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mercoledì 31 agosto 2016

Il confine orientale dell'Europa

Europa
Brexit: euforia a Mosca, sconforto a Kiev
Cono Giardullo
21/08/2016
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Il referendum britannico sulla Brexit ha inferto un altro colpo durissimo - il secondo, quest’anno - al rispetto e all’ammirazione di Kiev per il progetto europeo.

Se infatti in aprile erano stati gli olandesi, con un referendum consultivo, a dirsi contrari alla ratifica dell’accordo di associazione Ue-Ucraina, il verdetto del voto in Gran Bretagna fa temere l’inizio di una lenta disgregazione del sogno europeo, lo stesso che aveva portato in strada migliaia di persone durante le proteste di piazza Maidan.

Al contrario, per Mosca si tratta di una specie rara di vittoria in politica estera. Perché, seppur il Cremlino sperasse da tempo che populismi e crisi economica potessero intaccare l’unità europea, il voto espresso dai cittadini di Sua Maestà frena i sogni di integrazione e d’allargamento dell’Unione europea senza che Putin e compagni abbiano dovuto muovere un dito.

Ucraina e Ue
L’Ucraina, il più popoloso e vasto paese del vicinato orientale, è ancora una priorità per l’Ue? Limitandoci ad ascoltare i politici, la risposta è sì.L’est del paese è sconvolto da oltre due anni da un conflitto ibrido, nel quale Bruxelles ha investito tanto capitale politico, e al quale non può disinteressarsi ora, data la recrudescenza delle operazioni militari e il numero di vittime che ha raggiunto nuovi picchi, second ogli ultimi dati pubblicati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani.

Inoltre, durante la recente visita a Kiev, il commissario europeo all’Allargamento e alla politica regionale Johannes Hahn ha rassicurato che la Brexit non modificherà il rapporto e l’interesse dell’Unione verso i paesi del partenariato orientale, rinfrancando i cuori di molti responsabili politici ucraini.

Realisticamente, però, l’Ucraina finirà in fondo all’elenco delle priorità politiche europee. Alla sfilza di grattacapi economico-politici a cui l’Ue sta facendo fronte, si sono da poco sommate la furiosa reazione del presidente Erdogan al fallito colpo di Stato in Turchia e la spinosa gestione della fuoriuscita del Regno Unito dall’Ue.

La seconda grande paura per Kiev resta l’adozione posticipata del regime visa-free. Come sottolineato dal commissario Hahn, l’Ucraina ha portato a termine 140 riforme per qualificarsi per tale concessione. Dopo il voto britannico, però, si intensificano le discussioni che mirano ad introdurre dei meccanismi che, in caso di necessità, consentirebbero di sospendere il regime di liberalizzazione dei visti per taluni Stati. Nel frattempo, l’Ucraina rimane alla finestra.

Nonostante tutto, gli attuali responsabili politici ucraini sembrano non mollare la rincorsa all’Ue. Il presidente Petro Poroshenko ha dichiarato di voler presentare la domanda di adesione entro il 2020. Fino ad allora, è necessario implementare l’accordo di associazione, portare avanti in modo serio e sistematico le riforme nazionali che si concentrano nei settori della lotta alla corruzione e della riforma delle forze dell’ordine e della giustizia e infine sforzarsi di far avanzare gli stagnanti negoziati di Minsk.

In tale contesto, Berlino e Parigi rimangono le uniche due grandi potenze capaci di indirizzare la politica estera europea, e potrebbero d’ora in poi spingere affinché Kiev addolcisca le sue richieste verso i separatisti, in modo da legittimare la riduzione delle sanzioni alla Russia in vista delle rispettive elezioni nazionali nel 2017.

Putin e la “schadenfreude” russa 
Sin dal collasso dell’Unione sovietica, Mosca ha visto la straripante potenza economica e i progetti politici dell’Ue come un pericolo per la sua sfera di influenza nelle ex repubbliche sovietiche. I rapporti con Bruxelles si sono inoltre rapidamente degradati negli ultimi due anni con l’imposizione delle sanzioni economiche alla Russia.

All’indomani del voto britannico, l’ex ambasciatore americano a Mosca Michael McFaul ha commentato con rammarico su Twitter: “Perdenti: Ue, Gran Bretagna, Stati Uniti, quelli che credono in un’Europa forte, unita e democratica. Vincitore: Putin”. Ed è vero che al Cremlino hanno vari motivi “per bere copiose quantità di vodka” come ha scherzato un ex consigliere del dipartimento di Difesa degli Stati Uniti.

L’uscita del Regno Unito indebolirà il fronte pro-sanzioni a Bruxelles. Neanche Londra era riuscita a tenere uniti i ventotto Stati membri al momento del rinnovo delle misure coercitive a fine giugno, e alcuni paesi - come l’Italia, la Grecia e l’Ungheria - avranno a fine anno una nuova opportunità per ridiscutere e indebolire le sanzioni.

Intanto si percepisce chiaramente la folata di schadenfreude che attraversa gli alti dirigenti russi. Il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha gongolato durante una riunione con gli ambasciatori Ue dichiarando che, “quando la Brexit sarà completata, l’Unione rimarrà con un solo voto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu”, mentre il sindaco di Mosca, Sergej Sobjanin, ha twittato: “Senza la Gran Bretagna, non ci sarà nessuno nell’Ue a difendere le sanzioni contro di noi con tanto zelo” e infine l’ombudsman dell’imprenditoria russa, Boris Titov, ha salutato il referendum britannico come un voto di rigetto del mondo anglosassone in toto: “Sembra sia successo davvero: il Regno Unito è fuori! Questa non è l’indipendenza della Gran Bretagna dall’Europa, ma l’indipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti”.

È invece stata pacata la reazione del presidente Vladimir Putin, che ha sottolineato dapprima come Mosca non abbia interferito negli affari interni e nel referendum della Gran Bretagna, e poi che la posizione Ue sulle sanzioni verso la Russia non muterà a causa di questo voto.

Per Putin, al di là della soddisfazione di vedere l’Unione europea indebolirsi, conta molto di più aver raggiunto il massimo traguardo della sua politica estera nel vicinato: nei prossimi anni, l’Ue dovrà fare i conti con se stessa e ampliamenti della membership non sono per ora prevedibili.

Conflitti gelati e sogni europei infranti
Anche il versante orientale, dunque, punta i fari sulla gestione dei negoziati sulla Brexit da parte di Bruxelles.

È ancora lecito sperare in un finale lieto: adottando l’idea di Jacques Delors di un’Unione che si integri attraverso una serie di cerchi concentrici, l’Ucraina partirebbe dal più esterno di essi - attraverso l’implementazione dell’Accordo di associazione - ma avrebbe una prospettiva di lungo corso, fino alla completa adesione.

La Russia, da par suo, si impegnerebbe a far rispettare ai separatisti gli accordi di Minsk, con il graduale ritiro delle sanzioni da parte europea.

Ma oggi, si delinea sempre più un finale amaro: sotto la spinta dei populismi europei e di altre priorità politiche, i governi dei Ventisette metteranno da parte i problemi di Kiev, mentre la Russia manterrà lo status quo dei negoziati di Minsk e riuscirà a fare del Donbass l’ennesimo conflitto “gelato” che, dopo Georgia e Moldavia, riuscirà a bloccare anche il sogno d’integrazione europea dell’Ucraina.

Cono Giardullo lavora in Ucraina con l’Osce (Twitter: @conogiardullo).

venerdì 26 agosto 2016

La Cina e l'economia: prospettive.

Economia 
L’ascesa della finanza cinese e il ruolo Ue
Nicola Casarini, Rita Fatiguso
25/08/2016
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L’Europa, molto più che gli Stati Uniti o il Giappone, ha appoggiato l’ascesa della finanza cinese e il processo di internazionalizzazione del renminbi, la moneta del paese del Dragone.

Il punto di svolta si è avuto lo scorso dicembre, quando il renminbi è entrato nel paniere dei diritti speciali di prelievo (dsp) del Fondo monetario internazionale (Fmi), grazie anche – e soprattutto – agli europei, che fin dalla fine degli anni Novanta hanno guardato con interesse alla moneta cinese e alla possibilità che questa, una volta convertibile a tutti gli effetti, diventi uno dei pilastri, insieme al dollaro Usa e all’euro, dell’ordine monetario internazionale.

Il Regno Unito ha fatto da traino in questo campo. Dopo il referendum sulla Brexit, però, le banche della City potrebbero perdere l’accesso al mercato unico: una circostanza che induce il governo cinese a valutare se spostare parte del clearing del renminbi – e dei servizi collegati ad esso – verso le piazze del continente, anzitutto Francoforte, Parigi, Lussemburgo, ma anche Milano. Con possibili ripercussioni sulle relazioni sino-europee, ma anche sui rapporti transatlantici.

Sostegno al renminbi
Durante il negoziato per la revisione quinquennale del paniere di valute ricomprese nei dsp del Fmi, conclusosi ai primi di dicembre del 2015, l’Europa è stata l’alfiere dell’aumento del numero di valute da quattro a cinque, con l’inclusione del renminbi, moneta non convertibile ma fortemente circolante. Un evento che per la finanza internazionale potrebbe essere paragonabile, per impatto strategico, a ciò che è stato per il commercio globale l’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) nel 2001.

Il match tra il governatore cinese Zhou Xiaochuan e il direttore del Fmi Christine Lagarde, dunque, si è deciso in Europa. Stati Uniti e Giappone, da soli, non avrebbero avuto la forza sufficiente per mettere alla porta i cinesi rispedendo al mittente le loro richieste. La Cina ha puntato con forza sui dsp, vedendoli come trampolino di lancio per promuovere l’internazionalizzazione del renminbi in vista di una conversione totale che potrebbe avvenire ben prima del 2020.

I dsp sono attività di riserva in valuta estera internazionali. Assegnati alle nazioni del Fmi, rappresentano un gruppo di divise estere che possono essere scambiate nei momenti di bisogno. Anche se denominati in dollari Usa, il valore nominale di un dsp deriva da un paniere di valute, con, in particolare, un importo fisso di yen, dollari, sterline, euro, a cui si è aggiunto appunto, dal finire dello scorso anno, anche il renminbi.

Legami monetari fra Europa e Pechino
Con l’ingresso del renminbi nel paniere del Fmi, gli istituti che già detengono tale moneta, almeno una sessantina, tra i quali anche la Banca d’Italia, hanno dovuto convertire in renminbi anche i dsp che detenevano, con un aumento delle riservenella valuta di Pechino.

Occorre ricordare che già nell’ottobre del 2013 la Banca centrale cinese e quella europea firmarono un accordo swap per un totale di 45 miliardi di euro (350 miliardi di renminbi), il più grande siglato da Pechino al di fuori dell’Asia. Nel novembre 2014, la Bce ha ufficialmente aperto la discussione interna sull’ammontare dei renminbi da aggiungere alle sue riserve.

La Banca centrale britannica, dal canto suo, nell’ottobre del 2014 ha raccolto 3 miliardi di renminbi attraverso titoli del Tesoro denominati nella moneta cinese, tenendoli poi tra le sue riserve, invece di convertirli in dollari Usa come aveva invece sempre fatto in precedenza. Nell’ottobre dell’anno successivo, durante la visita di Stato di Xi Jinping a Londra, il governo britannico è stato prescelto per la prima emissione di bond cinesi denominati in renminbi.

L’Europa è anche la sede prediletta di un numero crescente dei cosiddetti renminbi hubs, ovvero clearing banks per la moneta cinese. Conosciuti anche come Rmb qualified foreign institutional investors (Rqfii), si trovano prevalentemente in Europa, in città quali Londra, Francoforte, Parigi, Lussemburgo, ma anche Praga, Budapest, Milano e Zurigo.

I crescenti legami monetari tra Europa e Cina spiegano la decisione della Gran Bretagna, seguita da Germania, Francia e Italia, di diventare membri fondatori della Asian infrastructure investment bank (Aiib), nonostante le pressioni statunitensi affinché ne restassero fuori.

Freno Usa 
Mentre l’Europa apre al renminbi e alla finanza cinese, le grandi banche americane continuano a mettere freni all’attivismo di Pechino nel conquistare altro spazio nel salotto buono della finanza mondiale, come dimostrato dal rifiuto - l’ennesimo – di Msci di includere nel suo index dei mercati emergenti le blue chip cinesi.

A metà giugno è arrivato infatti il terzo no, il più sofferto, perché Pechino stavolta considerava scontata una risposta positiva. La diffidenza di Msci è stata dettata, a sentire gli addetti ai lavori, dallo scarso appeal del renminbi, moneta non convertibile che coltiva grandi pretese legate – come ha dimostrato l’ingresso nel paniere dei dsp del Fmi – al suo essere tradeable, quindi dall’utilizzo commerciale ampio e innegabile.

Più che una dimostrazione di sfiducia nella trasparenza dei mercati finanziari cinesi, la decisione di Msci riflette il fatto che, nonostante i recenti sforzi di Pechino nel liberalizzare il mercato dei capitali (tra questi, l’apertura del mercato obbligazionarioonshore) e nell’imporre norme più severe per proteggere la liquidità, gli investitori globali hanno scelto di rimanere in disparte proprio a causa di timori per il rischio-renminbi e le difficoltà operative di gestire la moneta in sé. Il 70% del totale di tutte le transazioni in renminbi fuori dalla Cina sono ancora fatte a Hong Kong, per un giro di affari di circa 800 miliardi al giorno.

Sei anni di strisciante processo di internazionalizzazione della valuta cinese hanno comunque lasciato il segno: non ci sono solo le banche centrali che stanno investendo nel renminbi. La moneta cinese è già la seconda più importante valuta di finanziamento del commercio mondiale, la sesta moneta più intermediata in borsa e ha superato, per quantità di utilizzo, i dollari canadesi e australiani, secondo l'organizzazione globale di servizi di transazione Swift.

Il sostegno europeo alla moneta cinese è una mossa lungimirante, oltre che un messaggio politico indirizzato ai riformatori cinesi. La Brexit potrebbe accelerare questa dinamica. Il rischio è che si accentui, però, il divario con gli Usa che, gelosi di mantenere il predominio del dollaro, guardano con riserva all’ascesa del renminbi e al ruolo che giocano gli alleati europei nel promuovere la finanza cinese.

Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

Nicola Casarini è coordinatore dell’area di ricerca Asia dello IAI; Rita Fatiguso è corrispondente da Pechino per Il Sole 24 Ore.
 
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lunedì 22 agosto 2016

La difesa delle frontiere europee

Immigrazione
Guardia costiera Ue per difendere l’area Schengen
Fabio Caffio
28/07/2016
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Con insolita celerità, come se la Brexit avesse serrato i ranghi dell'Unione europea, Ue, il Parlamento europeo ha dato vita alla Guardia costiera e di frontiera dedicata all'integrità territoriale dell'area Shengen.

La risoluzione del 6 luglio 2016, approvata preventivamente dal Consiglio, ha legiferato in prima lettura sulla proposta di regolamento della Commissione: trasformare Frontex in Agenzia europea della guardia costiera e di frontiera con poteri che, in caso di incapacità dei paesi membri a fronteggiare crisi migratorie improvvise, possono incidere sulle loro competenze sovrane.

È stato così realizzato il progetto del presidente Jean Claude Juncker del settembre 2015 di preservare la libera circolazione nello spazio Shengen minacciata dagli ingressi di immigrati non identificati o non aventi titolo a protezione internazionale.

Blindare il fronte marittimo sud 
Molta acqua è passata da allora sotto i ponti Ue in quanto nel frattempo si è consolidata la politica di chiusura delle frontiere terrestri attuata dai paesi dell'Europa orientale.

Ciononostante, sorprende la determinazione mostrata nel voler blindare il fronte marittimo sud dove, tra l'altro, l'Italia adotta una sua personale linea di accoglienza delle persone salvate in mare.

Si comprendono i timori che dal Medio Oriente riprendano massicci esodi, magari a seguito di un voltafaccia della Turchia. C'è da chiedersi però se fosse realmente necessario creare un Corpo ‘sovranazionale’ di guardia costiera europea, Gceu. Frontex è già attiva in mare da un decennio ed un efficace ruolo di deterrenza dell'immigrazione illegale viene svolto da Eunavfor Med-Sophia e dalla Nato.

Quale Guardia costiera europea
Da tempo era in corso un esercizio dedicato alla creazione di un servizio di Gceu unificato; il fatto che nella Ue vi fossero ben 316 entità pubbliche titolari di funzioni guardia costiera ne aveva tuttavia rallentato l'iter.

È noto che solo Italia e Grecia hanno un vero corpo di Gc, mentre altri assegnano simili funzioni a Marina militare (emblematica l'organizzazione della Marine Nationale francese, modello di alcuni compiti non militari della nostra Marina), Forze di polizia (Spagna, ad esempio) o istituzioni civili.

Tali funzioni riguardano normalmente vari settori come la sicurezza marittima, il soccorso in mare, il controllo di pesca e inquinamento. Ma non la sorveglianza dei limiti della acque territoriali che è perlopiù affidata - come avviene in Italia - all'Interno.

Con la creazione del proprio Corpo di Gc, l'Ue ha invece creato una forza marittima apparentemente dedicata alla sorveglianza costiera, ma di fatto avente competenza in tutte le materie suindicate, inoltre potenzialmente autonoma rispetto alle realtà di polizia marittima dei Paesi membri.

La nuova Agenzia di Gcue coopererà infatti con le altre Agenzie europee di controllo della pesca e di sicurezza marittima. Ma non si interfaccerà con le missioni navali militari Nato o Ue operanti al largo dell'Europa (dal testo approvato è scomparsa una clausola di salvaguardia).


Mari d'Europa (Fonte Ue).
Quali frontiere marittime europee
Per difendere l'integrità delle acque territoriali dei paesi membri, la Gcue dovrebbe stare sul limite delle 12 miglia o, nel caso esista anche la zona contigua, entro quello delle 24 miglia.

Se gli interventi saranno condotti in tali spazi, la giurisdizione dello Stato costiero sarà esclusiva. Se invece la Gcue condurrà attività di soccorso in acque internazionali si dovrà applicare il regime della zona Sar. Al riguardo, è prevedibile che, nonostante il richiamo ai principi internazionali sulla scelta del luogo sicuro in cui trasportare i migranti salvati, continuerà ad essere generalizzata la prassi di sbarcarli in Italia.

Lo scenario marittimo in cui opererà la nuova Gcue sarà comunque ben al di là dei limiti delle frontiere marittime di cui al Regolamento 216/399 ed in teoria potrebbe coprire tutto il Mediterraneo e parte di Mar Nero e Atlantico.

Le sue attività riguarderanno anche il controllo della pesca nelle Zee europee (non dimentichiamo che quella di Cipro è contestata dalla Turchia) e della sicurezza marittima, oltre che il contrasto dei traffici illeciti connessi all'immigrazione, terrorismo compreso.

Ambiguità ed incertezze
La determinazione mostrata dal Parlamento europeo nell'approvare il Regolamento della Gcue è indice di coesione politica che sottintende la volontà di realizzare una sorta di Europa marittima federale. Positiva è anche la chiara assunzione delle responsabilità Sar e del rispetto dei diritti umani dei migranti.

All'opposto, balza all'occhio l'eccessiva ampiezza dei settori di attività della Gcue e la connessa indeterminatezza degli spazi marittimi di riferimento.

Inoltre, ombre si intravedono in una sorta di vena antimilitarista che ha indotto a non stabilire forme di cooperazione con la componente navale della Csdp, come invece la Strategia globale Ue auspica. Riserve, queste, che potrebbero riflettersi nei rapporti tra la nuova Agenzia e le istituzioni militari nazionali la quale - come nel caso della nostra Marina - svolgono funzioni Guardia costiera.

Dal prossimo settembre l'Ue mostrerà la sua bandiera in tutti i mari che la circondano. Vedremo se lo farà secondo un disegno organico, o se le navi della Gcue avranno un mandato eccessivamente ampio ed autonomo rispetto agli organi costituzionali europei ed ai singoli Paesi membri.

Fabio Caffio Ufficiale della Marina militare in congedo, esperto di diritto internazionale marittimo.