Per la traduzione in una lingua diversa dall'Italiano.For translation into a language other than.

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

Cerca nel blog

mercoledì 31 maggio 2017

No USE delle armi nucleari

Verso unTrattato
Armi nucleari: Onu, nuovo round su abolizione
Carlo Trezza
13/06/2017
 più piccolopiù grande
Il 15 giugno si aprirà a New York, nel quadro di una risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la seconda e forse definitiva sessione di una conferenza che ha per obiettivo di negoziare "uno strumento legalmente vincolante per proibire le armi nucleari e volto alla loro totale proibizione".

Non v’è precedente di un'iniziativa altrettanto ambiziosa: non si era mai giunti a trattare una proibizione totale dell'arma nucleare.

Teoricamente, un impegno di questo tipo non sarebbe problematico per la stragrande maggioranza degli Stati, che, avendo aderito al Trattato di Non Proliferazione nucleare (Tnp) del 1970, hanno già rinunciato all'arma atomica. Anche la disposizione, che pure dovrebbe essere inclusa nel nuovo trattato e che prevede la proibizione degli esperimenti nucleari, non presenta difficoltà, poiché ad un Test Ban Treaty hanno aderito quasi tutti gli Stati.

Un’iniziativa che crea scompiglio generale
Nella realtà l'iniziativa ha invece creato uno scompiglio generale. La proibizione crea evidenti difficoltà ai cinque Paesi cui il Tnp concede di possedere l'arma nucleare (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti), cui si sono aggiunti nel tempo altri quattro che non hanno aderito al Tnp e si sono dotati anch'essi dell'arma nucleare (India, Israele, Pakistan e da ultimo la Corea del Nord).

In base all'accordo in fieri a New York anch’essi dovrebbero infatti rinunciare agli arsenali nucleari che costituiscono il fulcro della loro strategia difensiva. Essi non hanno dato alcuna indicazione di voler rinunciare all'arma atomica.

La tenuta della conferenza di New York crea anche seri grattacapi ai cosiddetti "umbrella states", quelli la cui difesa finale conta sull'ombrello nucleare americano. Si tratta degli alleati europei della Nato, ma anche di Paesi dell'Asia/Pacifico come Corea del Sud, Giappone e Australia.

I Paesi della Nato, tutti fuori tranne l’Olanda
Tutti i Paesi della Nato (con l'eccezione dei Paesi Bassi) hanno deciso di non partecipare a questo negoziato, anche se approvato a larga maggioranza in Assemblea generale e nonostante l'impegno vincolante adottato nel Tnp di negoziare "uno strumento giuridicamente vincolante che proibisca le armi nucleari e conduca alla loro eliminazione totale" .

Non presentandosi all'appuntamento, tali Paesi si pongono in una situazione di isolamento che non è confortevole per Stati tradizionalmente impegnati al multilateralismo. Rischiano così di far divenire legge internazionale disposizioni come il divieto di stazionare armi nucleari in Paesi terzi che è stato ora incluso nel nuovo testo e che invece non è proibito dal Tnp. Tali disposizioni rischiano di creare obiettive difficoltà per i Paesi Nato che ospitano sistemi nucleari americani sul proprio territorio. Non sarà facile per l' Olanda fare fronte da sola a tali difficoltà.

L’Unione europea in ordine sparso
Certo, la nuova normativa non varrà per gli Stati che non vi avranno aderito e l'assenza delle potenze nucleari indebolisce fortemente l'intesa. Ma è assai probabile che il negoziato finisca per produrre, comunque, un accordo internazionale giuricamente vincolante e depositato presso le Nazioni Unite, nel quale i Paesi assenti non avranno fatto valere i propri interessi e valori. È anche prevedibile, come avvenuto in altre occasioni, un "effetto stigmatizzazione" nei confronti di coloro che si saranno tenuti fuori dall'accordo.

Se la Nato non è del tutto compatta su questa questione, l'Unione europea è purtroppo ancora più frammentata. L'Irlanda e l'Austria figurano tra i promotori di questa iniziativa, Malta, Cipro e la Svezia si sono uniti a loro nel votare a favore; la Finlandia e i Paesi Bassi si sono astenuti. I rimanenti Paesi membri Ue, tra cui l'Italia, sono anche membri della Nato e - con l'eccezione, appunto, dell'Olanda – hanno deciso di non partecipare al negoziato. Non vi è alcuna possibilità, nonostante il forte impegno dell'Alto Rappresente Federica Mogherini in questo campo, di trovare una posizione comune europea su questa materia.

Meglio partecipare che lasciare fare
Ciascun Paese è quindi costretto ad andare per la propria strada. Sono da rilevare alcune iniziative in ambito nazionale. In Francia ex ministri hanno lanciato un appello al governo (fermamente contrario alla Conferenza) a partecipare alla prossima ripresa del negoziato. Analoga iniziativa è stata intrapresa in Italia a titolo personale da accademici appartenenti all'Unione degli Scienziati italiani per il Disarmo (Uspid), da alcuni membri del capitolo italiano dello European Leadership Network, da Pugwash e Landau Network. Tutti enti impegnati nel campo della sicurezza e controllo degli armamenti.

Salire su un treno in corsa non è facile e nessuno si è trovato in difficoltà maggiori del Giappone, la principale vittima dell'arma nucleare. Dopo un ampio dibattito interno ha finito anch'esso per chiamarsi fuori dal negoziato. Non prima di avere dato alla Conferenza stessa una lunga spiegazione dei motivi di tale dolorosa decisione.

Un dibattito analogo sul nucleare dovrebbe aprirsi anche in Europa per cercare di riavvicinare posizioni ancora molto divergenti. Lo si potrebbe avviare partendo dal principio che un'eventuale intesa sul nucleare dovrebbe essere giuridicamente vincolante e verificabile e alla condizione che vi aderissero tutti i Paesi dell' Europa, Russia compresa.

Carlo Trezza è Senior Adviser dello IAI per il Disarmo e la Non Proliferazione.

giovedì 25 maggio 2017

Un G7 di personaggi intransito

Presidenza italiana
G7: il Califfo dà la scossa a un Vertice da melina
Giampiero Gramaglia
25/05/2017
 più piccolopiù grande
Diciamoci la verità. Se il G7 2017 non si svolgesse a Taormina, ma in uno degli altri Paesi del Gruppo dei Grandi, tipo Giappone - l’anno scorso - o Canada - l’anno prossimo -, considereremmo l’evento come una tappa minore nella successione di questi Vertici: non ci sono decisioni da prendere e i protagonisti sono quasi tutti ‘in transito’.

C’è chi arriva ed è all’esordio - quattro su sette -, c’è chi può essere alla scena d’addio - tre su sette -: gente che va, gente che viene, in una sorta di ‘Grand Hotel’ della politica internazionale, senza protagonisti fascinosi come Greta Garbo e John Barrymore.

Certo, si parlerà a Taormina di temi essenziali: la crescita e il lavoro, il clima e l’ambiente, la lotta contro il terrorismo. Ma quando mai non se n’è parlato, al G7? E il persistere dell’assenza del presidente russo Vladimir Putin riduce ulteriormente il peso del Gruppo, da tempo inadeguato a una governance globale - né il G20, che sarà a luglio in Germania, ha finora dato prove convincenti.

Gli avvoltoi del terrorismo su Taormina
A dare la scossa a un Vertice che, come quello della Nato a Bruxelles, valeva come presa di contatto tra il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump e i suoi partner e alleati, è stato il soldato del Califfo fattosi esplodere la notte di lunedì alla Manchester Arena, dopo un concerto, portando via con sé decine di vittime, bambini, ragazzine, famigliole.

Gli avvoltoi del terrorismo sono così tornati a volare, in giri larghi, sulla prima missione all’estero di Trump, inasprendo le dichiarazioni anti-terrorismo della Nato e del G7 e rinnovando la consapevolezza di avere un nemico comune, il fanatismo integralista. Ma, parole forti a parte, la qualità della risposta, che non può essere solo militare, resta inadeguata alla minaccia.

Il cabotaggio di Trump fra i monoteismi
Trump arriva a Taormina al termine di un viaggio tra Medio Oriente ed Occidente: prima, ha fatto cabotaggio tra i monoteismi, dalla culla dell’Islam alla Terra Promessa alla capitale della Cristianità, dicendo che bisogna combattere uniti il terrorismo - salvo scavare il solco tra sunniti e sciiti, come se non fosse già abbastanza profondo -, invitando alla pace genericamente israeliani e palestinesi - e dando agli uni e agli altri segnali contraddittori -, apparendo imbarazzato e impacciato a tu per tu con Papa Francesco.

I media, in particolare quelli italiani, ché quelli americani sono stati meno compiacenti, hanno accompagnato con una certa condiscendenza il percorso di Trump, dando addirittura risalto di titolo a battute di circostanza e ‘passe-partout’ come “Non dimenticherò mai le sue parole” - il congedo del presidente dal pontefice.

La glaciale platea arabo-sunnita che ascoltava a Riad il discorso di Trump ha potuto trarne due messaggi: liberi di fare quello che vogliamo a casa nostra, al diavolo i diritti dell’uomo e il rispetto delle donne, ché questo presidente non ce ne chiede conto; e liberi di arginare, e financo combattere, l’Iran sciita. In cambio, l’impegno a contrastare il terrorismo, che non si nega mai a nessuno, specie quando, con questa scusa, puoi meglio reprimere in patria i tuoi avversari - l’esempio turco dell’autoritario Erdogan vale per tutti, se monarchi ed emiri sauditi avessero mai bisogno d’esempi in materia. E che non esime dal sostenere e foraggiare i movimenti sunniti, se c’è da farlo in Iraq e in Siria.

Nato e G7: alcune carte restano coperte
Adesso, alla Nato e al G7, Trump dovrebbe scoprire le carte. Ma la sua Amministrazione ha già preso tempo: sugli scambi e sul clima, l’elaborazione delle nuove posizioni americane - a oltre 6 mesi dall’elezione e a 130 giorni dall’insediamento alla Casa Bianca - non è ancora abbastanza avanzata. Il presidente, ora, ha con sé l’enciclica sull’ambiente donatagli da Papa Francesco, ma leggerla e farla propria è un’altra storia.

Dunque, a Taormina si farà un po’ d’ ‘ammoina’, anche se ci sarà senz’altro la possibilità di trovare nelle conclusioni del Vertice significati particolari sull’immigrazione, sulla stabilità in Medio Oriente e nel Nord Africa e pure sulla parità di genere.

E l’adesione della Nato alla coalizione anti-terrorismo e il braccio di ferro presunto sul 2% del Pil da spendere per la difesa sono schermaglie fittizie dall’esito o operativamente insignificante - l’adesione alla coalizione, facendone già parte i singoli Paesi - o scontato, perché l’impegno, quasi mai rispettato, è già contenuto in decine di documenti dell’Alleanza - da ultimo nei titoli di coda dei Vertici di Cardiff e di Varsavia, svoltisi con la regia di Obama.

Quanto alle dichiarazioni dei leader contro il terrorismo, esse non sono strumenti efficaci, ma piuttosto riti scontati. E il ricorso agli strumenti classici nella guerra al sedicente Stato islamico - attacchi a Mosul e bombardamenti su Raqqa - non è risolutivo: smantellata e pressoché neutralizzata una rete terroristica - al Qaeda -, un’altra ne nasce dalle ceneri, perché l’incendio s’alimenta nel fanatismo religioso, nella frustrazione sociale, in una sete di rivincita atavica.

In questo senso, la missione di Trump e i Vertici della Nato e del G7 non appaiono forieri di passi avanti decisivi, verso la sconfitta del terrorismo e dell’integralismo; né potevano probabilmente esserlo.

L’Ue in un ritaglio di tempo, Macron a pranzo
A Bruxelles, Trump trova uno scampolo di tempo per incontrare presidenti e responsabili delle Istituzioni europee. Ma lascia più spazio al presidente francese Emmanuel Macron, con cui pranza: è una conferma di un approccio caratteristico della sua Amministrazione, più incline al rapporto tra Stati che al dialogo con le organizzazioni internazionali.

Macron, del resto, è l’unico dei Grandi attualmente sicuro di essere interlocutore di Trump per tutta la durata del suo (primo?) mandato. Per averne la certezza, Theresa May ed Angela Merkel dovranno superare i loro ostacoli elettorali - l’8 giugno e il 24 settembre rispettivamente. E, se usciranno vincitrici dal voto, la May si poterà comunque dietro l’handicap della Brexit e la Merkel, ‘padrona’ dell’Europa, e decana fra i Grandi, non è mai stata una mattatrice al G7.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI (@ggramaglia).

martedì 23 maggio 2017

Vigilia del G7

Presidenza italiana
G7: la vigilia a Berlino, Parigi e Roma
Veronica De Romanis
17/05/2017
 più piccolopiù grande
La foto ricordo del G7 di Taormina del 26 e 27 maggio prossimi metterà insieme leader esordienti come Donald Trump, Paolo Gentiloni, Emmanuel Macron - fresco di vittoria - e Theresa May - in attesa di una simile vittoria -, e leader che di queste foto ne hanno fatte diverse, Angela Merkel (11), Shinzo Abe (5) e Justin Trudeau (2).

Lo scatto, difficile da prevedere solo un anno fa, diventerà - con ogni probabilità - il simbolo di un mondo profondamente mutato a seguito del cambio di inquilino alla Casa Bianca. Gli equilibri tra le varie potenze dovranno ricomporsi per far fronte alle politiche di chiusura e di divisione dell’attuale amministrazione americana. In particolare, i tre principali Paesi europei - Germania, Francia e Italia - dovranno mostrare unità, nonostante situazioni economiche e politiche parecchio distanti.

Germania, Francia, Italia: condizioni non comparabili 
La Germania registra la performance economica migliore: il tasso di variazione del prodotto interno lordo è in linea con la media dell’area dell’euro e pari all’1,6% - la disoccupazione è ai minimi storici - quella totale supera di poco il 4%, quella della fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni, sfiora il 7% -, i conti pubblici sono in ordine.

Dal punto di vista politico, il Paese è stabile. Grazie a un approccio sul tema dell’immigrazione “meno tollerante e più europeo”, il governo è riuscito a arginare Alternative für Deutschland, una forza xenofoba e anti-sistema che sembrava destinata a dominare la scena politica tedesca.

I principali istituti demoscopici concordano nel prevedere che la Cdu e l’Spd dovrebbero raccogliere complessivamente i due terzi delle preferenze, nelle urne delle legislative di settembre: si profila, quindi, una riedizione della Grosse Koalition. A capo, dovrebbe esserci per la quarta volta Angela Merkel, visto che “l’effetto Schulz” sembra essersi esaurito: nelle recenti elezioni in Saarland, in Schleswig-Holstein e, soprattutto in Nord Reno-Vestfalia - Land tradizionalmente roccaforte dei socialdemocratici - il partito della cancelliera è arrivato primo, con risultati ben al di sopra delle attese.

Poi c’è la Francia che, con la battuta d’arresto inflitta al Front National di Marine Le Pen, ha acquisito una immagine politica decisamente rinnovata. Il Paese, però, ha bisogno di riforme - la crescita supera di poco l’1% e la disoccupazione si attesta al 10% - e di rigore fiscale - il disavanzo è al 3,3%, il debito sfiora il 100% del Pil.

E, infine, c’è l’Italia, in veste di padrona di casa ma in posizione di fanalino di coda: è lo Stato che cresce meno (1% del Pil) tra i paesi dell’eurozona, con il quarto livello più alto di disoccupazione (11,7% quella totale, 39% quella giovanile) e il secondo di debito (133%). Ma, soprattutto, è l’unico che vive una prolungata fase di incertezza politica anche perché non è riuscito a ridimensionare l’avanzata delle forze populiste.

Collaborazione e agenda economica
A fronte del nuovo contesto, con i negoziati della Brexit alle porte e con Trump che mira ad indebolire l’Europa, dividendola, (e, infatti, dopo solo una settimana dal suo insediamento ha attaccato pesantemente il governo di Berlino e la sua politica commerciale), Germania, Francia e Italia non hanno alternativa che lavorare insieme.

Del resto, nessun Paese dell’Unione ha la forza e le dimensioni per agire da solo. A cominciare dalla Germania che, infatti, conta su un rafforzamento del tradizionale asse franco-tedesco per accelerare il processo di integrazione europeo. Sui temi dell’immigrazione, della sicurezza e della difesa c’è da scommettere che non sarà difficile trovare una convergenza di vedute; su quelli economici, invece, la strada rischia di presentarsi in salita.

Alla proposta di una politica fiscale comune, avanzata in campagna elettorale da Emmanuel Macron, Angela Merkel si oppone. A suo avviso, la condivisione dei rischi può avvenire solo dopo una riduzione di tali rischi e, soprattutto, nel rispetto di quelle regole fiscali che la Francia viola da quasi un decennio. La cancelliera è consapevole, tuttavia, delle complessità, in termini di equilibri politici interni, che dovrà affrontare Macron.

Arroccarsi su posizioni troppo rigide, pertanto, rischierebbe di isolarla, come avvenuto durante la crisi. Dovrà quindi mediare, accettando tempi più lunghi per l’aggiustamento dei conti francesi in cambio di riforme. Procedendo in questo modo, verrebbe ripristinato un rapporto fiduciario minato in questi anni dalle tante promesse non sempre mantenute della presidenza Hollande.

La ritrovata fiducia consentirebbe a Macron di conquistare spazi negoziali su dossier come l’introduzione di un ministro delle Finanze unico o l’istituzione di un budget comune dell’eurozona, primi passi verso la costruzione di un’unione di bilancio, fondamentale secondo Macron, non solo per la Francia, ma per la tenuta dell’intero progetto europeo: “Bisogna far passare il principio dei trasferimenti da un Paese all’altro, altrimenti non ci sarà mai convergenza economica” ha ripetuto più volte nei mesi che hanno preceduto la sua elezione.

Italia: riforme o campagna elettorale?
Certo, non sarà semplice convincere la Merkel: quest’ultima deve fare i conti con un elettorato tedesco che di Transfer Union, dopo ben otto salvataggi (tre alla Grecia, uno all’Irlanda, uno al Portogallo, uno alle banche spagnole e uno a Cipro), proprio non ne vuole sentire parlare. Macron ha, quindi, bisogno di alleati. In questa partita, l‘Italia potrebbe giocare un ruolo di primaria importanza. Con il governo di Roma impegnato a riprendere il cammino delle riforme - avviato e poi interrotto dalla perenne campagna elettorale - e a invertire la rotta del debito, per il neopresidente francese sarebbe più facile trovare un compromesso con la Germania.

Del resto, per un Paese come il nostro, che deve risanare le finanze pubbliche e tornare a crescere, non sembra esserci alternativa a un mix di riforme e rigore. Ciò richiede, però, un netto cambio di strategia. A questo proposito, la legge di stabilità dell’autunno prossimo rappresenta un importante banco di prova per capire se verrà data priorità ai conti oppure alla campagna elettorale.

Veronica De Romanis, economista, è autrice de “Il Caso Germania: così la Merkel salva l’Europa” (Marsilio editori).

mercoledì 3 maggio 2017

Francia: verso il verdetto definitivo

Verso il secondo turno
Francia, presidenza con vista sulla coabitazione
Rodolfo Bastianelli
01/05/2017
 più piccolopiù grande
Per la prima volta nella Quinta Repubblica il ballottaggio per le presidenziali non vedrà la presenza né di un candidato socialista né di uno della destra moderata, visto che a contendersi l’Eliseo saranno Emmanuel Macron (En Marche!) e Marine Le Pen (Front National).

E salvo sorprese, proprio Macron il 7 maggio sarà eletto, e la Francia avrà così il più giovane presidente della sua storia, il quale arriverà alla massima carica dello Stato senza aver mai avuto un incarico elettivo a livello nazionale o locale e, soprattutto, senza contare su una formazione politica organizzata.

Lo scenario per il probabile prossimo presidente della Repubblica rischia tuttavia di complicarsi fin da subito. Un mese dopo il ballottaggio, la Francia sarà infatti chiamata nuovamente alle urne per le legislative (anch’esse secondo un sistema maggioritario a doppio turno). E stavolta, a differenza che in passato, quando il partito del candidato eletto all’Eliseo solitamente riportava la vittoria anche all’Assemblea nazionale, è quasi certo che nessuno dei due esponenti arrivati al ballottaggio potrà disporre di una propria maggioranza parlamentare autonoma.

Il bivio delle legislative di giugno
Nel caso improbabile che domenica si imponga la Le Pen, a giugno il Front National avrebbe la forza di conquistare solo una manciata di seggi, rimanendo quindi lontanissimo dal numero di 289 necessario per governare (lei ha intanto già aperto alle intese, siglando un patto di governo con il sovranista Nicolas Dupont-Aignan, ex neogollista che con la sua lista “Debout la France” al primo turno delle presidenziali aveva raccolto il 4,7%).

Anche qualora vincesse Macron le prospettive non sembrano più convincenti. Nato pochi mesi fa, “En Marche!”, il movimento fondato dall’ex ministro dell’Economia, non ha radicamento sul terreno e per le legislative potrà far leva solo sul fattore novità espresso da Macron. I suoi candidati rischiano però di essere percepiti come inesperti, non avendo dato nessuna prova delle loro capacità in campo politico, oppure, nel caso in cui dovesse schierare alcune vecchie figure provenienti dal Partito socialista o dalla destra neogollista, come troppo ancorati al passato e ben lontani dal rinnovamento che il neopresidente intenderebbe portare avanti.

Un’Assemblea nazionale in mano al centrodestra
È opinione diffusa che il risultato più probabile sia quello di un’Assemblea nazionale con una maggioranza di centrodestra che a quel punto esprimerebbe un proprio premier ed un proprio governo, imponendo all’Eliseo una nuova coabitazione fra presidente e primo ministro di orientamento politico diverso.

Una circostanza questa verificatasi già tre volte in passato durante la Repubblica: due volte sotto Mitterrand, quando il presidente socialista - prima nel biennio tra il 1986 ed il 1988 e poi tra il 1993 ed il 1995 - venne costretto alla coabitazione con esecutivi neogollisti, ed infine tra il 1997 ed il 2002, quando Chirac dovette coabitare con un governo guidato dal socialista Lionel Jospin.

Sul piano politico, gli effetti di questo scenario sarebbero quantomai rilevanti. Appena eletto, il neopresidente si troverebbe davanti per tutto il mandato un’Assemblea nazionale espressione di una maggioranza opposta a quella presidenziale ed un governo che, di conseguenza, sarebbe totalmente svincolato dal controllo dell’Eliseo e che condurrebbe in piena autonomia la politica economica e la gestione dell’ordine pubblico, lasciando al Capo dello Stato solo un ruolo predominante nella gestione della politica estera e della difesa.

Conflitto o collaborazione?
Come è stato più volte sottolineato, il sistema della Quinta Repubblica funziona se il governo è espressione della stessa maggioranza presidenziale, svolgendo così in pieno il suo ruolo di esecutore delle linee-guida tracciate dall’Eliseo. Nell’ipotesi della coabitazione, invece, il presidente si troverebbe limitato ad esercitare una funzione di primo piano nel solo campo militare (settore considerato come un “dominio riservato” presidenziale) ed internazionale, ma non avrebbe più voce in capitolo nella gestione della politica nazionale.

Difatti, nel caso in cui il centrodestra ottenesse un’affermazione alle legislative conquistando una maggioranza parlamentare autonoma, questo imporrebbe all’Eliseo un programma molto distante da quello presidenziale, viste le sostanziali differenze emerse tra i due schieramenti durante la recente campagna elettorale.

Ed è qui che entra in gioco un altro elemento, ovvero l’aspetto che assumerebbe l’eventuale coabitazione tra il presidente ed il primo ministro. Come hanno infatti mostrato le precedenti esperienze, questa potrebbe prendere un aspetto conflittuale (con il presidente che cercherebbe di imporre le sue prerogative al governo ricordando inoltre come rimanga sempre suo potere procedere allo scioglimento anticipato dell’Assemblea nazionale), oppure collaborativo, nel caso in cui invece le due teste dell’esecutivo negoziassero un compromesso per definire le rispettive funzioni.

Desistenza elettorale e rischio debolezza
Ma anche qualora dalle legislative non uscisse una maggioranza chiara, il compito di Macron si presenterebbe comunque complicato. Esclusa ogni collaborazione con la sinistra radicale (tanto che lo stesso Jean-Luc Mélenchon non ha voluto dare indicazioni di voto chiare per il ballottaggio), al neopresidente resterebbe solo la possibilità di dialogare con i socialisti e la destra moderata.

Ma i rapporti con il Ps non sono mai stati facili e, se anche diversi esponenti del governo Hollande - a cominciare dall’ex premier Manuel Valls e dal ministro della Difesa Jean-YvesLe Drian - si sono già alleati con Macron, molti nel partito guardano con sfavore a questa prospettiva; senza contare che il disastroso risultato delle presidenziali potrebbe lasciare i socialisti con appena qualche decina di parlamentari.

La soluzione più vantaggiosa per entrambe le parti sarebbe quella di negoziare un accordo di desistenza elettorale prima del voto, senza il quale, secondo stime attendibili, sia il Ps sia “En Marche!” riuscirebbero ad eleggere appena una quarantina di deputati; ma si tratta di una soluzione di difficile attuazione sul piano politico. Resterebbe quindi soltanto la cooperazione con la destra dei Républicains.

E se per alcuni questo scenario rappresenterebbe un equilibrio tra un presidente giovane ma allo stesso tempo inesperto ed un governo comunque espressione di forze moderate ed europeiste capace di andare avanti senza troppi scossoni, per i più critici uno scenario simile riporterebbe invece a quanto avvenuto durante la Quarta Repubblica, dove i Capi dello Stato erano deboli ed il Parlamento frammentato e diviso.

Rodolfo Bastianelli, giornalista e professore a contratto di storia delle relazioni internazionali, collabora con “L’Occidentale”, “Informazioni della Difesa”, “Rivista Marittima”, “Limes” ed “Affari Esteri”. Ha curato la politica estera per “Ideazione” e la rivista “Charta Minuta” della fondazione “Fare Futuro”.