Economia Politica monetaria: quel bazooka da usare con prudenza Marco Magnani 08/11/2015 |
Ancora una volta. La Federal Open Market Committee della Fed ha deciso di lasciare invariati i tassi di interesse e la possibilità di un rialzo il 15-16 dicembre è consistente.
Tuttavia, le incertezze mostrate dalla Banca Centrale americana negli ultimi mesi sulla tempistica dell’inevitabile stretta monetaria hanno suscitato critiche e divisioni, anche all’interno della Fed. Le dichiarazioni pubbliche di alcuni membri del Board devono aver procurato a Janet Yellen un certo disagio. Il mestiere del banchiere centrale non è più quello di una volta.
Sono finiti i tempi in cui attivando poche leve s’indirizzavano le economie nazionali. Le relazioni causa-effetto erano abbastanza prevedibili e l’impatto sul resto del mondo relativamente limitato.
Oggi la maggiore complessità e l’elevata interdipendenza delle economie mondiali rendono tutto più difficile, anche in politica monetaria. Le decisioni prese dalla Fed a Washington sono attese con più ansia a Pechino, Rio de Janeiro e Mosca, di quanto non lo siano a Detroit o a Minneapolis.
Le iniziative della Banca centrale europea, Bce, a Francoforte possono cambiare gli equilibri, economici ma anche politici, di Atene, Roma e Madrid.
Politica monetaria sempre meno “convenzionale”: dalle frecce al bazooka
Le difficoltà iniziano dagli strumenti. La complessità dell’economia odierna rende quelli tradizionali - tasso di sconto, coefficiente di riserva obbligatorio e operazioni sul mercato aperto - meno efficaci e la trasmissione di stimoli all’economia reale più difficile da prevedere.
Basti pensare alla dimensione raggiunta dal shadow banking - l’intermediazione al di fuori del sistema bancario tradizionale - che rende arduo conoscere la quantità di moneta in circolazione e meno efficace l’uso di strumenti convenzionali.
Inoltre, in una situazione di tassi d’interesse prossimi allo zero (zero lower bound) alcune delle frecce nella faretra delle Banche Centrali si rivelano spuntate. Perciò si è fatto ricorso al bazooka del Quantitative Easing, Qe, una misura non convenzionale con il duplice obiettivo di aumentare l’offerta di moneta e stabilizzare il mercato del credito. Da fine 2008, in sei anni di Qe la Fed ha iniettato nell’economia statunitense 4,5 trilioni di dollari, circa il 25% del Pil.
Obiettivi nazionali, conseguenze internazionali
Gli esempi delle conseguenze derivanti dalla forte connessione fra politiche monetarie non mancano. E per la Fed il fenomeno è accentuato, essendo il dollaro la valuta di riserva mondiale.
La riduzione dei tassi della Bce nel 2003-05 è stata in parte influenzata dalla precedente politica monetaria espansiva della Fed nel 2002-04, a sua volta reazione alla recessione Usa del 2001. Il denaro facile nell’eurozona ha contribuito alle successive bolle immobiliari in Grecia, Irlanda e Spagna, le cui conseguenze economiche, sociali e politiche non sono ancora esaurite.
La politica monetaria espansiva iniziata dalla Fed a fine 2008 è stata imitata da vari paesi emergenti per evitare perdite di competitività. John Taylor di Stanford stima che dopo il Qe Usa 18 Banche Centrali - tra cui Brasile, Cina, India, Messico, Turchia - hanno mantenuto in media i tassi d’interesse 5 punti percentuali al di sotto di quanto vari benchmark di politica monetaria suggerivano.
L’effetto del cambiamento climatico sulla stabilità finanziaria
La speculazione riguarda anche le materie prime, i cui prezzi sono raddoppiati nel periodo 2009-11. La perdita di valore del dollaro, conseguenza del Qe di Ben Bernanke, ha contribuito all’aumento dei prezzi di prodotti agricoli.
La FAO ne ha denunciato il picco storico a fine 2010. L’impatto è stato particolarmente duro nei paesi in via di sviluppo, dove la quota di reddito pro-capite destinata al cibo è elevata.
Senza arrivare ad imputare eccessive responsabilità alle decisioni della Fed, è un dato di fatto che la “primavera araba” inizia in Tunisia ed Egitto nel 2011 con manifestazioni di protesta per l’aumento dei prezzi di prodotti alimentari, che in questi paesi assorbono il 50-60% del reddito medio contro il 2-3% nei paesi europei.
Le recenti parole del governatore della Bank of England, Mark Carney, sull’impatto del cambiamento climatico sulla stabilità finanziaria, dimostrano che anche fenomeni apparentemente estranei alla politica monetaria quali l’ambiente sono oggetto di attenzione da parte dei banchieri centrali.
Stretta monetaria e fragilità dei Brics
Con l’economia Usa tornata a crescere, la Fed si appresta ad aumentare il costo del denaro. Le ripercussioni saranno diffuse e forse non solo economiche. Il rialzo dei tassi riporterà capitali negli Stati Uniti, sottraendo investimenti alle economie emergenti e svalutando le loro valute rispetto al dollaro. Il rafforzamento della valuta Usa renderà più pesanti e onerosi i debiti denominati in dollari di paesi e multinazionali straniere.
Oltre il 70% del debito pubblico in valuta in Asia e America Latina è in dollari. Tra i paesi più esposti anche Russia, Ucraina, Turchia, Brasile, Sud Africa, già segnati da rallentamenti dell’economia e tensioni politiche. Le conseguenze, anche in termini di stabilità interna e di equilibri internazionali, sono difficili da prevedere.
Il rischio si estende al settore privato. Multinazionali come la russa Gazprom, la cinese Cnooc, le brasiliane Petrobras e Vale, l’indiana Tata hanno oltre il 50% del debito in dollari. La Banca dei regolamenti internazionali stima i debiti in dollari di società non finanziarie di paesi emergenti in 9.000 miliardi (+50% in 5 anni).
Anche se non si può imputare alle Banche Centrali la responsabilità di crisi economiche, instabilità politiche e cambi di regime, la maggiore complessità e interdipendenza delle economie mondiali rende difficile stimare l’impatto e prevedere gli effetti collaterali della politica monetaria.
Le decisioni delle Banche Centrali non sono più frecce scoccate con precisione verso un bersaglio economico definito, ma sempre più spesso potenti colpi di bazooka. Da maneggiare con prudenza!
Marco Magnani è docente di Monetary & Financial Economics alla Luiss e non-resident fellow dello IAI. Come Senior Research Fellow a Harvard Kennedy School ha pubblicato “Sette Anni di Vacche Sobrie” con Utet e “Creating Economic Growth” con Palgrave Mamillan (www.magnanimarco.com. twitter @marcomagnan1).
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Sono finiti i tempi in cui attivando poche leve s’indirizzavano le economie nazionali. Le relazioni causa-effetto erano abbastanza prevedibili e l’impatto sul resto del mondo relativamente limitato.
Oggi la maggiore complessità e l’elevata interdipendenza delle economie mondiali rendono tutto più difficile, anche in politica monetaria. Le decisioni prese dalla Fed a Washington sono attese con più ansia a Pechino, Rio de Janeiro e Mosca, di quanto non lo siano a Detroit o a Minneapolis.
Le iniziative della Banca centrale europea, Bce, a Francoforte possono cambiare gli equilibri, economici ma anche politici, di Atene, Roma e Madrid.
Politica monetaria sempre meno “convenzionale”: dalle frecce al bazooka
Le difficoltà iniziano dagli strumenti. La complessità dell’economia odierna rende quelli tradizionali - tasso di sconto, coefficiente di riserva obbligatorio e operazioni sul mercato aperto - meno efficaci e la trasmissione di stimoli all’economia reale più difficile da prevedere.
Basti pensare alla dimensione raggiunta dal shadow banking - l’intermediazione al di fuori del sistema bancario tradizionale - che rende arduo conoscere la quantità di moneta in circolazione e meno efficace l’uso di strumenti convenzionali.
Inoltre, in una situazione di tassi d’interesse prossimi allo zero (zero lower bound) alcune delle frecce nella faretra delle Banche Centrali si rivelano spuntate. Perciò si è fatto ricorso al bazooka del Quantitative Easing, Qe, una misura non convenzionale con il duplice obiettivo di aumentare l’offerta di moneta e stabilizzare il mercato del credito. Da fine 2008, in sei anni di Qe la Fed ha iniettato nell’economia statunitense 4,5 trilioni di dollari, circa il 25% del Pil.
Obiettivi nazionali, conseguenze internazionali
Gli esempi delle conseguenze derivanti dalla forte connessione fra politiche monetarie non mancano. E per la Fed il fenomeno è accentuato, essendo il dollaro la valuta di riserva mondiale.
La riduzione dei tassi della Bce nel 2003-05 è stata in parte influenzata dalla precedente politica monetaria espansiva della Fed nel 2002-04, a sua volta reazione alla recessione Usa del 2001. Il denaro facile nell’eurozona ha contribuito alle successive bolle immobiliari in Grecia, Irlanda e Spagna, le cui conseguenze economiche, sociali e politiche non sono ancora esaurite.
La politica monetaria espansiva iniziata dalla Fed a fine 2008 è stata imitata da vari paesi emergenti per evitare perdite di competitività. John Taylor di Stanford stima che dopo il Qe Usa 18 Banche Centrali - tra cui Brasile, Cina, India, Messico, Turchia - hanno mantenuto in media i tassi d’interesse 5 punti percentuali al di sotto di quanto vari benchmark di politica monetaria suggerivano.
L’effetto del cambiamento climatico sulla stabilità finanziaria
La speculazione riguarda anche le materie prime, i cui prezzi sono raddoppiati nel periodo 2009-11. La perdita di valore del dollaro, conseguenza del Qe di Ben Bernanke, ha contribuito all’aumento dei prezzi di prodotti agricoli.
La FAO ne ha denunciato il picco storico a fine 2010. L’impatto è stato particolarmente duro nei paesi in via di sviluppo, dove la quota di reddito pro-capite destinata al cibo è elevata.
Senza arrivare ad imputare eccessive responsabilità alle decisioni della Fed, è un dato di fatto che la “primavera araba” inizia in Tunisia ed Egitto nel 2011 con manifestazioni di protesta per l’aumento dei prezzi di prodotti alimentari, che in questi paesi assorbono il 50-60% del reddito medio contro il 2-3% nei paesi europei.
Le recenti parole del governatore della Bank of England, Mark Carney, sull’impatto del cambiamento climatico sulla stabilità finanziaria, dimostrano che anche fenomeni apparentemente estranei alla politica monetaria quali l’ambiente sono oggetto di attenzione da parte dei banchieri centrali.
Stretta monetaria e fragilità dei Brics
Con l’economia Usa tornata a crescere, la Fed si appresta ad aumentare il costo del denaro. Le ripercussioni saranno diffuse e forse non solo economiche. Il rialzo dei tassi riporterà capitali negli Stati Uniti, sottraendo investimenti alle economie emergenti e svalutando le loro valute rispetto al dollaro. Il rafforzamento della valuta Usa renderà più pesanti e onerosi i debiti denominati in dollari di paesi e multinazionali straniere.
Oltre il 70% del debito pubblico in valuta in Asia e America Latina è in dollari. Tra i paesi più esposti anche Russia, Ucraina, Turchia, Brasile, Sud Africa, già segnati da rallentamenti dell’economia e tensioni politiche. Le conseguenze, anche in termini di stabilità interna e di equilibri internazionali, sono difficili da prevedere.
Il rischio si estende al settore privato. Multinazionali come la russa Gazprom, la cinese Cnooc, le brasiliane Petrobras e Vale, l’indiana Tata hanno oltre il 50% del debito in dollari. La Banca dei regolamenti internazionali stima i debiti in dollari di società non finanziarie di paesi emergenti in 9.000 miliardi (+50% in 5 anni).
Anche se non si può imputare alle Banche Centrali la responsabilità di crisi economiche, instabilità politiche e cambi di regime, la maggiore complessità e interdipendenza delle economie mondiali rende difficile stimare l’impatto e prevedere gli effetti collaterali della politica monetaria.
Le decisioni delle Banche Centrali non sono più frecce scoccate con precisione verso un bersaglio economico definito, ma sempre più spesso potenti colpi di bazooka. Da maneggiare con prudenza!
Marco Magnani è docente di Monetary & Financial Economics alla Luiss e non-resident fellow dello IAI. Come Senior Research Fellow a Harvard Kennedy School ha pubblicato “Sette Anni di Vacche Sobrie” con Utet e “Creating Economic Growth” con Palgrave Mamillan (www.magnanimarco.com. twitter @marcomagnan1).
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