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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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giovedì 29 febbraio 2024

La Gestione delle crisi internazionali

 


Ten. cpl. Art. Pe.  Sergio Benedetto Sabetta

 

            L’attuale crisi politico ed economica che investe tutto l’arco del Mediterraneo unita alla pressione demografica dalle aree del Sud, i traffici che questo ha permesso di sviluppare, hanno portato al riemergere delle problematiche di intervento già manifestatesi nei primi anni ’90 del Novecento con il crollo del sistema bipolare.

L’inserirsi di una ulteriore destabilizzazione politica in Ucraina e le rivendicazioni di nuovi potentati locali nelle varie parti del globo hanno reso ulteriormente complicata la scena, a questo si è aggiunta una profonda crisi economica unita al diffondersi di una tecnologia di comunicazione più ampia e a buon mercato, disponibile globalmente in settori sempre più ampi con conseguenti effetti di vasi comunicanti, è riemerso quindi l’interesse ad una analisi non solo economica dello scenario mondiale, secondo un filone che dalla crisi del “Golfo Persico” dei primi anni ‘90 del Novecento si succede fino all’attuale crisi del bacino del Mediterraneo.       

            Il nostro sistema internazionale è articolato in una dimensione globale ed in una dimensione regionale, i due sistemi hanno caratteri peculiari in quanto si organizzano con regole e istituzioni diverse, fino agli anni Cinquanta la prevalenza era costituita dalla dimensione globale conseguenza dei vasti imperi coloniali e dell’accentramento del potere economico, tecnologico e militare nelle mani di pochi stati, con la decolonizzazione sono entrate nella scena internazionale innumerevoli nuove entità statali, le quali hanno progressivamente rivendicato un proprio ambito di influenza.

            Si è cominciato a parlare di regionalizzazione del sistema internazione e ci si è accorti di una diversa sensibilità dei sottosistemi geografici ai processi in atto del sistema globale. I criteri per la delimitazione di queste regioni, sono la continuità e l’isolamento geografico, la comunità storico-culturale ed economica, infine una elevata interdipendenza politica.

            Le organizzazioni locali relazionano tra loro in un’altalena di cooperazione - conflittualità e quanto maggiore è la cooperazione tanto minore è la possibilità di influenza nella regione per potenze esterne, comunque si dovrà sempre tenere presente che,in ultima analisi, sono sempre le èlite degli Stati regionali a dettare i criteri del loro agire, anche in opposizione ai dettati dei governi esterni, occorre, inoltre, considerare l’ipotesi sempre più frequente che uno stesso Stato sia coinvolto in più regioni, come può accadere nel Mediterraneo o nel famoso “arco della crisi” che va dal Mar Rosso al Golfo Persico fino a ricongiungersi col Mediterraneo.

            Si può concludere affermando che la politica internazionale di un’area è la risultante delle politiche esterne degli stati che ne fanno parte e dei processi e delle pressioni politiche operanti nelle regioni confinanti, ma è anche causa, in quanto retroagisce, delle politiche delle regioni circostanti.

Secondo la concezione classica, derivante dalla Seconda Guerra Mondiale, del sistema internazionale come sistema rigidamente bipolare, i conflitti erano originati dallo scontro Est – Ovest, sarebbero stati in altre parole gli interessi delle due Superpotenze a incoraggiare e ingigantire gli scontri regionali.

            Dalla fine del bipolarismo altre cause intervengono a spiegare l’andamento della conflittualità internazionale, come l’emergere di potenze regionali su nuove basi ideologiche o l’aumento del commercio delle armi, quello che è comunque evidente è la perdita da parte delle Superpotenze e degli altri Stati centrali al sistema internazionale , della capacità di gestire e controllare le crisi regionali periferiche.

Vi è una discontinuità delle regole della sicurezza con cui si organizza il sistema e non essendovi validi accordi collettivi di difesa o regole di tutela gerarchicamente definite, prevale l’autotutela territoriale e politica, con la conseguente instabilità del sistema, se poi vi sono condizioni per rivalità egemoniche locali che si inseriscono su diverse ideologie di legittimazione dei regimi e delle gerarchie locali, il quadro si fa cupo.

            In breve,  le conflittualità locali sono conseguenza di una evoluzione delle politiche internazionali locali, che dopo una fase di coalizione delle forze nazionali al fine di costruire il nuovo apparato statale fanno emergere i problemi culturali, etnici e religiosi difficilmente gestibili dai giovani organismi statali troppo deboli organizzativamente ed economicamente. Nello stesso tempo gli Stati regionali più solidi cominciano a perseguire una politica estera più incisiva per affermare una propria sfera di influenza, magari in contrasto con le potenze globali e del centro del sistema.

            Se non ci si vuole perdere nell’analisi dei conflitti locali, occorre sempre tenere presente che lo Stato come qualsiasi organismo vivente, tende ad assicurarsi le condizioni migliori per la sopravvivenza.

            Gli elementi vitali in quanto costitutivi sono il territorio, la popolazione e le istituzioni di Governo, quando uno di questi tre elementi viene ad essere minacciato si ha una diminuzione della “sicurezza nazionale” con conseguente crisi internazionale, necessita perciò che ogni sistema abbia regole ed istituzioni specificamente designate a garantire la sicurezza collettiva, nel difficile passaggio da comportamenti competitivi a comportamenti cooperativi.

            Una sintetica classificazione dei fattori di conflitto si può articolare in tre gruppi: fattori nazionali, intraregionali ed extraregionali.

            I primi venivano da “arbitrarie” delimitazioni territoriali in conseguenza delle quali questioni etniche, linguistiche, religiose e ideologiche sono cause di guerre. I secondi sono antagonismi storici tra Stati a causa di contrasti nei valori socio-politici fondamentali, oppure rivalità di potenza per contrasti di interessi geopolitici. I terzi derivano da interventi diretti o indiretti di potenze straniere che fomentano i contrasti locali per propri fini.

            La gestione di una crisi presenta sempre notevoli problemi, in quanto ciò che per uno Stato può essere un pericolo da contrastare, per un altro può essere un’opportunità da sfruttare, se a questo si aggiunge la molteplicità dei protagonisti si può capire perché il concetto di controllo della crisi è per molti aspetti fuorviante ed eccessivamente ottimistico.

            Fattore fondamentale di una crisi è il fattore tempo, che può indurre le autorità responsabili a risposte affrettate, tali da determinare l’uso della forza fino al precipitare in un conflitto. Collegati strettamente al fattore tempo vi è quello dell’importanza delle poste in gioco, tali da fare accettare rischi elevati, entrambi poi (tempo e posta in gioco) possono dare origine ad una notevole tensione che può tradursi operativamente in una “escalation” irreversibile.

In tutto questo la complicazione consiste nella tentazione di sfruttare una presunta maggiore sensibilità dell’avversario ai pericoli del confronto, specialmente se i vantaggi appaiono molto allettanti, naturalmente tutto viene complicato dalla presenza di alleanze, in cui ciascun membro porta propri interessi e proprie valutazioni.

            Si capisce la difficoltà di una sagace gestione delle crisi in cui il prevalere del compromesso sarà la risultante di un difficile equilibrio di rinunce e di acquisizioni, infatti “la gestione della crisi è essenzialmente un tentativo di bilanciare e conciliare i diversi elementi” (Phill Williams). La chiave sta nel costringere con cautela e nel conciliare a buon mercato, naturalmente il problema è che quanto più lieve sarà la coercizione, tanto minore sarà la possibilità di ottenere concessioni o di costringere l’avversario a desistere dai suoi propositi.

            Ugualmente quanto più il compromesso è a buon mercato, tanto minori saranno le probabilità di persuadere l’avversario sulla convenienza delle offerte a lui pervenute (Glenn Snyder - Paul-Diesing).

            Il primo passo per i vertici politici in presenza di una crisi è di stabilirne la tipologia, ossia se si tratta di una crisi tipo Monaco (1938), con la necessità di rintuzzare una seria minaccia dell’avversario, o piuttosto di una simile a Sarayevo (1914), con la conseguente necessità di impedire che gli avvenimenti sfuggano dal controllo, il criterio di valutazione potrà essere la volontà o meno di creare lo stato di crisi anche se un tale esame può essere dei più difficili ed ingannevoli.

Il seguente passo dell’attivazione dei sistemi di sicurezza, senza tuttavia precipitare la crisi, è dei più essenziali, come del resto lo è l’attivazione dei contatti con le cancellerie alleate e contrapposte, anche se tale lavoro può essere frustrante e laborioso.

 In questa procedura, rapidissima nell’attuazione, possono crearsi momenti di scollamento tra potere politico e militare oltre che notevole stress a livello politico, tale da determinare una paralisi decisionale o misure avventate, tenendo conto della difficoltà di formulare proposte in brevissimo tempo necessarie per una seria trattativa, ma che al contempo tengano conto di tutte le dimensioni della potenza che vanno da quella politica, a quella militare, a quella economica, per non parlare dell’ideologia che sottende l’azione dell’avversario.

            Se questo è lo scenario internazionale e tali sono le dinamiche in atto in una eventuale crisi del sistema, si arguisce che ben pochi sono i mezzi giuridici a disposizione di uno Stato per garantirsi dall’aggressione di un altro Stato.

            La vecchia massima per cui l’unico mezzo a disposizione di uno Stato per imporre l’osservanza del diritto internazionale è costituito dall’autotutela, rimane purtroppo in auge.

 Quanto affermato si ricollega alla struttura della Comunità internazionale, in cui i singoli Stati sovrani riassumono tutti i poteri, né si è costituita una istituzione sovranazionale fornita di poteri e mezzi necessari per imporre l’esecuzione delle norme internazionali, anche le Nazioni Unite nella situazione politica attuale non hanno potuto modificare tale stato di cose.

            Poste queste brevi premesse si deve sottolineare che l’uso della forza non potrà mai essere indiscriminato, ma sempre proporzionato alle violenze altrui, superare questo limite fa sì che venga meno qualsiasi regola di diritto internazionale e prevalga la pura violenza bellica, intesa come fase tutta dominata dai rapporti di sola forza, deve comunque farsi una sottile distinzione tra legittima difesa e rappresaglia, in quanto diversa può essere la portata dell’azione bellica.

            Ne primo caso si tende a prevenire il danno maggiore, cosicché l’azione dell’aggredito interviene quando l’illecito è ancora in itinere, non del tutto consumato, nel secondo caso si ha uno scopo punitivo e quindi maggiore sarà l’incidenza del principio della proporzionalità.

            La moderna teoria dell’autotutela nei rapporti tra Stati ha cercato di sviluppare forme non violente, o meglio non belliche, partendo dalla tesi della dottrina positivistica tedesca formulata dallo Jellinek, la quale considerava il diritto internazionale come frutto di autolimitazione del singolo Stato, si è cercato di sviluppare l’uso della forza sul piano interno dello Stato anziché sul piano internazionale.

            Nell’ambito della propria comunità possono venire adottate quelle misure legislative o amministrative che, risolvendosi nella violazione di norme internazionali, si giustificano come prevenzione o reazione contro gli illeciti altrui.

            Rientra in questo ambito il principio della reciprocità, per cui se uno Stato straniero prevede norme contrarie al diritto internazionale o peggio assume condotte illegittime, la sua condotta costituisce presupposto per analoghe misure di ritorsione, logicamente questo principio avrà una maggiore restrizione nel caso di vincolo di solidarietà e di collaborazione tra Stati membri di un’organizzazione.

Il ricorso alla autotutela ed alla reazione con la propria inadempienza a quella altrui, costituisce extrema ratio, perseguibile solo dopo che tutte le altre strade offerte dall’organizzazione per ottenere giustizia sono state esperite.

            Siamo così giunti al concetto dell’arbitrato, il quale riposa sulla volontà e quindi sull’accordo di tutti gli Stati parti di una controversia, infatti in caso di disaccordo non è possibile costringere uno Stato a sottoporsi a giudizio, l’istituto si è notevolmente evoluto a partire dalla metà del secolo scorso, mantenendo il carattere volontaristico per le parti coinvolte, ma creando al contempo meccanismi atti a favorire la formazione dell’accordo e istituzionalizzando la funzione arbitrale.

            L’avvio all’istituzionalizzazione si ha con la Corte Permanente di Arbitrato, creata dalle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre, peraltro l’istituzionalizzazione è minima trattandosi di un elenco di giudici, periodicamente aggiornato, tra i quali gli Stati possono scegliere i singoli membri per la formazione del collegio arbitrale, anche le regole di procedura non sono molte e possono cedere di fronte a quelle eventualmente stabilite dalle Parti.

            Con il sorgere delle Nazioni Unite nel 1945, si è affiancata alla Corte dell’Aja un nuovo istituto detto Corte Internazionale di Giustizia, avente sempre sede all’Aja, che ha sostituito la Corte Permanente di Giustizia Internazionale della Società delle Nazioni, essa funziona sulla base di uno Statuto annesso alla Carta dell’ ONU, ricalcante lo statuto della vecchia Corte Internazionale.

            Trattasi di un corpo permanente di giudici, eletti dall’Assemblea generale su proposta del Consiglio di Sicurezza, che giudica in base a precise e complesse regole di procedura inderogabili dalle parti, si tratta pur sempre di un tribunale arbitrale che opera sul presupposto di un accordo tra tutti gli Stati in controversia.

            La ricomposizione di controversie mediante arbitrati o reazioni non violente non ha dato sempre buoni risultati se le trattative non vengono accompagnate da dimostrazioni di forza o dalla presenza di corpi armati, inoltre la palese insufficienza dimostrata dagli  organismi internazionali, con particolare riferimento alle Nazioni Unite in determinate circostanze nelle quali alta era la posta in gioco, ha spinto le superpotenze e gli altri Stati centrali del sistema a dotarsi di forze di intervento rapido, queste non sono altro che il risultato della nuova “conflittualità diffusa” che si innesta nei nuovi rapporti Nord/Sud.

            Le forze di intervento rapido non si differenziano sostanzialmente dalle forze multinazionali, in quanto queste possono essere formate mettendo insieme sotto un unico comando reparti tratti dalle prime, al contrario i contingenti dell’O.N.U. si differenziano notevolmente essendo prevalentemente forniti da unità di supporto degli Eserciti di campagna.

            Il giudizio su tali forze di rapido intervento non può che essere positivo per il fine ultimo del mantenimento della pace, almeno fino a quando i meccanismi istituzionali delle Nazioni Unite non saranno in grado di sostituirle e sempre che il loro utilizzo non debordi dagli stretti fini iniziali.

            Si può concludere con le parole di Maddalena sul principio di moderazione e il conseguente ordine che l’Atene imperiale di Pericle conteneva, in contrapposizione al “delirio di onnipotenza” manifestato dai suoi successori fino alla tragica spedizione di Alcibiade, in equilibrio tra la giustizia assoluta e l’ingiustizia assoluta (entrambe impossibili)”.

            L’impero, nato dalla forza e per la forza, è ingiusto di per sé, tuttavia seppure ingiusto, se è retto con moderazione, attenua l’inevitabile ingiustizia ponendo ordine (ordine relativo ) là dov’è disordine.

 L’impero retto con moderazione è insomma, in questo mondo dove regna la forza, creatore della massima utilità possibile concessa all’uomo ( Maddalena).

 

            Estratto dalla relazione dell’autore alla XLII Sessione del Centro Alti Studi della Difesa - ROMA   

martedì 20 febbraio 2024

To apeiron, ovvero l’essere “indefinito” Riflessi sull’identità nazionale

 

ESSERE  NAZIONE

 

 

Te. Cpl. Art. Pe. Sergio  Benedetto  Sabetta

 

“ Il termine ellenico to apeiron non significa solo infinitamente lungo/grande, ma anche indefinibile, complesso al di là di ogni ragionevolezza, ciò-che-non-può-essere-gestito” ( David Foster Wallace – 39- Tutto di più, Codice ed.)

 

 

         Osserva Cardini che nella cultura vi è un trend con una “concentrazione qualitativa ma forte diminuzione qualitativa di chi detiene una preparazione medio – alta, proletarizzazione culturale in fortissimo aumento, crescita dell’analfabetismo di ritorno e della demobilitazione intellettuale” (109), che si accompagna ad una “generale tendenza alla sparizione dei ceti medi e alla proletarizzazione delle “moltitudini”.

         In questa mancanza di un’idea di Occidente vi è il disperdersi senza indirizzo, privi di una “cultura del limite” che ne costituisca il contenitore, se, come sottolinea Edward O. Wilson, “all’interno dei gruppi gli individui egoisti vincono sugli altruisti”, ma gruppi quelli che contengono altruisti vincono su quelli formati da egoisti” ( 79).

         Vi è pertanto la necessità di un equilibrio fondato su un’idea riconosciuta di Occidente con i suoi valori identitari.

         Bauman parla di una “decostruzione della morte” e di una parallela “decostruzione dell’immortalità”, in cui ad uno spostare l’attenzione sulle cause della morte, che diventano comunque evitabili e razionalmente aggredibili, si contrappone un annullamento dell’idea di eternità, in un presente fatto di momenti, dove non vi è più distinzione fra transitorio e duraturo, dove la storia e l’eterno, il prima e il dopo vengono a volatilizzarsi.

         Viene annullata la distinzione tra il presente dell’uomo e l’infinito di Dio, nella confusione che si crea cessa il concetto di futuro, il ponte tra presente e infinito luogo d’incontro tra la finitezza umana e la sua coscienza della divinità, nel volere ridurre tutto al presente, al futuro prossimo, si vuole negare la probabilità di un infinito immanente e causale sui destini umani, trasformandosi l’insieme in un “indefinito” privo di freccia temporale.

         La scissione che è avvenuta tra mente e corpo a partire da Descartes ha favorito le “decostruzioni” indicate da Bauman, la distinzione fra proprietà attribuite ai soli eventi mentali e quelle proprie degli eventi fisici ha fatto sì che il corpo, privo e staccato dalle manifestazioni di intenzionalità mentali, è stato visto come una macchina da riparare i cui guasti sono razionalmente aggredibili, fino a giungere ad un “naturalismo eliminazionalista” che superando la stessa “teoria dell’identità” ha negato l’esistenza dei fenomeni mentali autonomi dai concetti fisici ( Feigl – Place – Feyerabend), invertendo l’antico prevalere della mente sul corpo.

         Il rapporto tra mente e corpo è stato, altresì, visto in termini esterni al sistema, nei quali impulsi provenienti da differenti ambienti danno luogo a interpretazioni differenti del sistema stesso, il tutto, quindi, manovrabile completamente dal e mediante il contesto ambientale ( Putnam).

         L’intrinseca capacità della natura di elaborare informazioni comporta una complessità del sistema con una conseguente ridotta capacità di prevedibilità delle future informazioni, lo stesso vuoto tra un’informazione e l’altra  modifica e interpreta l’informazione trasmessa, ma nell’uomo vi è l’ulteriore complessità determinata dalla moltitudine di linguaggi come mezzi di trasmissione dell’informazione.

         Osserva  Lloyd che è più semplice quantificare l’informazione, come energia o denaro, che qualificarla e definirla correttamente, d’altronde l’ambiguità del linguaggio umano da elemento di disturbo del sistema diventa di per sé stesso un ulteriore mezzo espressivo, che arricchisce le possibilità di trasmissione a fronte della non conoscenza dei modi di elaborazione delle informazioni da parte della mente umana.

         Molta informazione  è invisibile senza la necessità di alcun intervento umano, se a questo aggiungiamo la logica e una certa autoreferenzialità si ottiene l’imprevedibilità delle azioni umane.

Il sogno della certezza, della prevedibilità solo presente e quindi del tutto controllabile delle nostre vite ci fornisce la certezza economica per una totalità dei consumi, in cui l’accumulo mediante risparmio per un arco di tempo incerto perde le caratteristiche della virtù invertendo i valori, d’altronde la stessa finanza ha provveduto a sbriciolare le certezze future.

         Il nostro finito costeggia senza posa l’infinito, l’unità uomo è inscatolata in infinite strutture sommariamente identiche che tuttavia variano la “risoluzione” dell’immagine su scale differenti in una proiezione indefinita del tempo, quello che può anche definirsi un “ideale a infinito interno” (Luminet - Lachiéze - Rey), in questa lotta perenne tra finito e intuizione dobbiamo occuparci non solo e tanto dell’esistenza quanto di quello che Russell definisce una “possibilità di esistenza”, frutto di una composizione infinita di trasformazioni infinitesimali.

         Il tempo risultato del continuo cambiamento della configurazione del sistema viene da noi percepito in funzione della nostra posizione nel sistema che ci comprende, la somma dei nostri diverso “Adesso” in cui la nostra esperienza è immersa crea le varie probabilità che possiamo percepire (Barbour), ma noi tendiamo a vivere nel qui ed ora quale risultato di una causalità orizzontale della totalità delle cose, così che per noi le cose non diventano ma sono.

         Viene, pertanto, negata la probabilità degli eventi per un immanentismo totale senza futuro, ma anche senza la possibilità del rischio della morte e dell’impotenza che diventa antieconomica e quindi da negare, ogni azione umana viene così imperniata nella negazione della possibilità del cessare, nell’ esistere di un continuo presente che rinasce quale idea ad ogni costruzione dell’uomo, da quella economica a quella giuridico – sociale e quindi politica.

         Vi è pertanto uno scollamento sul sentimento di identità nazionale, la Nazione quale società degli antenati legata ad un territorio tra passato e futuro, questa viene a sciogliersi in una globalità indefinita, nell’interstatualità di un internazionalismo obliquo e indeterminato, nella cui generale incertezza rientra anche il problema demografico, ridotto anch’esso in gran parte ad un puro aspetto economico individuale, non come investimento collettivo.

         In questo sciogliersi dell’identità dell’individuo nell’indefinito, utile ad un determinato modello economico, nasce inaspettatamente lo scontro, il conflitto con le diverse realtà culturali esistenti e il loro riaffermarsi anche in termini bellici.

 

Bibliografia

 

·        AA.VV., Popolazione e potere, Aspenia, 2023;

·        Z. Bauman, Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Il Mulino, 1995;

·        J. Barbour, La fine del tempo, Einaudi, 2003;

·        F. Cardini, La deriva dell’Occidente, Laterza, 2023;

·        L. Geymonat, storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti,1996;

·        S. Lloyd, Il programma dell’universo, Einaudi, 2006;

·        J.P. Luminet, M. Lachiéze-Rey, Finito o infinito?, Cortina ed., 2006;

·        Edward O. Wilson, Le origini profonde delle società umane, Raffaello Cortina Ed., 2020.

        

lunedì 12 febbraio 2024

Daniele di Placiodo. Premessa alla tesi di laurea Master di 1° Livello in Terrorismo ed Anti terrorismo Internazionale

 

IL CONTRIBUTO DELL’ESERCITO ITALIANO ALLE MISSIONI NATO DAGLI ANNI 2000

Premessa

 

Negli anni che seguirono la fine del secondo conflitto mondiale, l’Italia contribuì alla fondazione di numerose Organizzazioni Internazionali il cui scopo era quello di aumentare la cooperazione tra i Paesi aderenti in diversi ambiti. Nel marzo del 1949, il Consiglio dei Ministri della neonata Repubblica Italiana si pronunciò in senso unanime per “l’accessione in via di massima al Patto atlantico[1]”, esprimendo la volontà di aderire come Paese fondatore alla North Atlantic Treaty Organization (NATO), compiendo quella che fu definita “una lungimirante scelta di politica estera per garantire la pace nella sicurezza” [2].

Altro passaggio fondamentale per l’evoluzione dello strumento militare italiano fu l’adesione all’Organizzazione delle Nazioni Unite, avvenuta nel dicembre del 1955: circa trent’anni più tardi, infatti, le prime operazioni di peacekeeping in cui le Forze Armate italiane furono impiegate fuori dai confini nazionali, furono condotte sotto l’egida dell’ONU in Libano (missione UNIFIL, 1982-84), Somalia (missioni UNITAF e UNOSOM, 1992-94 e l’Operazione UNITED SHIELD del 1995) e Mozambico (missione ONUMOZ, 1993-94); furono queste le prime occasioni in cui le Forze Armate italiane furono chiamate ad esprimere le proprie capacità di schierare e supportare logisticamente grandi contingenti formati da un elevato numero di uomini, mezzi e materiali stanziati a migliaia di chilometri dall’Italia.

Anche le operazioni NATO condotte nei Balcani nella seconda metà degli anni ‘90 costituirono degli importanti banchi di prova per le Forze Armate italiane: in Bosnia, con la partecipazione alla United Nation Protection Force - UNPROROF (1993), alla Implementation Force - IFOR (1995) e alla sua successiva riconfigurazione in Stabilization Force SFOR (dal 1996), e in Kosovo, con la partecipazione alla Kosovo Force – KFOR (iniziata nel 1999 e tutt’ora in corso), Esercito, Marina, Aeronautica e l’Arma dei Carabinieri contribuirono con diverse migliaia di militari alla formazione dei contingenti internazionali di peacekeeping.

Fu probabilmente sotto l’influsso di questi numerosi impegni internazionali che venne concretizzata l’importante idea di sospendere il servizio obbligatorio di leva per alimentare le Forze Armate esclusivamente con personale professionista volontario: come dichiarò nell’ottobre del 2000 l’allora Ministro della Difesa, l’Onorevole Sergio Mattarella, attuale Presidente della Repubblica italiana, all’epoca si era consolidata la necessità di avere delle Forze Armate “adeguate alle esigenze contemporanee, che non sono di guerra, bensì di strategia di difesa della pace e dei diritti umani[3]”.

In linea con la riorganizzazione in atto in seno alla NATO in quel periodo storico, al fine di sviluppare l’identità di sicurezza e difesa europea e rafforzare l’efficacia militare dell’Alleanza, questa decisione permetterà all’Italia nel corso degli anni successivi di dotarsi di Forze Armate in grado di assolvere ai nuovi compiti internazionali, finalizzati a favorire la stabilità della sicurezza euro-atlantica attraverso il rafforzamento di istituzioni democratiche, senza tralasciare il classico compito di difesa e deterrenza.

Grazie a questi importanti cambiamenti, le Forze Armate italiane poterono partecipare da protagoniste nelle sfide alla stabilità internazionale che si presentarono dopo l’attacco terroristico avvenuto negli Stati Uniti l’11 settembre del 2001: fu di enorme peso il contributo italiano nelle missioni in ambito NATO che si svilupparono in risposta ai sopra citati attentanti; in particolare l’Esercito Italiano fu tra i principali contributori in termini numerici per quanto riguarda personale, mezzi e materiali impiegati nelle complesse missioni svolte in scenari operativi ad alta intensità in Iraq e Afghanistan.

L’enorme sforzo profuso nel corso dei lunghi anni di operazioni hanno permesso all’Esercito Italiano di accumulare una profonda esperienza nella pianificazione e gestione di operazioni condotte in collaborazione con le forze armate dei Paesi della NATO a grandi distanze dal territorio nazionale.

Terminate le operazioni di contrasto al terrorismo, questa esperienza, riconosciuta a livello internazionale e maturata anche grazie al sacrificio dei soldati caduti, a seguito delle attività della Federazione Russa iniziate con l’occupazione della penisola della Crimea, è stata nuovamente messa a disposizione della NATO per la sorveglianza e la difesa del confine orientale dell’Alleanza, attraverso la partecipazione alle operazioni di presenza e deterrenza denominate “Enhanced Forward Presence (EFP)” ed “Enhanced Vigilance Activity (EVA)”.

 Tesi di laurea. 

La Tesi è presso Emeroteca del Cesvam consultabile solo con il consenso scritto dell'Autore,



[1] L. ROMANINI, Breve storia dell’ostruzionismo nel Parlamento Italiano, Carocci Editore, Roma, 2017, p. 145

[2] www.avvenire.it

[3] www.repubblica.it