma che al termine della sua carriera politica è finito anche per essere coinvolto in un grosso scandalo di finanziamenti illeciti al suo partito, la Cdu. In quell’occasione, Kohl si posizionò sopra la legge, rifiutando di cooperare con la commissione parlamentare d’inchiesta. Nel 1997, l’allora presidente Roman Herzog sentenziò che la Germania aveva bisogno di un nuovo slancio (“durch Deutschland musse in Ruckgehen”); slancio che sembrò arrivare con l’elezione, l’anno successivo, del socialdemocratico Gerhard Schröder.

La fine di un’era
Guardando indietro dopo quasi 20 anni, la fine del periodo di governo di Helmut Kohl rassomiglia anche alla fine di un’era, tanto in Germania quanto in Europa. A livello domestico, si può dire che Kohl abbia rappresentato la fase conclusiva del modello dell’economia sociale di mercato alla tedesca, come impostata negli anni Sessanta dall’allora cancelliere Ludwig Erhard. Ironia della sorte, fu invece la sinistra di Schröder a mettere in campo l’agenda 2010 e a far avanzare la Germania nell’economia globalizzata.

In politica estera, Helmut Kohl è stato uno degli ultimi grandi statisti europei: colui il quale ha condotto la Germania attraverso il tumultuoso periodo post-riunificazione tanto in casa quanto in Europa e a livello internazionale. Il cancelliere ancorò l’identità tedesca alla cornice europea: una mossa necessaria per mitigare le paure di una rinnovata ascesa di Berlino particolarmente diffuse nel Regno Unito, in Francia e in Polonia.

Kohl comprese le istanze di Washington e Mosca, negoziando insieme al suo ministro degli Esteri Hans Dietrich Genscher (scomparso l’anno scorso) il Trattato 2+4 sullo stato finale della Germania, un contributo chiave della diplomazia alla costituzione di un ordine di pace in Europa, oltre che la piattaforma essenziale per la costruzione di una politica estera della Germania unita. Per quanto spesso dimenticato, fu proprio il Trattato 2+4 a riconoscere come definitivo il confine della Germania orientale con la Polonia, così ponendo fine alla lunga era post-bellica e alla possibilità di future rivendicazioni territoriali.

Fra Berlino e Bruxelles
Helmut Kohl è stato uno degli ultimi politici europei della sua generazione a far avanzare, insieme al suo amico François Mitterand, presidente francese, il processo di integrazione europea sulla base di quel “consenso permissivo” che presto sarebbe divenuto un dissenso vincolante. Kohl fu determinante nello gettare le fondamenta del Trattato di Maastricht e nella costruzione dell’Unione monetaria. “Der Kanzlerder Einheit”, il cancelliere dell’unità, aveva inquadrato la riunificazione tedesca nel contesto europeo.

Due passaggi storici che non potevano che stare assieme: una Germania unita non era possibile che nella cornice di un’Europa unita, e un’Europa unita non era praticabile se non con una Germania unita. Dopo Kohl, nessun altro cancelliere tedesco ha più proposto un’ambiziosa visione per l’Europa. Semmai, come la crisi del debito greco ha dolorosamente mostrato agli occhi dell’Europa mediterranea, l’umile visione del ruolo della Germania nell’Unione che fu di Kohl sembra essere stata ampiamente dimenticata dall’attuale governo di Berlino.

Helmut e Angela
Kohl è stato anche l’artefice della strategia politica cosiddetta dell’“Aussitzen”, dell’attendismo. Una tattica di successo che ha in seguito adottato anche Angela Merkel, che lui era solito chiamare “mein Mädchen”, “la mia ragazza”, rivendicandone la paternità politica. Più tardi si sentì tuttavia tradito dalla sua pupilla, quando lei lo esortò a dimettersi da presidente onorario della Cdu, in seguito allo scandalosui finanziamenti illeciti.

Proprio come il suo mentore, anche la Merkel potrebbe puntare al quarto mandato di governo in Germania. E, sempre come Kohl, la cancelliera ha dimostrato di esser capace di attraversare indenne periodi turbolenti della vita politica tedesca, come di recente con la gestione della crisi dei rifugiati, un campo di battaglia da cui sembra uscire vincitrice. La Merkel non ha prodotto idee innovative per la campagna elettorale che si concluderà con il voto del 24 settembre, ma approfitta della debolezza del partito socialdemocratico, l’Spd, che pure inizialmente sembrava sfruttare il rientro in patria di Martin Schulz.

Come già il quarto mandato di Kohl, una così rinnovata e longeva guida della Merkelpotrebbe anche tradursi in una stagnazione per il Paese, soprattutto se i risultati delle urne dovessero nuovamente rendere inevitabile la Grande Coalizione fra Cdu e Spd. In questo caso, un nuovo vento riformatore in grado di ispirare l’Europa verrebbe semmai dalla Francia, piuttosto che dalla Germania, ma la cancelliera sembra entusiasta di poter lavorare con Emmanuel Macron.

In Germania, l’eredità politica di Helmut Kohl è ancora oggi offuscata dallo scandalo delle donazioni alla Cdu, una vicenda che lo statista renano non riuscì mai davvero a superare. A livello europeo, tuttavia, egli rimane fonte di ispirazione. Oggi, con gli euroscetticismi in ascesa, l’Ue ha bisogno di uomini e donne di governo con una chiara visione del progetto europeo, capaci di lavorare sinergicamente su una piattaforma condivisa.

Daniela Huber è Senior Fellow dell’Istituto Affari Internazionali (Twitter: @dhuber81).

*Traduzione dall’originale in inglese a cura della Redazione.
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