Per la traduzione in una lingua diversa dall'Italiano.For translation into a language other than.

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

Cerca nel blog

lunedì 29 febbraio 2016

Integrazione politica e integrazione militare in Europa

Difesa europea
La Difesa non è più il figlio illegittimo dell’Unione
Michele Nones
26/02/2016
 più piccolopiù grande
Di fronte alla nuova minaccia del terrorismo islamico e ai rischi derivanti dall’instabilità dei Paesi vicini ai suoi confini meridionali e orientali, l’Europa manifesta le sue debolezze e le sue contraddizioni. Fra queste, da una parte alcuni Stati membri chiudono le frontiere e “rinazionalizzano” la politica estera e di difesa, dall’altra tutti auspicano il rafforzamento delle capacità europee di difesa.

Ci si dimentica così che se “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”, non ci può essere maggiore integrazione militare senza una maggiore integrazione politica.

L’Europa delle contraddizioni e degli espedienti
In realtà l’Europa è uno strano animale che evolve per approssimazioni successive, spingendo l’integrazione là dove risulta più necessaria e, quindi, politicamente più sostenibile. Di fronte ad un incendio che divampa vicino a casa, è, quindi, comprensibile che molti pensino sia necessario mettere da parte le divergenze e organizzarsi insieme per spegnerlo, rafforzando le capacità militari europee.

Qui ci si scontra con un’altra contraddizione: essendo nata dopo la Seconda Guerra Mondiale col preciso scopo di impedire nuovi conflitti, nel Dna dell’Unione Europea è stato inserito un “anticorpo” nei confronti di ogni attività militare: in parte non prevedendo iniziative in questo campo (ruolo della Commissione Europea e, parzialmente, del Consiglio e del Parlamento europeo), in parte con specifici divieti ad occuparsi di temi militari (Agenzia Spaziale Europea, Banca Europea degli Investimenti).

Questa situazione fa sì che non sia previsto esplicitamente un Consiglio Europeo dei soli Ministri della Difesa, non esista una Commissione Difesa nel Parlamento Europeo, non vi sia un filone per i progetti di ricerca militari nei Programmi Quadro, non possano essere finanziati programmi spaziali militari o programmi di investimento in equipaggiamenti o infrastrutture militari.

Per fortuna l’allargamento della “difesa” alla più ampia “sicurezza e difesa”, lo sviluppo della nuova dimensione duale nell’innovazione e nella realizzazione di equipaggiamenti ad alta tecnologia, la necessità di una comune capacità di proiezione internazionale hanno consentito di far rientrare dalla finestra quello che era stato buttato fuori dalla porta: l’Unione Europea ha, quindi, potuto, soprattutto in questo decennio, occuparsi di alcune problematiche della difesa.

In particolare questo è avvenuto, sul piano intergovernativo, attraverso l’attività dell’Agenzia Europea di Difesa e, su quello comunitario, attraverso la Csdp-Politica Comune di Sicurezza e Difesa che, ad esempio, ha consentito alla Commissione di lanciare la Preparatory Action on Csdp related research con cui, per la prima volta, si finanzieranno sperimentalmente alcuni progetti di ricerca nel campo della difesa.

Analogamente, in ambito Eif-Fondo di Investimento Europeo è prevista una limitazione dell’esclusione generale del settore difesa per quelle attività che sono parte o sono complementari alle politiche dell’Ue (fra cui vi è la Csdp).

Sembra, però, giunto il momento di cominciare ad eliminare anche formalmente le barriere che limitano e condizionano nuove possibili iniziative di integrazione nel campo della sicurezza e difesa. E necessario “sdoganare” il settore della difesa nel contesto dell’Ue e di tutti i suoi organismi, riconoscendone la pari dignità ai fini dell’accesso a tutte le iniziative europee e una pari considerazione negli interventi delle Istituzioni europee.

Rimuovere le barriere
Una prima barriera, anche ideologica, è stata rimossa con l’entrata in vigore, nel settembre 2014, del nuovo sistema di contabilità europeo Esa 2010 che considera le attività relative alle acquisizioni e R&T militari come investimento e non più come consumi intermedi.

Questo significa riconoscere che le spese per acquisizione di equipaggiamenti e R&T militare rappresentano veri e propri investimenti con conseguente creazione di ricchezza per il Paese, a prescindere dal loro ruolo indispensabile per garantire la difesa e sicurezza del Paese e dal fatto che, incrementando il Pil, si riduce, seppure quasi impercettibilmente, la percentuale del deficit.

Fra le altre barriere, vi è l’esclusione del settore difesa dall’area di intervento dell’Eib-Banca Europea per gli Investimenti. Un’impostazione che risulta, per altro, in contraddizione con il suo ruolo nel supportare l’integrazione europea, le politiche europee (fra cui c’è la Csdp), la crescita e l’occupazione.

Le conseguenze sono che il settore della difesa è escluso anche dall’Efsi-Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici e che vi sono maggiori difficoltà nella ricerca di finanziamenti a causa del tendenziale allineamento del settore bancario alla politica della Banca Europea (soprattutto in alcuni paesi, fra cui l’Italia).

Un’altra barriera è legata alla possibilità che la Commissione Europea e le Agenzie europee possano acquisire determinate capacità operative nel settore della protezione dalla minaccia ibrida (Nbcr e cyber), della sorveglianza dei confini esterni e del territorio, delle comunicazioni satellitari. Questo allargherebbe e qualificherebbe in senso europeo la domanda degli equipaggiamenti necessari.

Un diffuso ostacolo riguarda la divisione fra settore civile e militare nel campo delle strategie della Commissione Europea: nel campo aeronautico (Move), nelle telecomunicazioni (Connect), nella politica spaziale (Grow), nella cosiddetta circular economy (Env).

Ma l’obiettivo prioritario non può che essere quello di aprire il prossimo Programma Quadro per la ricerca e l’innovazione, da cui potrebbero venire importanti risorse aggiuntive a supporto di maggiori e migliori capacità europee nel campo della sicurezza e difesa. Se si pensa che l’attuale Programma Horizon 2020 dovrebbe attivare circa 80 miliardi di euro nei sette anni programmati, è evidente che, in futuro, anche una limitata percentuale di risorse potrebbe consentire all’Europa un salto tecnologico senza precedenti nel settore dell’aerospazio, sicurezza e difesa, recuperando l’attuale preoccupante ritardo.

Michele Nones è Consigliere Scientifico dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3346#sthash.zgyVdGzB.dpuf

lunedì 22 febbraio 2016

Petrolio: il prezzo troppo basso scontenta tutti

Petrolio
La tregua di Doha sul prezzo del barile
Ugo Tramballi
19/02/2016
 più piccolopiù grande
Dove c’è petrolio c’è immancabilmente geopolitica. È sempre stato così per qualsiasi materia prima: si è combattuto per il ferro nel momento in cui gli uomini hanno scoperto che le lance di quel metallo erano più resistenti. Si è combattuto per il cotone, il carbone, i merluzzi dell’Atlantico settentrionale.

Ariel Sharon che nel settore aveva una certa esperienza, sosteneva che le guerre mediorientali non si combattevano per il petrolio, ma per l’acqua. Tuttavia nulla come gli idrocarburi garantiscono da un centinaio di anni la ricchezza e le opportunità, l’instabilità e gli squilibri del Medio Oriente.

Produzione petrolifera congelata
Anche la decisione presa a Doha - nell’attesa fremente dei mercati mondiali - di congelare la produzione petrolifera, ha una valenza geopolitica quasi più importante dei suoi effetti economici.

L’hanno presa sauditi e russi, insieme a Qatar e Venezuela. Gli iraniani avevano rifiutato di adeguarsi. Poi, fatti due calcoli, hanno deciso di farlo anche se nella pratica si metteranno in riga fra qualche mese.

In realtà sauditi e russi hanno deciso di congelare la produzione ai livelli di gennaio: cioè sufficientemente alti per l’Arabia Saudita e molto alti per la Russia, praticamente i più alti nella storia dell’industria petrolifera post-sovietica. Non è dunque un grande sacrificio.

Il Qatar è una super potenza nella produzione di gas liquefatto, riguardo al petrolio è un nano: ha partecipato perché, appunto, contava geopoliticamente esserci. Il Venezuela alle soglie del disastro economico, chiedeva un congelamento quale esso fosse.

I sauditi tornano a mediare 
I mercati hanno ringraziato, il prezzo del barile si è mosso un po’ verso l’alto. Non è stata però una rivoluzione, nessun ritorno a quel valore “non troppo alto né troppo basso”, che i sauditi avevano sempre cercato e imposto.

Perché l’Arabia Saudita prima di re Salman, e soprattutto del suo prediletto figlio Mohammed, vice principe ereditario, è sempre stato un protagonista calmieratore e pragmatico della scena petrolifera. Da qualche tempo non lo era più, alla ricerca di un ruolo da leader nella regione, dopo le evidenti riluttanze americane.

Per tornare a un valore equilibrato del barile occorre tempo, ma l’accordo di Doha ha in qualche modo ripristinato l’antico ruolo moderatore saudita.

Nel marzo del 2012 il barile di greggio valeva 125 dollari, nel gennaio 2016 era sceso sotto i 30. Nessun paese produttore può contenere a lungo una recessione di queste dimensioni. Un po’ di più l’Arabia Saudita che ne è stata la vera e consapevole causa.

Il petrolio assicura il 90% della ricchezza del regno e l’87 delle sue esportazioni. Ma il costo medio di estrazione del barile è di circa 5 dollari, il surplus fiscale saudita di 400 miliardi di dollari e i suoi assets nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti, valgono circa 700 miliardi.

Tempo di austerity per la petromonarchia
Quella saudita non è una condizione ai limiti del fallimento come nel caso russo e ancora di più venezuelano. Il deficit di quasi mille miliardi ammesso nell’ultimo Bilancio, a dicembre, non è tuttavia un peso che si possa portare facilmente, ma sta aiutando il regno ad imporre a una società profondamente conservatrice, riforme economiche e tagli di spesa che altrimenti non sarebbe stato facile far passare.

Fra una guerra nello Yemen e una presenza militare in ogni altro conflitto e crisi regionale, il principe Mohammed è anche il responsabile della principale agenda economica: privatizzare e diversificare dalla assoluta rilevanza petrolifera nell’economia saudita.

Ma se alla fine, dopo aver fatto precipitare il valore del barile per fermare la rinascita petrolifera americana e contenere il ritorno iraniano, il regno ha deciso di congelare la produzione, la causa non è tanto il deficit di bilancio quanto la geopolitica.

Russi e sauditi impegnati in fronti separati nelle guerre in Siria, in Libia, Iraq e ovunque, nel cosiddetto accordo di Doha giocano invece nella stessa squadra con gli stessi interessi. È anche per questo che gli iraniani - comunque ancora privi delle tecnologie necessarie per aumentare rapidamente la loro produzione - alla fine hanno accettato di congelarla e di esserci nell’accordo.

È tuttavia difficile che questo sia il segnale di un cambiamento di alleanze e agende politiche: è solo una prova forse non necessaria di quanto intricato sia lo scenario mediorientale.

Ugo Tramballi è giornalista e inviato de Il Sole 24 Ore.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3336#sthash.LNY1Rhlr.dpuf

venerdì 19 febbraio 2016

Ancora una ricerca di una strategia sull'immigrazione

Immigrazione
Mini-Schengen, ricetta per scongiurarla 
Corso Pisacane
16/02/2016
 più piccolopiù grande
I prossimi tre mesi saranno decisivi per la tenuta dell’area Schengen. O si riuscirà a far funzionare un sistema che prevede controlli comuni delle frontiere, un’accoglienza ben gestita ed equa, e in prospettiva un sistema comune di asilo e di rimpatri, o l’area di libera circolazione dei cittadini europei, della quale abbiamo beneficiato finora, collasserà. Gli scricchiolii sono già pesanti.

Apparenza più che sostanza 
Sei Stati membri, fra cui la Germania, hanno reintrodotto i controlli alle frontiere per frenare il flusso dei migranti e li rinnovano di mese in mese, conformemente al Codice frontiere Schengen. Inoltre, viene ventilata l’ipotesi di una Mini Schengen. A Bruxelles ufficialmente non se ne è parlato, ma si sa che si tratta di un progetto che è nei cassetti di alcune cancellerie, probabilmente del Benelux, ma non solo.

Anche se se ne parla poco, anche la Svizzera, Paese Schengen, potrebbe in realtà limitare la libertà di circolazione delle persone. Sulla base di un’iniziativa legislativa popolare (iniziativa del 9.2.2014 sull’immigrazione di massa) entro un anno dovranno infatti essere introdotte quote e tetti massimi all’ingresso di stranieri, Ue e non Ue.

Tutto ciò avviene perché i flussi di migranti arrivati in Europa hanno raggiunto dimensioni di difficile gestione (più di un milione di domande d’asilo registrate). In realtà, più che di sostanza si tratta di apparenza. Un continente come l’Europa può gestire questi numeri, ma l’opinione pubblica percepisce i flussi in arrivo come un’invasione; e per la politica ciò che conta è la percezione dei cittadini elettori.

In particolare la Germania è confrontata con una sfida particolare e la cancelliera Angela Merkel deve dimostrare di saper gestire il fenomeno, frenando i flussi in arrivo, soprattutto quelli secondari dai Paesi ai confini dell’area Schengen.

Italia e Grecia sotto esame
E questi sono essenzialmente Grecia e Italia. Il nostro Paese è al momento “secondario” in questo scenario, almeno da quando i flussi si sono spostati sulla rotta balcanica. Non dimentichiamo però che siamo sotto osservazione proprio in questi mesi nell’ambito della “valutazione Schengen”.

La Grecia è messa peggio, ed è passata al Consiglio dell’Unione europea, Ue, una raccomandazione sulle misure da adottare per porre rimedio alle carenze riscontrate nel 2015 nell’applicazione dell’acquis Schengen. Atene avrà ora tre mesi di tempo per rimediare, e i novanta giorni, non casualmente, scadranno il 12 maggio, termine ultimo della chiusura delle frontiere da parte della Germania con la procedura finora invocata.

Che cosa succederà il giorno seguente? Se la Grecia avrà sostanzialmente contribuito a ridurre i movimenti secondari, forse la Germania non chiederà ulteriori proroghe. Occorrerà però anche agire sulla Turchia. Dei contatti sono in corso. Se non ci saranno sostanziali miglioramenti non è da escludere il collasso dell’area Schengen e la nascita di un sistema ridotto, tipo “mini Schengen”.

La Germania e il salto di qualità delle politiche migratorie
Evidentemente è un’opzione che tutti vogliono evitare. Anche la Germania, paese che, come o forse più degli altri, beneficia del regime delle quattro libertà garantite dai trattati Ue, ma anche per l’Italia, secondo Paese manifatturiero dell’Ue, sarebbe un disastro.

Come spesso accade molto gira intorno alla Germania. Il Governo tedesco nell’estate scorsa aveva dato prova di grande lungimiranza in tema di accoglienza, anche sospendendo l’applicazione del regolamento di Dublino ed accogliendo i richiedenti asilo indipendentemente dal Paese di primo arrivo. Poi i numeri sono diventati troppo impegnativi anche per Berlino.

In ogni caso la Germania pare il Paese più interessato a far compiere un salto di qualità alle politiche migratorie dell’Ue. In questo auspicio la possiamo associare all’Italia. Anche per il governo italiano è necessario arrivare a un vero sistema di accoglienza, che superi Dublino, al riconoscimento delle sentenze di asilo, a rimpatri comuni e a forme più incisive di controllo delle frontiere.

Su questi aspetti si può quindi cementare una collaborazione rafforzata fra Roma e Berlino, già sperimentata in tema di relazioni migratorie con l’estero, ed in particolare con il lancio ed i primi passi del Processo di Khartoum (collaborazione migratoria con i Paesi mediterranei e del Corno d’Africa).

Corso Pisacane è giornalista freelance.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3328#sthash.kV7p8s0T.dpuf

mercoledì 10 febbraio 2016

Bilanci della Difesa: siamo ad una svolta?

Europa e sicurezza internazionale
Bilanci e cooperazione nella difesa: eppur si muove?
Alessandro Marrone, Daniele Fattibene
05/02/2016
 più piccolopiù grande
Il biennio 2015-2016 può rappresentare un punto di svolta quanto a spese per la difesa dei Paesi europei, segnando una reazione politica e militare all’arco di crisi che dall’Ucraina alla Libia, passando per la Siria, circondano l’Unione europea, Ue.

La cooperazione europea in questo campo segna invece il passo, affidandosi a una serie di formati bilaterali e regionali piuttosto che a un disegno organico ed efficiente.

Bilanci della difesa: fine del declino?
Nei 31 Paesi europei considerati dallo studio IAI si stima in media un aumento delle spese per la difesa nel 2016 pari all’8,3 per cento rispetto al 2015.

Si tratta di un deciso cambio di rotta rispetto a un declino che durava da venti anni e che si è acuito a seguito della crisi economica del 2008. I bilanci della difesa dovrebbero seguire dei trend positivi in tutte le regioni europee, con livelli maggiori in Europa centro-orientale (+19.9 per cento) e sud-orientale (+ 9.2 per cento).

Meno evidenti, ma comunque significativi, i cambiamenti previsti per i Paesi dell’Europa occidentale (+2.7 per cento) - dove si concentrano le spese di difesa più alte in termini assoluti - e quelli scandinavi (+1.6 per cento). Tuttavia, non è detto che l’aumento dei bilanci della difesa si protragga nei prossimi anni né che gli Stati spenderanno le loro risorse in modo più efficiente o rafforzando la cooperazione intra-europea.

Il panorama della cooperazione nel campo della difesa in Europa risulta particolarmente frammentato e diversificato. I Paesi analizzati hanno reagito in modo diverso alle crisi succedutesi dal 2014, a partire da quella in Ucraina fino agli attacchi terroristici di Parigi.

La risposta più forte è arrivata dagli Stati dell’Europa centro-orientale, sud-orientale e della Scandinavia. Diversa la situazione in Europa occidentale, dove la cooperazione nella difesa ha continuato a poggiarsi sui formati di cooperazione bilaterale o mini-laterale esistenti. Tra le novità più significative, da segnalare l’accordo per lo sviluppo del drone europeo Euromale tra Francia, Germania e Italia.

Una cooperazione di default e non per design
Sei trend hanno contraddistinto il panorama della cooperazione in difesa in Europa. Tra questi, spicca la tendenza da parte dei Paesi europei a privilegiare forme di cooperazione bilaterale o mini-laterale.

L’attitudine cooperativa è molto più forte tra Paesi confinanti, mentre un ruolo crescente è giocato dalla Germania oltre a quello, tradizionale, dagli Stati Uniti. Degno di nota è poi il tentativo da parte di molti governi di ridurre la propria dipendenza dalle forniture militari russe sia attraverso programmi di modernizzazione dei propri assetti sia tramite una progressiva diversificazione dei fornitori di sistemi d’arma ed equipaggiamenti.

La cooperazione è risultata meno marcata in Europa occidentale, dove si continua a fare affidamento su schemi di cooperazione preesistenti. In generale, vi è un basso livello di coordinamento tra la cooperazione intra-statale e il livello Ue, nonostante gli impegni formali presi in sede di Consiglio Europeo e le iniziative intraprese dalle istituzioni Ue, inclusa l’Agenzia Europea per la Difesa, la Commissione Europea e l’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza.

Emerge quindi un quadro molto frammentato a livello europeo, una sorta di cooperazione per default piuttosto che una strategia guidata da un disegno complessivo.

Quali sono stati i principali fattori che hanno trainato la cooperazione in difesa in Europa? Lo studio ne ha individuati diversi. In primo luogo, la politica aggressiva della Russia nel “vicinato comune” ha spinto molti Stati ad aumentare le forme di cooperazione in difesa, in particolare con i Paesi confinanti, per rafforzare sia le proprie capacità militari sia i rapporti con gli alleati occidentali.

È questo il caso particolarmente dell’Europa centro-orientale e della Scandinavia. In secondo luogo, le minacce non-convenzionali, in particolare il terrorismo di matrice islamica e più in generale l’instabilità nel vicinato meridionale con conseguente crisi migratoria, hanno giocato un ruolo significativo nell’influenzare le scelte di alcuni governi, a partire da quello francese.

In terzo luogo, il rinnovato focus sulla difesa collettiva da parte Nato è stato un fattore non trascurabile a favore sia di una maggiore spesa per la difesa sia di un rafforzamento della cooperazione intra-alleata, ad esempio tramite le iniziative della Very High Readiness Joint Task Force e della framework nation.

Quale ruolo per l’Italia?
In questo contesto, l’Italia mantiene una posizione piuttosto stabile, che potrebbe però rivelarsi insufficiente in un contesto europeo che si è rimesso in movimento. Le spese per la difesa non seguono lo stesso trend della grande maggioranza degli altri Stati europei, rimanendo cristallizzate a fronte del generale aumento in corso in Europa.

L’Italia continua ad essere una pedina importante nello scacchiere della cooperazione europea in materia di difesa ma, a parte la suddetta meritoria iniziativa sull’Euromale, resta al momento ai margini delle cooperazioni che si stanno sviluppando in Europa.

L’Italia dovrebbe investire maggiormente non solo nella relazione con Parigi, Londra e Berlino, ma anche con i Paesi dell’Europa centro-orientale (in primis la Polonia), e con quelli della regione balcanico-danubiana che rappresenterebbe una naturale area di proiezione per la cooperazione militare ed industriale nel campo della difesa.

In questo quadro, uno stimolo potrebbe essere offerto dal Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa, che se attuato pienamente ed in tempi certi renderebbe il sistema-difesa italiano più in grado di cooperare in Europa.

Alessandro Marrone è Responsabile di Ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI Twitter @Alessandro__Ma; Daniele Fattibene è Assistente alla Ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI Twitter @danifatti.
  - See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3320#sthash.uWLvvCBa.dpuf

venerdì 5 febbraio 2016

Crescita economica: fra crescita e squilibri e maleinformazione

Economia internazionale 
L’Fmi del XXI secolo: molte sfide, poche risorse
Carlo Cottarelli
05/02/2016
 più piccolopiù grande
L’aggiornamento delle stime contenute nel World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale, Fmi, è stato recentemente presentato a Londra. Il quadro che ne risulta descrive una situazione in chiaroscuro.

L’economia globale tra crescita e squilibri
Il tasso di crescita medio dell’economia mondiale per il prossimo biennio si attesta sul 3,5%. Tuttavia, i motivi di preoccupazione non sono pochi. In Brasile è in corso un pesante aggiustamento fiscale con effetti sul Pil più negativi del previsto.

L’economia cinese, pur crescendo a tassi ancora elevati, è nel bel mezzo di una transizione verso un modello di crescita più equilibrato.

In Europa la disoccupazione è ancora molto elevata mentre il tasso di inflazione è vicino allo zero in molte delle economie più sviluppate. La produttività della forza lavoro cresce a un ritmo fortemente inferiore al recente passato. Il debito pubblico e privato, dopo il rapido aumento nel periodo successivo alla crisi del 2008, resta elevato. La distribuzione del reddito si è andata concentrando verso l’1% più ricco della popolazione con conseguenze negative sulla domanda aggregata.

La situazione economica mondiale rimane dunque caratterizzata da notevoli squilibri ed esposta a rischi molto significativi. È prevedibile che il Fondo Monetario Internazionale venga chiamato a intervenire nuovamente a sostegno dei paesi colpiti da shock negativi o in crisi, ma sarà pronto a farlo?

La questione principale riguarda le risorse a disposizione. Il Fondo è un’istituzione che dovrebbe, in linea di principio, finanziare i suoi prestiti con le proprie risorse, ossia le quote pagate dai membri. Ciascun paese contribuisce alla dotazione dell’Fmi versando, in valuta di riserva o Diritti Speciali di Prelievo, una quota proporzionale alla dimensione della sua economia nazionale.

Tuttavia, a causa della scarsezza di tale risorse, l’Fmi, che non prende a prestito dai mercati anche se legalmente potrebbe farlo, si è trovato più volte costretto a prendere fondi in prestito dai paesi membri. Il problema è che le quote non hanno tenuto il passo con la crescita dell’economica mondiale e dei flussi finanziari.

Riforma delle quote 
Nel dicembre 2015 il Congresso americano ha ratificato una riforma, precedentemente approvata dai governi dei paesi membri del Fondo nel 2010, che prevede il raddoppio delle quote totali versate dai paesi e la redistribuzione delle stesse alla luce dei nuovi equilibri macroeconomici mondiali.

Le risorse proprie del Fondo passano così da 238.5 miliardi a 477 miliardi di Diritti Speciali di Prelievo, unità di conto del Fondo che corrisponde circa a 1,38 dollari statunitensi.

Questo aumento, a fronte della sostenuta crescita che ha caratterizzato l’economia mondiale negli ultimi 40 anni, non è comunque sufficiente a riequilibrare il rapporto tra quote e Pil mondiale che permane del 40% più basso rispetto agli anni ’70, mentre il rapporto tra quote e flussi di capitale è addirittura del 50% più basso.

Quanto descritto implica limitazioni non secondarie: nel 1976-1977 il Fondo Monetario ha fatto prestiti a paesi come l’Italia e il Regno Unito, cosa che oggi sarebbe molto difficile considerato il fabbisogno di finanziamento lordo di questi paesi (il fabbisogno lordo del Tesoro italiano è attualmente di circa 40 miliardi di dollari al mese).

Le conseguenze pratiche di questa scarsità di risorse sono diverse. Primo, continua a lasciare il Fondo alla dipendenza di prestiti dei paesi membri nel caso di necessità. Secondo, comporta una maggiore prudenza da parte del Fondo nell’erogazione di prestiti al di sopra di un certo ammontare.

Il Fondo ha definito da tempo una politica di Exceptional Access per la quale i prestiti di dimensione superiore a 2-3 volte la quota versata dal paese richiedente ricevono condizioni particolari come, ad esempio, tassi di interesse più elevati (per scoraggiarne l’uso prolungato) e criteri di valutazione della sostenibilità del debito più stringenti.

Dato il criterio basato su un multiplo delle quote, la riduzione della dimensione delle stesse rispetto all’economia globale comporta l’aumento dei casi considerati eccezionali. A mio giudizio, la scarsa dimensione delle risorse ha anche portato il Fondo a essere più favorevole di un tempo alla ristrutturazione del debito.

Una recente prova di questa tendenza è stata la recente abolizione della cosiddetta “clausola sistemica”. Fino a poco tempo fa, il Fondo poteva prestare a paesi considerati sistemici ammontari di importo “eccezionale” (nel senso sopra indicato) anche se il loro debito pubblico non fosse considerato sostenibile con alta probabilità.

Questa clausola, che era stata introdotta per consentire il prestito alla Grecia nel 2010, è stata ora abolita e paesi il cui debito è considerato sostenibile ma non con alta probabilità potranno tipicamente prendere a prestito dal Fondo solo dopo aver proceduto almeno a un “reprofiling” del debito (una ristrutturazione in termini di scadenza e tassi di interesse).

La scarsità di risorse comporterà inoltre la crescente necessità di cooperare con accordi di finanziamento regionale quali lo European Stability Mechanism nell’Eurozona o l’Accordo di Chian Mai in Asia.

La governance, emergenti sempre più rappresentati
La riforma recentemente approvata modifica anche la rappresentanza dei paesi all’interno del Fondo. La quota dei voti dei paesi emergenti e in via di sviluppo sale dal 39,5% al 42,3%. Quella dei paesi avanzati scende dal 60,5% al 57,7%. I quattro Brics (Brasile, Russia, India, Cina) saranno tra i primi dieci Paesi per quota.

L’influenza della Cina nello specifico è aumentata e la decisione di far entrare la moneta di Pechino nel paniere dei Diritti Speciali di Prelievo ne è una testimonianza concreta.

Gli Stati Uniti, mantenendo una quota superiore al 15%, hanno ancora il diritto di veto su molte decisioni del Fondo e un’influenza particolare. Basti pensare che il Congresso ha richiesto l’invio da parte dell’amministrazione americana dei documenti sulle riunioni del consiglio del Fondo relativi a prestiti di importo eccezionale almeno una settimana prima delle riunioni, il che comporta che tali documenti dovrebbero essere presentati al parlamento americano come documenti strettamente confidenziali prima che siano dati a qualunque altro ente non governativo.

L’Europa è ancora divisa. L’Italia, che sostiene la necessità di avere un unico direttore esecutivo a livello di area dell’euro, pur scendendo, con la riforma delle quote, dal 3,31% al 3,16% dei voti, mantiene il settimo posto come quota.

In un’economia mondiale la cui dimensione e i cui squilibri continuano a crescere, l’impoverimento degli strumenti a disposizione del Fondo potrebbe rappresentare un problema aggiuntivo, soprattutto alla luce della maggiore interdipendenza delle economie nazionali che avrebbero bisogno di istituzioni internazionali in grado di coordinarle nel raggiungimento di un maggiore benessere su scala globale.

Carlo Cottarelli è economista, attualmente è direttore esecutivo per l’Italia al Fondo Monetario Internazionale.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3318#sthash.Aiaulmre.dpuf

martedì 2 febbraio 2016

Immigrazione: una ennesima polizia

Immigrazione 
Guardia costiera europea, una soluzione limitata 
Fabio Caffio
22/01/2016
 più piccolopiù grande
Blindare le frontiere, identificare i migranti irregolari, rimpatriare celermente i non aventi titolo a protezione sono le missioni che l'Unione europea, Ue, immagina per la propria "Border and Coast Guard".

L'ambizioso (e costoso) progetto cerca di supplire alle carenze di quegli Stati, Italia compresa che, spinti dalle ondate migratorie, non hanno potuto o voluto acquisire dati identificativi delle persone entrate illegalmente sul proprio territorio, lasciando che si dirigessero verso altri Paesi.

L'obiettivo è preservare la libera circolazione del sistema Schengen e la sicurezza interna della Ue, aiutare (o costringere) i Paesi membri a individuare preventivamente i migranti economici e le persone potenzialmente pericolose da non accogliere. Anche se questo comporterà un'erosione di sovranità nazionale.

Le ragioni di tale iniziativa che mira a superare i limiti dell'azione di Frontex sono intuitive se si pensa che 1.000.000 di persone sono entrate illegalmente in Europa durante il 2015; ma la scelta presenta criticità riguardo alle frontiere marittime come dimostrato dalle difficoltà dell'operazione Triton e di Eunavfor-Med, che non ha ancora raggiunto il suo scopo di neutralizzare i traffici di barconi dalla Libia.

Mito frontiere marittime
Il limite delle acque territoriali (12 miglia, salvo le 6 mg. greche o distanze inferiori in casi specifici come certe isole antistanti la Turchia) rappresenta la frontiera marittima esterna Ue.

Ne sono fuori, invece, la zona contigua e la zona economica esclusiva in cui gli Stati non esercitano sovranità, ma solo diritti funzionali e, a maggior ragione, la zona di responsabilità per la ricerca e soccorso (SAR).

Negli anni si è costruito il mito dell'intangibilità delle frontiere marittime Ue affidando a Frontex il compito di difenderle. Di questo ha beneficiato la Spagna (che nel 2015 ha registrato solo 3.000 arrivi) mediante respingimenti verso Marocco e Senegal e, in parte, la Grecia che ha tuttavia dovuto capitolare di fronte alle ondate di profughi siriani giunti via mare dalla Turchia.

L'Italia ha voluto fare spesso da sola incappando, nel 2009, nella nota condanna per i respingimenti verso la Libia attuati nel quadro del Trattato bilaterale di amicizia. Se si esclude il periodo 2008-2009 e quello ante 1997, il nostro Paese è intervenuto sempre in missione SAR, trasportando i migranti sul proprio territorio (150.000 nel 2015). Ma i meriti SAR non hanno impedito alla Ue di sanzionare l'inefficienza dei nostri "hotspot" dedicati all'identificazione delle persone salvate.
Fonte IOM.

Interessi contrastanti sulla libertà di circolazione
La Francia ha spesso assunto posizioni dure contro l'Italia per la mancata identificazione dei migranti irregolari, attuando di fatto la sospensione di Schengen; tuttavia non si è mai impegnata nel SAR, come invece il suo status di grande Paese mediterraneo avrebbe richiesto.

Ora, con l'istituzione di un' agenzia europea della Guardia costiera e di frontiera dotata di forti poteri di intervento, si mira a costringere gli Stati mediterranei a rispettare le regole europee poste a base della libera circolazione delle persone.

La Grecia, presa dai suoi problemi economici interni, cerca di scaricarsi del problema della permeabilità delle sue frontiere marittime attraverso cui sono passati più di 800.000 persone.

L'Italia non ha però bisogno dell'aiuto della Guardia costiera europea, forte com'è del robusto dispositivo navale di Marina militare, Capitanerie di Porto e Guardia di Finanza capace di sorvegliare, ai fini SAR e di contrasto agli scafisti, i propri limiti delle acque territoriali e la vasta area del Mediterraneo centrale.

Del resto, il modello italiano di Guardia costiera è interagenzia, nel senso che è strutturato come "funzione Guardia costiera" con l'apporto di varie amministrazioni, Difesa compresa, mentre la Ue sembra ipotizzare una sua propria struttura di Guardia costiera in senso stretto.

Paradossi della Guardia costiera europea
L’impegno umanitario italiano in operazioni come Mare Nostrum sembra non essere considerato rilevante nell'agenda Ue. La nuova Guardia costiera unificata dovrebbe infatti occuparsi incidentalmente di SAR, che è invece una delle due facce dell'immigrazione via mare, assieme alla lotta ai traffici illeciti.

Velleitario appare il progetto di affidare ad un "Return Office" i rimpatri forzosi degli "indesiderati": difatti, per varie criticità legali -non ultima quella della impossibile individuazione, in assenza di documenti, del Paese di origine - questi ammontano solo a qualche migliaio.

In realtà, il vero paradosso sta nel non concentrarsi su misure di prevenzione, quali la creazione fuori Ue di centri di esame dei richiedenti asilo, la responsabilizzazione nel controllo delle proprie coste di Paesi come la Turchia, la criminalizzazione del traffico illegale di migranti da parte degli Stati interessati secondo i paragrafi 15-16 della Risoluzione del Consiglio di sicurezza 2240 (2015) sulla situazione del Mediterraneo.

Auspicabile sarebbe infine un progetto europeo di cooperazione nel SAR mediterraneo con la messa in comune degli assetti cui affiancare una modifica del sistema di Dublino, svincolando il Paese di sbarco da quello di asilo.

Fabio Caffio è Ufficiale della Marina militare in congedo, esperto di diritto internazionale marittimo.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3301#sthash.tJPnIRWW.dpuf

Tentativi che sono sempre più difficili

Medio Oriente
Siria, il processo di Vienna non naviga in buone acque
Roberto Aliboni
23/01/2016
 più piccolopiù grande
Secondo i patti stabiliti nell’ambito del Processo di Vienna, il 25 gennaio le parti siriane dovrebbero riunirsi a Ginevra sotto la guida di Staffan de Mistura, al fine di negoziare entro sei mesi un esecutivo nazionale che dovrebbe poi nel giro di un anno e mezzo sovrintendere alla redazione di una nuova costituzione e alle elezioni di un nuovo governo.

Tuttavia, de Mistura non ha voluto inviare gli inviti poiché manca fra le parti un accordo sulle delegazioni. In teoria, poiché il negoziato è sotto la mediazione dell’Onu, de Mistura potrebbe prendere lui le decisioni necessarie. In realtà, si può ben capire l’esitazione dell’inviato a compiere un gesto legittimo, ma inutile e forse anche controproducente.

È dunque possibile non solo che il negoziato avvenga - come ormai sembra deciso - senza che le parti s’incontrino direttamente - con de Mistura che parla separatamente con entrambe e poi riferisce - ma che ci sia un rinvio.

Il processo di Vienna per la risoluzione del conflitto in Siria
Perché tante difficoltà? Il processo di Vienna è basato su due pilastri: (a) la selezione delle opposizioni al regime, che per poter partecipare devono essere riconosciute come non terroristiche dal gruppo di contatto che ha lanciato il Processo (l’International Syria Support Group-Issg), in particolare da Russia, Stati Uniti, Iran, Arabia Saudita e Turchia; (b) la decisione di soprassedere all’estromissione preventiva di Assad - che è la posizione ufficiale degli Usa, dell’Europa, degli arabi e della Turchia - nella convinzione che il processo possa far maturare le condizioni perché la questione cessi di costituire la pregiudiziale che ha finora fatto fallire i precedenti tentativi.

Nella fase preliminare all’inizio del negoziato, che si è svolta fra novembre e dicembre, la selezione delle opposizioni volta alla costituzione della loro delegazione nel negoziato non ha prodotto il necessario consenso nell’Issg. Inoltre, la delegazione risultante ha riproposto con forza la questione di Assad che doveva invece essere accantonata.

Perciò, arrivati al momento di iniziare il negoziato sia pure tra molte difficoltà, l’Onu è costretto a constatare che i due pilastri non reggono e che, di conseguenza, appare difficile e rischioso lanciare il negoziato, anche perché le delegazioni si stanno mettendo su un piano pregiudiziale e minacciano di non partecipare.

Opposizione siriana, lo scontro sulle delegazioni 
La selezione diretta a definire la delegazione delle opposizioni, escludendo quelle di stampo terrorista, è alla base delle difficoltà attuali.

Mentre nei due schieramenti è risultata scontata l’esclusione di Isis e Jabat al Nusra (in quanto legato ad al-Qaida), sul resto l’accordo non riesce a coagularsi per almeno due ragioni.

In primo luogo, perché esiste una divergenza sui curdi: la Turchia - considerandoli terroristi - ha ostacolato la loro partecipazione alla formazione della delegazione. Al contrario, i russi li vogliono assolutamente dentro e, in questo, gli americani - per i quali oggi i curdi costituiscono la punta di diamante della lotta sul terreno all’Isis - li appoggiano.

In secondo luogo, la delegazione dell’opposizione - che si è intanto costituita nella conferenza di Riad appositamente organizzata dall’Arabia Saudita il 10 dicembre - è risultata coesa nei suoi intenti (un risultato che forse neppure Riad si aspettava) e composta da gruppi che in effetti non sono terroristi o difficilmente potrebbero essere considerati come tali.

Ciò si è dovuto al fatto che Ahrar al-Sham, il forte gruppo radicale (terzo per importanza dopo Isis e Jabat al-Nusra), arrivati al dunque si è spaccato e non è entrato nella delegazione.

La delegazione è comunque invisa a Damasco, Mosca e Teheran, ma oggettivamente poco esposta ad obiezioni. Tuttavia, anche ammesso che lo schieramento filo-Damasco si decida ad accettarli, la delegazione stessa ha preso una forte posizione pregiudiziale sulla questione di Assad, facendo rientrare dalla finestra un problema che evidentemente non si lascia mettere sotto il tappeto.

Il nodo Assad
Sulla reintroduzione della pregiudiziale ad Assad in realtà non sono d’accordo neppure gli Usa. Irrimediabilmente, nel processo, malgrado gli accorgimenti diplomatici, si è assistito al netto riemergere dello scontro all’interno dello schieramento anti-Assad fra gli autentici avversari di Assad - quelli che considerano Assad il nemico numero uno e solo secondariamente l’Isis - e quelli per cui il vero nemico numero uno è invece l’Isis.

Mentre Riad ha costruito una delegazione puramente “sunnita”, sulla questione, i suoi alleati occidentali sono più d’accordo con la Russia, Teheran e Damasco che con le altre potenze sunnite della regione: vogliono i curdi nella delegazione e non vogliono che la delegazione ponga pregiudiziali su Assad.

La sorte del regime è considerata ormai dagli occidentali, specialmente dopo i fatti di Parigi del 13 novembre e la posizione assunta dal governo francese, sempre più in funzione della lotta all’Isis: si può accantonare la persona di Assad (e anche qui probabilmente c’è un accordo dall’Atlantico agli Urali), ma il regime e le sue forze armate possono essere utili contro l’Isis.

Dunque, il processo non è in buone acque. Lo scontro sulla composizione della delegazione delle opposizioni è solo la superficie di dissensi politici e strategici forti e incrociati. Soprattutto, fra i “sunniti” e gli occidentali.

I primi intendono eliminare Assad, come pilastro dell’asse sciita e rivoluzionario nella regione - il fattore che impedisce ai sunniti di competere con l’Iran e fermarne la penetrazione. I secondi ritengono invece che la priorità sia l’Isis.

Su questo dissenso di fondo fra sunniti e occidentali, la Russia e l’Iran costruiscono il loro vantaggio sia nel conflitto siriano (che nel medio periodo vedrà una prevalenza militare del regime grazie all’aiuto russo) sia nella regione dove la lunga alleanza fra sunniti e Occidente sta sempre più tramontando.

Se le difficoltà non vengono superate presto e se, nel frattempo, come pare possibile, l’equilibrio militare cambia a favore di Damasco, il processo di Vienna - terzo tentativo dopo i due precedenti a Ginevra - è destinato anch’esso a diventare una memoria.

La chiave sta in un cambiamento della politica dell’amministrazione di Barack Obama che ovviamente non avverrà. Bisognerà aspettare la nuova presidenza Usa, ma nel frattempo non è dato di immaginare quali altri vertici raggiungerà la tragedia umanitaria della Siria, la fuga degli abitanti dal paese e la sorte dei conflitti in corso in Siria e nella regione.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3302#sthash.eg2zknCT.dpuf