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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

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lunedì 28 aprile 2014

Panoramica degli ultimi sette giorni. 28 aprile 2014

Le notizie della settimana in 10 righe

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di Niccolò Locatelli
RUBRICA IL MONDO OGNI SETTIMANA Se negli ultimi 7 giorni è successo qualcosa di importante, se ne parla qui. Con link per approfondire.

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[Dettaglio della carta di Laura Canali "Russia contro Occidente"]
Ucraina È lettera morta l'accordo di GinevraUsa e Russia minacciano conseguenze.

Gli aiuti militari degli Usa all'Egitto sono ripresi.

Per la prima volta in 99 anni, un premier turco (Erdoğan) ha offerto le propriecondoglianze ai nipoti degli armeni uccisi durante gli "eventi del 1915".

Israele sospende i colloqui di pace dopo l'accordo tra Hamas e Fatah in Palestina.

Il Brasile ha approvato una legge - imperfetta - sulla neutralità di Internet.

"Elezioni" Egitto, solo 2 candidati; Siria al voto il 3 giugno; Algeria, ancora Bouteflika.

Crisi aperte Sud Sudan: centinaia di morti e una svolta in peggioGrecia: surplus primario, non accadeva da anni. Bogotá (Colombia): Gustavo Petro è tornato sindaco.

Carta finale: Paure bianche in Sudafrica: domenica sono 20 anni senza apartheid.

Il mondo ogni settimana è una rubrica che cerca di analizzare gli eventi più interessanti (non necessariamente i più popolari) dell'attualità internazionale, privilegiando temi geopolitici ed economici. Questa puntata riguarda i giorni tra il 19 e il 26 aprile 2014. Per leggere le puntate precedenti clicca quila rubrica è anche surss, facebook e twitter (profilo dell'autore).
(26/04/2014)
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mercoledì 16 aprile 2014

Europa: la crisi nelle regioni orientali

Crisi ucraina 
L’effetto domino della Crimea 
Andrea Carteny
09/04/2014
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La riannessione della Crimea da parte della Russia sembra aprire una nuova fase storica nelle relazioni internazionali. Sotto i riflettori sono le recenti mosse di Mosca in Ucraina orientale, che possono sfociare in un’escalation, e la nuova strategia degli Stati Uniti e dell’Alleanza Atlantica per la creazione di un nuovo “cordone sanitario” di contenimento dell’espansionismo russo - un vero e proprio “new containment” sulla falsariga di quello della Guerra Fredda.

Nazionalisti ungaro-segleri
Non molti però hanno messo in relazione questi eventi con altre rivendicazioni nazionali anche interne all’Unione europea, in particolare quelle che sono all’origine dei contrasti tra Ungheria e Romania.

Il 15 marzo scorso, giorno in cui gli ungheresi ricordano la rivoluzione di Pest del 1848, in Transilvania si sono svolte manifestazioni degli autonomisti della minoranza seclera (in ungherese székelyek, in romeno secui) di lingua e cultura ungherese.

Con gli scontri tra nazionalisti ungaro-secleri e polizia romena si torna ad un clima di agitazione che negli anni si era anestetizzato, dopo i violenti scontri di Targu Mures (in ungherese Marosvasarhely) del marzo 1990 che caratterizzarono questa regione, anticipando i conflitti etnici poi esplosi in Jugoslavia.

Al contempo, il parlamento di Tiraspol, la capitale della Transnistria, regione secessionista della Moldova, ha avviato i negoziati per la proclamazione della propria riunificazione con la Russia. La Transnistria, con oltre mezzo milione di abitanti, è a maggioranza russo-ucraina e si è dichiarata indipendente nel 1992, alla caduta dell’Unione Sovietica, dopo un breve conflitto militare con le forze moldave.

La presenza militare russa nella regione - circa un migliaio di soldati - sarebbe stata rafforzata, secondo alcune fonti non confermate, dopo il referendum in Crimea.

Ritorno della grande Romania?
Intanto in Moldova riprende forza il movimento nazionalista “grande” romeno per la riunificazione con la Romania. Così, accanto alla mobilitazione “contro” le rivendicazioni di autonomia territoriale dei secleri ungarofoni, riemerge in Romania anche la questione della riunificazione con la Moldova per la ricostituzione di quella “Grande Romania” che fu uno dei cardini del sistema di Versailles dopo la prima guerra mondiale.

La prima fase della crisi ucraino-russa, incentrata sulla Crimea, sembra aver tracciato un modello per i movimenti secessionisti che prevede la proclamazione della “sovranità” da parte di comunità russe, quindi lo svolgimento di un referendum, e infine la legittimazione da parte di Mosca.

Questo scenario sembra riprodursi a Donetsk, Karkhiv e in altre regioni dell’Ucraina a maggioranza russa, dove il 7 aprile gruppi di russofoni hanno occupato alcune istituzioni locali. Il governo di Kiev ha denunciato questa mobilitazione come la seconda fase della strategia geopolitica di Mosca.

In verità, ad alimentare il secessionismo è anche l'assenza di un assetto federale nei paesi postcomunisti che includono aree culturalmente ed etnicamente molto differenziate, il che provoca gravi fratture e tensioni.

L’Ucraina fatica a trovare un equilibrio tra il modello centralista delle cosiddette forze pro-occidentali vecchie e nuove guidate da leader come Julia Timoscenko e Vitalj Klichko e quello federalista, cardine della piattaforma del Partito delle Regioni dell’ex presidente Viktor Yanukovich.

Non solo i russi, ma anche le altre minoranze, in primis i romeni di Cernovchi o gli ungheresi di Beregovo, hanno sostenuto le politiche del partito di Yanukovich, che durante l’ultima amministrazione ha dotato l’Ucraina di una legge sul bilinguismo locale tra le più avanzate della regione.

Federalizzazione della Moldova
In Moldova, oltre alla secessione de facto della regione transnistriana, vi è l’insofferenza delle comunità slavofone e soprattutto di quella della regione della Gagauzia, popolata da comunità rom filo-russe, per il rafforzamento dell’elemento romeno.

I progetti di federalizzazione della Moldova si scontrano con lo scoglio delle rappresentanze delle varie etnie negli organi federali. Inoltre, la maggioranza della popolazione (i 2/3 dei circa tre milioni di abitanti) di lingua romena è sempre più integrata con la Romania, che vede come sua madrepatria (quasi mezzo milione hanno la doppia cittadinanza moldovena-romena).

Anche in Romania il problema del federalismo e della regionalizzazione torna come un fiume carsico proprio in risposta alle esigenze della minoranza ungherese di Transilvania, un milione e mezzo di ungarofoni, la metà dei quali concentrata in un paio di province nel centro del paese.

Eppure la chiave di volta per la comprensione dei conflitti endemici della regione sta proprio nella mancata valorizzazione dei territori periferici. A risentirne è anche l’immagine dell’Ue, da cui le popolazioni di queste regioni speravano venisse un sostegno ben più robusto al disegno autonomistico.

La secessione della Crimea, al di là del ruolo di Mosca, rischia perciò di creare un effetto “domino” verso Occidente che potrebbe arrivare fino in Ungheria: Crimea e altre regioni russe dell’Ucraina sperano di unirsi a Mosca, così come la Transnistria, il resto della Moldova vuole fondersi con Bucarest, la “terra dei secleri” con Budapest.

È un fatto che in queste regioni i federalisti sono perlopiù filo-russi o anti-europei. Bruxelles, Washington e le cancellerie europee dovrebbero tenerne conto.

Andrea Carteny è Docente di Storia delle minoranze etniche presso l'Università di Teramo e Segretario del Comitato di Roma dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano.
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giovedì 10 aprile 2014

Africa: un genocidio che non si può dimenticare

A vent'anni dal genocidio un nuovo Ruanda sta vedendo la luce

Il Paese sembra procedere sulla via dello sviluppo anche se le ferite che lo hanno afflitto non sono ancora del tutto cicatrizzate

Roma,  (Zenit.orgFilippo Romeo | 79 hits

É stata l'accensione di una fiamma avvenuta a Kigali, il 7 aprile scorso, a dare l'avvio alle celebrazioni del ricordo di quei cento giorni di atroce mattanza che si consumarono vent'anni fa in Ruanda. Una guerra barbara e fratricida, combattuta tra i due gruppi etnici Hutu e Tusu, con l'utilizzo di armi bianche quali machete, bastoni, asce e coltelli, che ha lasciato sul terreno circa 800.000 vittime. Un tribale bagno di sangue che si è consumato tra l'assordante silenzio della “comunità internazionale” – e in special modo della Francia e degli Stati Uniti – che ad oggi può essere qualificata la principale e diretta responsabile dell'accaduto.
Eloquenti, a tal proposito, le recenti dichiarazioni del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che durante la cerimonia di Kigali è intervenuto rimarcando che «il genocidio resta una vergogna per le Nazioni Unite». Tale frase fa il paio con quelle pronunciate in passato dal suo omologo Boutros Ghali il quale, dopo aver riconosciuto il suo personale fallimento, osservò come il caso del «Ruanda è un fallimento non solo per l'ONU, ma anche per l'intera comunità internazionale. Siamo tutti responsabili di questo fiasco». A distanza di vent'anni, e nonostante il fatto che rimangono ancora molte zone d'ombra sulla responsabilità di quei tragici eventi, è stato acclarato che, come per la maggior parte delle guerre tribali che insanguino il continente nero, anche nel serrato confronto tra gli Hutu e i Tusu si è combattuta una guerra per procura tra Francia e Stati Uniti per l'acquisizione di punti strategici e zone di influenza nell'area dei grandi laghi.
La divisione tra i due gruppi – che, a parte le differenze sociali, condividono lingua cultura e religione – affonda le sue radici agli inizi degli anni '20 del ventesimo secolo. Indotta dai coloni belgi per avere il pieno controllo del regime, consistette nella messa a punto della strategia del dividi et impera che produsse una netta separazione tra le comunità, alimentata da un'ideologia razzista. I Tusu, minoranza dedita alla pastorizia che rappresentava il 14% della popolazione benestante, furono i prescelti rispetto agli Hutu che costituivano la classe contadina.
Tale stato di cose, prolungatasi fino al 1962, mutò a seguito dell'abbandono del Ruanda da parte del Belgio che offrì una preziosa opportunità agli Hutu di organizzarsi per la presa del potere che fu ottenuto e mantenuto fino agli '90. Ma, sul finire degli anni '80, la caduta del prezzo del caffè, unitamente agli interventi successivi del FMI e della Banca Mondiale, mandarono in crisi l'economia del Ruanda provocando una nuova radicalizzazione delle tensioni. Ciò portò alla divisione tra gli stessi Hutu e ad un tentativo di invasione del Paese da parte del Fronte Patriottico Ruandese (Fpr), costituitosi nella confinante Uganda dalla diaspora Tusu, fortemente militarizzata e politicizzata.
Da quel momento la tensione crebbe a dismisura, alimentata dalle autorità governative che, oltre a diffondere tra la popolazione un generalizzato sentimento di psicosi, provvedettero all'addestramento dell'esercito e all'acquisto di armi (dalla Cina furono portati ben 500.000 machete), il tutto con il supporto del governo francese di allora presieduto da Mitterand. Questo clima esacerbato di tensioni giunse al culmine la sera del 6 aprile del 1994 allorquando l'esplosione dell'aereo su cui viaggiava l'allora Presidente ruandese provocò un boato che squarciò i cieli della capitale segnando, di fatto, l'avvio delle tragiche violenze che si consumarono nei successivi cento giorni di mattanza e che terminarono a seguito dell'intervento del FPR, comandato dall’attuale presidente Paul Kagame.
A tal proposito, molti analisti hanno fatto emergere che le operazioni del  FPR furono supportate dalle forze speciali statunitensi e dalla CIA che fornirono al gruppo i missili terra aria di fabbricazione russa per colpire l'aereo presidenziale. Secondo gli stessi, infatti, l'obiettivo degli Stati Uniti era scalzare la Francia, che aveva di fatto acquisito posizioni strategiche nel Paese, e sostituendo il governo in carica con un governo filo statunitense; ciò al fine di costituire in Ruanda una sorta di protettorato che gli permettesse di avere un punto d'appoggio strategico in Africa centrale.
A vent'anni dai quei tragici episodi, e nonostante le continue speculazioni messe in campo dalla parte governativa, il Ruanda appare oggi un Paese normalizzato che ha voglia di riscattarsi. Indicativo, a tal proposito, è il tasso di crescita economica che si aggira intorno al 6,5%, con la produzione del caffè che sta migliorando di parecchio il suo rendimento, nonché la presenza di numerosi imprenditori stranieri che vogliono investire nel Paese. Importanti risultano essere anche gli introiti provenienti dal settore estrattivo minerario che, sin dai tempi della colonizzazione belga, hanno conferito al Paese un ruolo di importanza notevole, accresciuta oltremodo con il boom dell'industria ultra tecnologica che ha trasformato il coltanin una preziosa risorsa strategica.
Negli ultimi anni il Ruanda è riuscito a sviluppare questo settore, nonostante il contrabbando dei minerali congolesi abbia reso difficile la distinzione tra produzione locale e minerali trafugati in Congo. Sul punto la Conferenza internazionale della regione dei Grandi Laghi (Cirgl) ha inteso predisporre un meccanismo di tracciabilità per consentire a tutti gli Stati membri di comprovare l’origine ufficiale e non bellicosa dei minerali al fine di poterli esportare.
Dagli elementi testè riportati, molti analisti sono fiduciosi nel tratteggiare un Ruanda che, a vent'anni dal genocidio, appare un Paese che sta procedendo sulla via dello sviluppo anche se non può tacersi il fatto che le ferite che lo hanno afflitto non sono ancora cicatrizzate. Le tensioni, infatti, potrebbero riesplodere anche a causa delle ruggini che sussistono con i Paesi confinanti, quali Tanzania e Repubblica democratica del Congo che, sostenendo forze anti-Kigali con l’obiettivo di destabilizzare il regime del presidente Paul Kagame, di certo non garantiscono la piena stabilità del Paese.

martedì 8 aprile 2014

Le notizie della settimana in 10 righe


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di Niccolò Locatelli

IL MONDO OGNI SETTIMANA Se negli ultimi 7 giorni è successo qualcosa di importante, se ne parla qui. Con link per approfondire.

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[Carta di Laura Canali, per ingrandire clicca qui]
Ucraina: la Russia non ha invaso l'Est del paese. Può farlo in breve (3-5 giorni) secondo la Nato, che ha sospeso la cooperazione con Mosca. Il Cremlino aumenta il prezzo del gas che vende a Kiev (+80%), vuole un'Ucraina federale e ha un piano per la Crimea.

La pace tra Israele e Palestina, dopo i fatti di questa settimana, è ancora più lontana.

Persa la battaglia contro i social network, Erdoğan ha vinto le elezioni locali in Turchia.

La Nato ha compiuto 65 anni e scelto il prossimo segretario generale: non è Frattini.

Crisi aperte Usa-Cuba: ZunZuneo, il twitter cubano finanziato da Usaid contro i Castro.Siria: i rifugiati in Libano della guerra civile sono diventati oltre 1 milioneClima: per l'Onu, il peggio deve ancora venire. Incidente nelle acque di Corea.

Carta finale: L'esagono di Francia, che dopo le amministrative tende a destra.

Il mondo ogni settimana è una rubrica che cerca di analizzare gli eventi più interessanti (non necessariamente i più popolari) dell'attualità internazionale, privilegiando temi geopolitici ed economici. Questa puntata riguarda i giorni tra il 29 marzo e il 4 aprile 2014. Per leggere le puntate precedenti clicca quila rubrica è anche su rss, facebook e twitter (profilo dell'autore).
(4/04/2014)
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India: dalle urne previsione di instabilità

Elezioni in India
Spettro ingovernabilità sulla cavalcata di Modi 
Daniele Grassi
06/04/2014
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L'establishment economico-finanziario indiano ha individuato nel leader del Bharatiya Janata Party (Bjp), Narendra Modi, il proprio candidato alle prossime elezioni. Ma nemmeno l'ascesa dei nazionalisti e la disfatta annunciata del Partito del Congresso sembrano poter scongiurare l'ipotesi di un governo debole, con prevedibili conseguenze per la crescita del Paese.

Modi alla guida del Guangdong indiano
Tra il 7 aprile e il 12 maggio, quasi 815 milioni di indiani (circa 1/6 della popolazione mondiale) saranno chiamati a eleggere i membri della nuova Lok Sabha (Camera bassa) tra oltre 15 mila candidati nelle elezioni più costose nella storia dell'India.

L'impennata dei costi dipenderebbe in primo luogo dalla faraonica campagna elettorale di Modi, favorito a guidare il prossimo governo indiano. La sua candidatura è sostenuta con convinzione dalla classe economica indiana, appoggio che si è già tradotto nello stanziamento di centinaia di milioni di rupie e ha condizionato l'atteggiamento dei media nei confronti del leader del Bjp.

Sin dall'annuncio della sua candidatura, infatti, numerosi mezzi di informazione (molti dei quali controllati proprio dall'establishment economico-finanziario) hanno avviato una campagna mediatica tesa a sottolineare i successi ottenuti da Modi durante gli anni trascorsi alla guida dello stato del Gujarat e ad esaltarne le credenziali come possibile capo del governo di Nuova Delhi.

I dati sullo sviluppo economico del Gujarat appaiono, invero, incontrovertibili. Definito dall’Economist il “Guangdong indiano” (in riferimento a una tra le più ricche province della Repubblica popolare cinese), il Pil del Gujarat è cresciuto durante il suo governo a un tasso medio di circa il 10%, costantemente al di sopra di quello nazionale.

Con solo il 5% del totale della popolazione indiana, questo stato assorbe circa il 16% della produzione manifatturiera nazionale e 1/4 del totale delle esportazioni. Risultati resi possibili da una forte semplificazione delle procedure burocratiche e dalla grande attenzione del leader del Bjp nei confronti di ogni singolo investitore, atteggiamento che gli è valso anche il sostegno della comunità economica internazionale (a novembre l'agenzia americana Goldman Sachs ha alzato il rating dell'India proprio in previsione di una sua possibile affermazione alle prossime elezioni).

Congresso, Terzo fronte e Partito dell’uomo comune 
Al momento, tuttavia, il leader del Gujarat non ha ancora delineato la sua agenda economica, limitandosi a rivendicare i successi ottenuti a livello locale. Se per alcuni si tratta di una scelta politica tesa a lasciare a Modi un margine di manovra per contrastare il populismo delle altre forze politiche, l'assenza di una precisa piattaforma economica dipenderebbe, per altri, dalla volontà di tenere assieme le varie anime del partito, una più spiccatamente liberista e un'altra più marcatamente nazionalista anche in ambito economico.

Il sostegno della classe economica indiana, dunque, sembra più dipendere dai timori di un'eventuale vittoria del Congresso o del cosiddetto “Terzo fronte” (coalizione che riunisce vari partiti regionali e altre formazioni di sinistra), che da una reale e cieca fiducia nei confronti di Modi.

Gli ultimi anni del governo guidato da Manmohan Singh, premier appartenente la partito del Congresso, infatti, sono stati contraddistinti da numerosi scandali per corruzione e da una lunga serie di mancate riforme, con un tasso di crescita del Pil più che dimezzatosi (si è passati dal +10% del 2010-2011 all'attuale +4,9%).

Allo stesso modo, la breve esperienza dell'Aam aadmi party (Aap, Partito dell'uomo comune) alla guida del governo dello stato di Nuova Delhi è stata segnata da una politica economica marcatamente populista che ha evidenziato la scelta di questa formazione di non assumersi reali responsabilità di governo, preferendo rimanere collocata nella più agevole, ed elettoralmente più proficua dimensione della protesta. L'eterogeneità del “Terzo fronte”, infine, lascia poche speranze circa l'attuazione di un programma economico chiaro e coerente.

Sebbene l'affermazione del Bjp come primo partito appaia fuori discussione (secondo i sondaggi, potrebbe addirittura far registrare la migliore performance di sempre, superando i 182 seggi ottenuti nel 1998), rimangono dubbi sulle sue capacità di mettere assieme una coalizione di governo (per la maggioranza occorrono 273 seggi), tanto da non consentire nemmeno di escludere l'ipotesi di un governo guidato da uno dei leader del “Terzo fronte”, con l'appoggio esterno del Congresso.

Resta, dunque, lo spettro di un esecutivo troppo debole per adottare quelle riforme strutturali di cui il paese necessita e offrire agli investitori stranieri le necessarie garanzie di stabilità.

Corte Suprema indiana e corruzione
La diffidenza di molti partiti nei confronti di Modi è dovuta a uno stile di governo ritenuto eccessivamente autoritario e accentratore, dunque poco incline all'arte del compromesso e della mediazione.

Il leader del Bjp è senza dubbio uno dei personaggi più controversi della recente storia indiana. Una figura fortemente divisiva, la cui storia politica resterà sempre macchiata dalle violenze che si verificarono nel 2002 nel “suo” Stato, il Gujarat, quando un attentato contro un treno che trasportava pellegrini indù di ritorno da Ayodhya scatenò la dura reazione della popolazione locale contro la comunità musulmana, con un bilancio di oltre mille vittime.

Nel 2012 una speciale commissione d’inchiesta nominata dalla Corte Suprema indiana ha assolto Modi (ma non alcuni dei suoi più stretti collaboratori) dall'accusa di aver in qualche modo appoggiato le violenze perpetrate dai nazionalisti indù. Di recente, anche la comunità internazionale ha messo da parte ogni perplessità di carattere etico (nel 2005, gli Usa gli hanno negato il visto di ingresso), stabilendo legami diretti con quello che potrebbe essere il futuro leader dell'India.

Toccherà adesso agli elettori decidere se assecondare la trionfale cavalcata di Modi ai vertici del potere o se invece consegnare alle autorità un mandato poco chiaro, compromettendo, almeno nel breve periodo, le possibilità di ripresa economica del Paese.

Daniele Grassi è security analyst per Infocer
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venerdì 4 aprile 2014

Armi Europe in Asia

Indonesia

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Il gruppo franco-inglese Thales equipaggerà l'Esercito indonesiano con la piattaforma di difesa aerea mobile a corto raggio ForceShield. E' la prima vendita di tale sistema da quando, due anni or sono, la multinazionale europea ha rilanciato la propria offerta nel campo della difesa aerea integrata.
Ogni batteria del sistema ForceShield è costituita da missili StarStreak, da un radar ControlMaster200 e da una base di lancio mobile RapidRanger. Sono cinque le batterie che verranno fornite, per ora, alle Forze Armate di Giakarta, di cui quattro risalenti ad un contratto siglato nel 2011. Il contratto ha un valore di 164 milioni di dollari ed include un accordo con la compagnia statale indonesiana PT Len Industri per l'integrazione congiunta di alcuni dei sottosistemi compresi nella fornitura e per l'avvio di future collaborazioni nel campo militare e civile.
L'acquisto delle piattaforme sarà coperto all’80% tramite l’emissione di un prestito, il cui iter burocratico dovrebbe incominciare in primavera. Questo tipo di operazioni a debito sono sempre più comuni dalle parti di Giakarta: nell'aprile 2013, ad esempio, le autorità indonesiane avevano già raccolto 108 milioni di Euro per l'acquisizione di 34  obici calibro 155/52 CAESAR, prodotti dalla francese Nexter.
L’acquisizione del sistema ForceShield è l'ultima, in ordine di tempo, di una lunga serie di operazioni finalizzate a modernizzare le Forze Armate indonesiane. Giakarta, infatti, si sta dotando di nuovi carri armati, pezzi d'artiglieria da 155 mm e veicoli da combattimento per la fanteria, senza contare le armi leggere anti-carro recentemente acquistate dalla svedese Saab.

Fonte CESI - Roma

martedì 1 aprile 2014

Europa: un quadro quanto mai inquietante

Euro e integrazione 
Exit strategy dallo stato confusionale europeo
Loukas Tsoukalis
30/03/2014
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In Europa, la crisi si manifesta sotto forme diverse, con economie che arrancano, alcune di esse vicine addirittura all’implosione, partiti anti-sistema in ascesa, un crescente scollamento tra politica e società ed il sostegno al processo di integrazione europea che registra i minimi storici di popolarità. A tutto ciò fa da contraltare una crescente frammentazione tra e all’interno dei singoli stati.

Le origini di tali problemi vanno ricercate nel passato. Nel corso degli anni, il progetto europeo si è fatto molto più grande, mentre la competizione con l’esterno si è intensificata in un mondo che si globalizza rapidamente. Il permissivo consenso su cui esso ha per vari decenni riposato non può più essere dato per scontato.

Euro e integrazione
La creazione dell’euro ha rappresentato il più audace atto d’integrazione e il fattore trainante all’origine di ciò è stato rappresentato dalla politica piuttosto che dall’economia. Appare oggi chiaro come gli europei abbiano voluto l’unione monetaria, ma non i mezzi necessari a renderla fattibile nel lungo periodo. In tal senso, l’euro ha rappresentato un madornale errore di cui ora paghiamo lo scotto.

Era sì un disegno imperfetto, ma è pur sempre vero la sorte non ha arriso, dato che il primo vero banco di prova è giunto in concomitanza con la più grande crisi finanziaria dopo quella del 1929. Risultato di colossali fallimenti tanto dei mercati quanto delle istituzioni certamente non solo in Europa, la crisi nel suo corso ha messo a nudo la debolezza dell’edificio voluto a Maastricht, così come la fragilità dei rapporti inter-governativi ed inter-statuali.

Ha contribuito altresì a svelare tutta una serie di “casi problematici” all’interno della famiglia europea e ha mostrato i limiti del potere politico rispetto ad un’economia priva di confini, la quale detta il passo e spesso detta anche le regole.

Tuttavia, contrariamente alle previsioni degli euro-scettici, il peggio è stato sinora evitato. Il crollo dell’euro avrebbe prodotto incalcolabili conseguenze politico-economiche dentro e fuori dell’unione monetaria. Molti “atti impensabili” sono stati posti in essere al fine di evitare tutto ciò.

D’altro canto, le misure di assestamento si sono rivelate più dolorose e si sono protratte più a lungo nella zona euro che altrove. I leader politici europei hanno cercato di guadagnare tempo, dimostrando un forte istinto di sopravvivenza ogniqualvolta si siano avvicinati al bordo del precipizio, ma scarsa visione strategica. Chi paga il conto dell’uscita dalla crisi? Questo rimane il nodo politico più spinoso.

Rischi dell’eurozona
L’Europa è divisa tra creditori e debitori, tra eurozona e gli altri. I contrasti solcano profondamente anche gli Stati, dato che le ineguaglianze continuano a crescere. La fiducia è bassa, l’economia imperfetta e la politica tossica. Nel frattempo, l’austerità imposta ai paesi debitori ha avuto ripercussioni devastanti sulle loro economie, società e sistemi politici. È fuor di discussione che questi paesi abbiano vissuto troppo a lungo di tempo e denaro presi a prestito.

Alcuni ritengono o sperano che il peggio sia ormai alle spalle. I mercati appaiono da qualche tempo relativamente calmi, mentre gli Stati iniziano a riemergere da dolorosi programmi di aggiustamento e sono comparsi i primi segnali di ripresa economica. Questo è lo scenario ottimista.

Altri, tuttavia, paiono meno ottimisti. Essi ci ricordano come il rischio deflazione per l’Europa incomba, mentre la crescita rimarrà probabilmente modesta, fragile ed ineguale nel prossimo futuro. Le lunghe fila degli inoccupati non saranno in grado di trovare occupazione in tempi relativamente contenuti e l’estremismo politico ha il vento in poppa.

Il debito pubblico è ora molto più alto di quanto fosse all’inizio della crisi e quello privato rimane anch’esso elevato. L’Europa sembra dover affrontare l’avvenire con scarse probabilità di successo.

La Germania è emersa come il paese indispensabile ed il prestatore di ultima istanza - e la cancelliera Angela Merkel come il leader indiscusso dell’Europa in crisi. Nel Vecchio Continente gli equilibri di potere si sono modificati. La Germania gode di vantaggi strutturali in un’unione monetaria che opera quale moderna versione del gold standard e poco altro.

Tuttavia, l’esperienza storica suggerisce che tale meccanismo potrebbe non avere vita lunga, a meno che l’unione monetaria europea non acquisisca una base di legittimità tanto fiscale quanto politica su cui poggiare.

Le forze centrifughe appaiono forti sia tra che all’interno dei singoli paesi. Ciò che mantiene ancora unita l’Europa è il collante politico che si è solidificato nei vari decenni di stretta cooperazione e, fattore ancor più importante, la paura dell’alternativa.

Allo stato attuale, serpeggia una diffusa insoddisfazione circa lo stato di salute dell’Unione e, agli occhi di molti europei, il processo d’integrazione si è tramutato in un gioco a somma negativa.

Ciononostante, la maggioranza rimane ancora convinta del fatto che i costi della disintegrazione sarebbero anche più alti. In un certo senso, tutto ciò costituisce una sorta di equilibrio del terrore, un equilibrio tuttavia instabile ed incline a provocare incidenti di percorso.

Nuovo patto per l’Europa
L’Europa ha bisogno di un nuovo grande Patto per tagliare il suo nodo gordiano. L’iniziativa può muovere solo dai forti, non di certo dai deboli. In che misura i tedeschi saranno disposti a (o in grado di) sottoscrivere il progetto europeo? In che misura i paesi debitori dimostreranno volontà o capacità di riformarsi?

Questi costituiscono tasselli essenziali del rompicapo europeo, quantunque non sufficienti. Il nuovo grande patto richiederà un’ampia coalizione di paesi e delle principali famiglie politiche europee, che riconoscano il valore del progetto europeo e la necessità di dargli nuova forma in un contesto che evolve molto rapidamente.

L’economia improntata all’offerta e l’obiettivo di un consolidamento fiscale di lungo termine devono essere urgentemente accompagnati da misure volte ad incoraggiare la domanda e stimolare la crescita. In assenza di risposte credibili alle questioni del debito e della ricapitalizzazione degli istituti bancari, in assenza di un chiaro programma per rafforzare la dimensione economica dell’unione economico-monetaria, le prospettive di crescita rimarranno incerte, se non fosche, e la realizzabilità del progetto dell’euro si incrinerà ulteriormente.

Il progetto europeo deve diventare ancor più inclusivo, in modo da poter ovviare sempre più alle necessità di coloro che escono sconfitti da un lungo processo di trasformazione economica culminato nella grande crisi degli ultimi anni. Ad oggi, l’agenda conservatrice dell’Europa non appare in grado di fornire risposte adeguate.

A meno di cambiamenti, i partiti anti-sistema ed i movimenti di protesta continueranno ad avere buon gioco, così come il nazionalismo ed il populismo. Rappresenterebbe un segnale di estrema miopia l’etichettare tutte le forme di protesta come populiste, e così semplicemente sdoganarle. Il populismo e l’euroscetticismo montanti dovrebbero, al contrario, fungere da monito per ferite infettatesi ormai da tempo. Monito che potrebbe trasformarsi in allarme rosso a seguito dei risultati delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo previste per il prossimo maggio.

Futuro del vecchio continente
L’euro costituisce ormai un tema che determinerà il successo o il fallimento dell’Europa. È altresì diventato il vanto del progetto europeo, il che fa pensare che difficilmente cambierà nell’immediato futuro. Dobbiamo pertanto tirare le necessarie conclusioni. Allo stato attuale, la governance dell’euro non appare né efficace né legittimata. Urgono efficaci strumenti di politica, istituzioni comuni più forti, maggiore responsabilità democratica ed organi esecutivi in grado di agire con poteri discrezionali. Ciò garantirebbe il bilanciamento con una serie di politiche nazionali le quasi risultano anch’esse necessarie.

E tutto ciò porta ad un nuovo trattato sull’euro, il quale dovrebbe risultare in grado di affrontare le prove democratiche nei paesi membri, a condizione che nessun paese possa avere il diritto di impedire ad altri di andare avanti e che ogni parlamento nazionale - e/o i cittadini, qualora venisse indetto un referendum in proposito - venga messo di fronte ad una scelta chiara, cioè “dentro” o “fuori”. La legittimazione democratica deve essere conquistata, non può essere concessa.

Alcuni paesi europei, in particolare il Regno Unito ma anche altri, non sembrano avere la voglia o la prontezza necessarie per compiere un tale passo in avanti. Dovrebbe esserci spazio per questi attori sotto il più ampio ombrello dell’Ue mediante una revisione dei trattati esistenti. Maggiore flessibilità e differenziazione saranno necessari in un’Ue a 28 o più.

Se si persiste nell’attuale stato confusionale, l’Europa rimarrà debole, divisa al proprio interno e sempre più incline a guardarsi l’ombelico: un continente in declino ed in fase di invecchiamento, sempre più irrilevante in un mondo in continuo cambiamento e con vicini poveri ed altamente instabili. La sfida non consiste semplicemente nel salvare la comune divisa.

Consiste nell’elaborare una più efficace gestione dell’interdipendenza, nel placare i mercati, nel creare le condizioni per uno sviluppo sostenibile e società più coese, nel rafforzare la democrazia e trasformare l’integrazione regionale una volta ancora in un gioco a somma positiva: obiettivi sicuramente ambiziosi, ma anche una sfida che vale la pena accettare.

Più integrazione dove serve e più responsabilità nazionale o locale ogniqualvolta sia possibile: questo potrebbe essere il motto per l’Europa. Se ce la facessimo, avremmo persino utili lezioni da impartire al resto del mondo.

Loukas Tsoukalis è professore di Integrazione europea all'Università di Atene e presidente della Hellenic Foundation for European and Foreign Policy.

Traduzione di Leonardo Tiengo.
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