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martedì 20 settembre 2016

La Foot Secutrity: un tema di attualità

Sviluppo
Una food diplomacy europea?
Daniele Fattibene
19/09/2016
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Negli ultimi anni il concetto di sicurezza ha smesso di essere legato solo ed esclusivamente alla sfera militare e ha assunto una connotazione sempre più “umana”. Tra i tanti aspetti inclusi nella sicurezza umana vi è senza dubbio quella alimentare, “food security”.

A venti anni dalla prima definizione fornita dalla Food and Agriculture Organization, Fao, la food security è diventata un tema sempre più importante non solo a livello accademico, ma anche politico,come emerge da uno studio condotto dallo IAI sulla politica di food security dell’Unione europea, Ue.

La food security si è a sua volta evoluta, non limitandosi più a descrivere l’accesso e la disponibilità di cibo, ma legandosi a numerose altre dinamiche. Sono quindi emersi i cosiddetti nessi tra food security e approvvigionamento energetico, cambiamento climatico, i conflitti inter e intra-statali e perfino i flussi migratori.

Non solo cibo
Le cosiddette “primavere arabe” hanno mostrato con grande evidenza il ruolo giocato dalla food security nel condizionare la stabilità politica dei regimi. L’aumento improvviso del prezzo delle derrate alimentari nel 2011, accompagnato da un’eliminazione dei sussidi governativi ha causato le cosiddette “rivolte del pane”, che hanno fatto da canale affinché altre forme di malcontento sociale (disoccupazione, povertà e marginalizzazione politica) si potessero esprimere.

Non è un caso che l’insicurezza alimentare sia maggiore in quei Paesi con forte instabilità politica o che sono dilaniati da guerre civili, con una proporzione di persone sotto-nutrite quasi tripla rispetto ad altri Paesi in via di sviluppo.

Ciò è emerso con grande drammaticità in Siria, dove l’insicurezza alimentare, unita ad altre debolezze strutturali di un sistema socio-economico deteriorato da scellerate riforme di stampo neo-liberista, ha generato forti proteste contro il regime del presidente Basahr al-Assad.

La food security si è poi legata sempre di più ai fenomeni migratori, rientrando in quella lunga lista di fattori che spingono drammaticamente milioni di individui ad abbandonare le proprie terre. Sebbene non esista una correlazione diretta tra le due variabili non stupisce che i Paesi con forte immigrazione presentino dei livelli di food security particolarmente bassi.

Le due anime della politica europea di food security
La politica europea di food security nel corso degli ultimi anni si è costruita su tre livelli: quello della Commissione, soprattutto attraverso le attività dei Dg per lo sviluppo e la cooperazione, Devco, e del Dg per gli Aiuti umanitari e la protezione civile, Echo, il livello intergovernativo - in accordo con i Paesi membri - e infine il livello internazionale in coordinamento con altri attori (organizzazioni internazionali, banche, agenzie etc.).

Le due “anime” della politica di food security dell’Ue (sviluppo sostenibile e assistenza umanitaria) operano sulla base di logiche e prospettive differenti, ma si completano vicendevolmente.

Questo lavoro complementare ha generato importanti risultati, dal momento che negli anni l’Ue è diventata un punto di riferimento a livello mondiale in entrambi i settori. Basta ricordare che tra il 2014 e il 2020, sommando le voci del Dg Devco e Echo,si spenderanno circa 10 miliardi di euro per programmi di sviluppo o assistenza umanitaria con impatto sulla food security dei Paesi riceventi.

L’Ue ha quindi fatto grossi sforzi per realizzare una politica di food security il più possibile completa che comprendesse le diverse sfaccettature legate a questo fenomeno.

Un nuovo ruolo per il Seae?
Ciò che manca ancora è un quadro di riferimento strategico in cui il cibo sia legato chiaramente ad altre dinamiche di sicurezza come l’instabilità politica, i conflitti civili e i flussi migratori. Un quadro che metta coerentemente insieme tutti i programmi di sviluppo sostenibile e di assistenza umanitaria che hanno ricadute sulla food security dei Paesi coinvolti.

Il Servizio europeo di azione esterna, Seae, è l’organo maggiormente indicato per rispondere a questa sfida. Esso sta già giocando un grande ruolo attraverso le delegazioni Ue sul terreno per garantire la coerenza di tutte le azioni dell’Ue e prevenire sovrapposizioni e sprechi di risorse.

Una “food diplomacy” sotto la sua egida consentirebbe non solo di evitare una cattiva gestione delle risorse, ma anche di mettere gli obiettivi dell’Unione in linea con gli importanti impegni presi a livello mondiale in tema di energia, cambiamento climatico e sviluppo sostenibile (Agenda 2030 delle Nazioni Unite).

In quest’ottica, la “food diplomacy” dell’Ue dovrebbe far tesoro del lavoro svolto durante Expo 2015, senza dimenticare le implicazioni per la food security contenute negli accordi commerciali multi e bilaterali.

Essa permetterebbe poi di includere la food security nelle strategie di prevenzioni dei conflitti, investendo ancora di più nella “resilienza” di quei Paesi che rischiano di cadere in un circolo vizioso di povertà e conflitti civili.

Essa farebbe dell’Ue il leader di uno sforzo globale volto a produrre un reale ripensamento dei modelli di produzione agricola di modo da renderli in grado di produrre cibo nutriente in modo ecologicamente sostenibile.

Daniele Fattibene lavora nel programma Sicurezza e Difesa dello IAI (@danifatti).
 
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Vedi anche
Le ricadute geopolitiche della crisi alimentare, Giovanni Canitano, Eugenia Ferragina
Sicurezza alimentare e urbanizzazione: le sfide, Lorenzo Kihlgren Grandi, Cecilia Emma Sottilotta
La Carta di Milano e il diritto al cibo,Marco Gestri

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sabato 17 settembre 2016

Europa: da Bratislava attese concrete

Ue e brexit
Le tre giornate dell’Unione europea
Giampiero Gramaglia
14/09/2016
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Le tre giornate dell’Unione europea (Ue): in 72 ore, tra oggi e il vertice di Bratislava venerdì, l’Ue cerca di scrollarsi di dosso quella patina d’impotenza e di rassegnazione al declino che le si è posata su dopo il sì alla Brexit.

Per farlo con successo, ci vorrebbe, forse, il piglio risorgimentale suggerito dal nostro titolo, mentre il discorso sullo stato dell’Unione, che Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, pronuncia a Strasburgo, nell’aula gremita del Parlamento europeo, è pieno di buone intenzioni corrette e condivisibili, ma privo di slancio e di energia e raccoglie solo applausi tiepidi. Non quelli di Nigel Farage, il leader secessionista britannico, che segue in cuffia con aria distratta - ma che ci fa ancora al suo seggio?.

Ne prende di più, di applausi, il capogruppo socialista Gianni Pittella, che promuove nei contenuti Juncker, lo ringrazia per non avere pronunciato la parola ‘austerità e ci mette enfasi mediterranea nel proclamare che “il pericolo è la paura”: quella paura che rende i leader dei Paesi dell’Ue “sonnambuli nel cuore della notte dell’Europa”; e che induce il premier britannico TheresaMay, quasi tre mesi dopo il referendum, a continuare “a tenere in scacco l’Europa”.

Londra, non presentando la richiesta di uscita dall’Ue, non consente l’avvio del negoziato sulla ‘secessione’ e, quindi, prolunga indefinitamente lo stato di incertezza e di confusione.

Tanta carne al fuoco
Nel suo discorso, Juncker mette tanta carne al fuoco: l’applicazione del Patto di Stabilità senza ostacolare la crescita; il contrasto alla disoccupazione puntando sull’Europa sociale; l’attenzione ai giovani (e ai minori che, nel flusso dei migranti, si ritrovano soli nell’Unione); l’immigrazione (con il programma d’investimenti nei Paesi africani da cui partono più migranti); e ancora la solidarietà, la sicurezza dalle minacce del terrorismo, una strategia europea per la Siria, una difesa europea.

Proprio sulla difesa europea, che è la nuova frontiera dell’integrazione, Juncker insiste molto: situa gli sprechi causati dall’esistenza e dalla sovrapposizione di 27 difese nazionali auna cifra oscillante fra i 20 e i 100 miliardi di euro l’anno - il bilancio dell’Ue è di circa 140 miliardi di euro l’anno - prospetta un ‘quartier generale’ unico, insiste sulla piena complementarità del progetto con la Nato, afferma che “più difesa europea non vuole dire meno difesa atlantica”; e propone di perseguire l’obiettivo nell’ambito delle cooperazioni rafforzate, senza che cioè tutti i Paesi debbano aderirvi fin dall’inizio - un po’ quello che già avviene con l’euro o con Schengen.

Proteggersi dai populismi
Ma Juncker cerca anche di evitare conflitti con gli Stati membri - “l’Unione si fa con loro, non contro di loro” -, di non dare un’immagine invasiva dell’iniziativa comunitaria - “concentriamoci sui temi dove la dimensione comunitaria ha un valore aggiunto” - e di rafforzare il profilo politico della Commissione europea: d’ora in poi, i commissari potranno partecipare senza doversi dimettere alle competizioni elettorali nei rispettivi Paesi e, anzi, saranno incoraggiati a confrontarsi con le loro opinioni pubbliche. Il presidente lo motiva così: come non c’è incompatibilità tra l’essere ministro e l’essere deputato, non c’è motivo che ci sia con l’essere commissario.

Dei populismi - e qui Farage inarca un sopracciglio -, Juncker dice: "Non risolvono i problemi, ma li creano": "dobbiamo proteggerci" dalle sirene che promettono “soluzioni facili a questioni complesse". Ma le soluzioni vanno trovate, se no i populismi avranno sempre più spazio.

La chiusa è un monito più che uno sprone: “Non rendiamoci colpevoli di errori che metteranno fine al disegno europeo”. Parole che dovrebbero fare fischiare le orecchie ai leader dei 27 che, venerdì, si riuniranno a Bratislava per discutere del ‘dopo Brexit’ e di immigrazione, ma anche di crescita e occupazione. Dell’agenda di Juncker, che cosa resterà nelle loro discussioni?, e che cosa ne germoglierà?

Anche il Gattopardo nella lettera di Tusk
La lettera che il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha ieri mandato ai capi di Stato o di governo è particolarmente elaborata e si articola in sette punti: la Brexit, la paura, l’immigrazione, la lotta contro il terrorismo, l’economia e l’occupazione, la globalizzazione, le prospettive dell’integrazione.

L’ultimo paragrafo mette i brividi: il polacco Tusk cita Tomasi di Lampedusa ed il suo “Gattopardo”, evoca lo spettro del cambiare tutto per non cambiare nulla: quello che aleggia in molte delle dichiarazioni enfaticamente forti, ma politicamente vuote, dei vertici scenografici dell’estate trascorsa. Ci vuole, invece, il coraggio e la determinazione di cambiare almeno qualcosa perché si cominci davvero a cambiare.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.

mercoledì 14 settembre 2016

COP21: prospettive positive

Energia e ambiente
COP 21, una ricetta per darle seguito
Alice Giallombardo
05/09/2016
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Dare seguito alla travagliata, ma concludente, COP 21. È questo l’obiettivo dei Paesi e delle principali organizzazioni internazionali che, in previsione del G20 di Hangzhou ormai alle porte, si sono incontrati, a fine giugno, a Pechino per discutere il ruolo chiave dello sviluppo energetico sostenibile nella lotta al cambiamento climatico.

Il potenziale e le grandi speranze lasciati dalla COP 21 sembrano non essere andati perduti. Sviluppandosi all'interno del più ampioframework dei Sustainable Development Goals, i ministri dell'Energia riunitisi a Pechino hanno portato avanti gli impegni presi l'anno scorso al G20 di Antalya e i precetti fondamentali dell'Accordo di Parigi.

In particolare, gli attori coinvolti hanno riaffermato la necessità di garantire l'accesso all'energia a livello globale - intesa come fornitura e capacità di acquistare energia quotidianamente - fondamentale per migliorare la qualità della vita e le possibilità di crescita economica, soprattutto nei Paesi meno sviluppati.

È stato adottato, infatti, un documento che ne risalta l'importanza, espandendo il focus dall'Africa sub-sahariana del G20 di Antalya anche alla regione pacifico-asiatica.

Efficienza energetica cercasi
Durante il summit di Pechino, rilevanza particolare ha assunto il tema dell'efficienza energetica ma, soprattutto, della cooperazione internazionale essenziale affinché essa possa essere raggiunta.

L'adozione del G20 Energy Efficiency Leading Programme, infatti, dimostra che esiste la volontà di raggiungere un livello sempre più elevato di sostenibilità attraverso lo sviluppo di programmi di efficienza energetica e di cooperazione mutualmente proficua per i Paesi coinvolti.

Per essere efficaci, è necessario che tali programmi vengano elaborati utilizzando diversi strumenti di policy, che siano caratterizzati da una visione di lungo termine e dalla capacità di adattarsi agli sviluppi politici e all'innovazione tecnologica, e che ricevano un adeguato sostegno in termini di risorse umane, istituzionali ed economiche per garantire gli investimenti in questo settore.

Inoltre, facendo eco alla COP 21 di Parigi, un'attenzione particolare è stata riservata anche alle fonti rinnovabili. Pur non tralasciando l'implementazione del G20 Toolkit of Voluntary Options for Renewable Energy Deployment, redatto durante il G20 ad Istanbul nel 2015, in Cina si presenta il Voluntary Action Plan on Renewable Energyche si propone di guidare i membri del G20 nello sviluppo di programmi che favoriscano l'utilizzo e la diffusione dell'energia rinnovabile, tenendo altresì conto delle diverse realtà nazionali.

Di fatti, dal momento che la maggior parte delle emissioni di CO2 è attribuibile al settore energetico, si è ritenuto opportuno assumere il ruolo di leader nella ricerca, nello sviluppo e nella diffusione delle rinnovabili a livello globale: uno sviluppo costante delle rinnovabili, infatti, è funzionale non solo a diminuire il livello di CO2 nell'aria, ma anche a garantire un livello adeguato di sicurezza energetica, tema che gioca un ruolo fondamentale nelle principali dispute geopolitiche internazionali.

Tra Trump e Brexit
Sebbene l'eredità della COP 21 sembri essere una realtà positiva e in divenire, l'inizio di quest'estate è stato segnato da alcuni eventi che potrebbero mettere a rischio il mantenimento degli impegni presi a Parigi e la loro riaffermazione.

Da una parte, le dichiarazioni a sfavore dell'Accordo di Parigi del candidato repubblicano alla Casa Bianca, Donald Trump, rappresentano una seria minaccia alla futura ratifica del trattato da parte di una delle nazioni con più alto tasso di emissioni di CO2; dall'altra, l'incisività dell'Accordo di Parigi rischia di essere fortemente indebolita dal risultato del referendum britannico che potrebbe rallentare l'implementazione di una politica energetica sostenibile da parte dell'Unione europea.

Il sostegno politico non basta a garantire un futuro sostenibile
Sebbene la comunità internazionale dimostri di aver preso coscienza del fatto che temi quali l'efficienza e la sicurezza energetica e lo sviluppo delle rinnovabili debbano ricevere l'attenzione che meritano, l'adozione di strumenti di soft law in importantifora multilaterali sembra non essere sufficiente a garantire il benessere del nostro pianeta.

Di fatti, il Global Footprint Network ha individuato nell’ 8 agosto l'Earth Overshooting Day. Per quest’anno avremmo, dunque, già oltrepassato la data che segna il giorno in cui si esaurisce la quantità di risorse tali da garantire un’ipotetica esistenza sostenibile per il nostro pianeta.

Questo è un chiaro segnale che la retorica politica non basta nella lotta al cambiamento climatico: servono azioni, ma soprattutto iniziative di cooperazione a diversi livelli che favoriscano un uso maggiormente oculato delle risorse che il nostro pianeta ci offre. Esempio virtuoso ne è la Dichiarazione politica sulla cooperazione energetica dei Paesi del Mare del Nord firmata lo scorso giugno al fine di sviluppare impianti eolici offshore nella regione.

Alice Giallombardo è laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Bologna. Attualmente, si occupa di monitorare le normative europee in campo energetico presso Enel Green Power.