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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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giovedì 28 novembre 2019

Materiali per Analisi Parametrale 4


MOVIMENTI INTERNI DI STRATI DELLA POPOLAZIONE

Valentina Trogu

L’Africa è il continente in cui si conta il maggior numero di Internally displaced persons. Si tratta di civili, in maggioranza donne e bambini, che a causa di persecuzioni e violenze sono stati costretti ad abbandonare le loro case per andare in cerca di una nuova sicurezza. Si stima che l’Africa  ospiti approssimativamente 11,6 milioni di IDPs, quasi la metà (il 46%) del numero totale di IDPs presenti nel mondo, quantificato intorno ai 26 milioni. Il Sudan è il Paese nel quale vi è la più grande popolazione di IDPs (circa 5 milioni) e solo nel 2016 sono stati registrati 922 mila i nuovi sfollati a causa dei conflitti interni presenti nell’Africa centrale. Una risoluzione alla problematica in questione è stata tentata nel 2009 con la Convenzione di Kampara volta a favorire la protezione e l’assistenza degli sfollati interni in Africa. Il quadro normativo si basa sul presupposto che gli Stati hanno la responsabilità primaria di rispettare e proteggere i diritti degli IDPs, senza alcun tipo di discriminazione. Il testo della Convenzione impone, dunque, una serie di obblighi per gli Stati che vi hanno aderito tra cui proibire o impedire lo sfollamento arbitrario, garantire il rispetto dei diritti umani, assicurare la responsabilità penale individuale e di attori non statali coinvolti in attività che causano o contribuiscono allo sfollamento e mantenere il carattere civile ed umanitario della protezione e dell’assistenza agli IDPs. Sapendo che i portatori primari di obblighi spesso coincidono con gli stessi soggetti che direttamente o indirettamente provocano lo sfollamento, gli Stati Parte hanno assegnato un ruolo particolare all’Unione Africana. Nello specifico, l’articolo 8 stabilisce che l’Unione Africana deve essere considerata come un meccanismo di coordinamento che, in circostanze eccezionali (poniamo ad esempio uno Stato che non è in grado o non vuole far fronte ad uno sfollamento all’interno del suo territorio) funga da supporto o sostituto dell’azione statale. La Convenzione è entrata ufficialmente in vigore nel 2012, dopo che 15 paesi l’hanno ratificata per arrivare nel 2014 a 20 paesi. La particolarità del trattato è che protegge non solo le persone che fuggono dalla propria casa a causa di violenze, persecuzioni, guerre, violazioni di diritti umani e politici, ma anche civili, donne e bambini che sono costretti a lasciare le zone di origine a causa di calamità naturali, disastri ambientali o eventi climatici estremi come la siccità o le inondazioni. Si stima che nel 2012 sono stati 7,7 milioni gli sfollati interni per cause ambientali nei paesi che hanno firmato la Convenzione di Kampara. Tra i paesi più colpiti troviamo l’Etiopia, soprattutto il sud-est del paese, al confine con la Somalia. Una gravissima siccità ha portato più di 600 mila persone verso la regione “Somali” dove si trova una popolazione etnicamente somala ma di nazionalità etiope distribuita in 264 villaggi.
Uno dei paesi da cui parte il numero maggiore di sfollati è la Repubblica Democratica del Congo. Il contesto è chiarificatore del motivo alla base della fuga. Parliamo di uno dei paesi più poveri al mondo (al 178° posto su 188 nel 2017), in cui 1 bambino su 10 muore prima di compiere i 5 anni, dove il reddito pro capite è di circa 485 dollari all’anno; un paese in cui la corruzione dilaga così come i conflitti presenti soprattutto nell’est del paese e in cui la stabilità politica è un lontano miraggio. Questa tragica situazione si contrappone alla ricchezza della Repubblica Democratica del Congo ma nello stesso tempo ne è conseguenza. Lo sfruttamento delle risorse minerarie e naturali – oro, diamanti, cobalto, rame, tungsteno, stagno – ha una rilevanza geo-politica talmente alta da far sì che gli interessi delle elité e di alcuni attori internazionali siano di mantenere il paese instabile e povero per non far alzare i costi. A causa di interessi economici, la popolazione vive in un contesto di povertà e violenza e decide di allontanarsi diventando sfollati interni pur provenendo da uno dei paesi con le maggiori risorse naturali del continente.
I movimenti interni di strati della popolazione sono un fattore di rischio rilevante per uno Stato e ne valutano la capacità di coesione sociale.


venerdì 22 novembre 2019

Materiali per Analisi Parametrale 3


FAZIONI ETNICHE E RELIGIOSE

Valentina Trogu

La presenza di numerose fazioni etniche e religiose porta inevitabilmente a sottolineare una corrispondenza tra conflitti e instabilità politica. Alla base ci sono fattori di discriminazione e di intolleranza. Dove il sistema è intollerante verso una società multi-etnica e multi-religiosa si verificano condizioni di instabilità sociale. Gli indicatori sintomatici di questi aspetti sono due:
·         la connotazione etnica/religiosa di una élite in una società eterogenea
·         l’esistenza di polizie pubbliche che agiscono in maniera discriminatoria verso alcuni gruppi.
Ove sussistono questi indicatori troviamo le situazioni di rischio più elevate per le cosiddette minoranze presenti in un gruppo della popolazione che, a causa della non uniformità etnica, linguistica, religiosa e culturale, vengono sottoposte a trattamenti diseguali e differenziati da parte della maggioranza che si reputa universale ed impone le sue norme. Dal punto di vista sociologico, una minoranza può essere numericamente superiore ad una maggioranza risultando ugualmente discriminata e si riscontra la presenza di tali minoranze, tratteggiate da fattori economici, politici, storici, in tutti i paesi del mondo. Nella socio-economia, poi, il termine minoranza fa riferimento alla subordinazione sociale di un gruppo etnico distinto dagli altri per la lingua, la razza, la nazionalità o la religione. Ne sono un esempio i popoli indigeni, non solo in Africa ma anche nell’America Latina e in Oceania. Sono stati assoggettati, rinchiusi in riserve, impiegati come mano d’opera a basso costo e privati della loro terra e dei beni, come ad esempio i Pigmei nel cuore dell’Africa. Chi mette in atto le discriminazioni, spesso, è il governo oppure altri settori della società. Nel 2003, una ricerca condotta dall’University of Maryland’s Center for International Development & Conflict Management (CIDCM) ha individuato 31 Stati africani con minoranze etniche/religiose a rischio di azioni discriminatorie di cui nove Stati (Angola, Burundi, Camerun, R.D. del Congo, Nigeria, Senegal, Sudan, Uganda e Zimbabwe) presentano la situazione di rischio più elevato.
In Angola, per esempio, ci sono circa 90 gruppi etnici. Il principale è costituto dagli Ovimbundu, che rappresentano poco meno del 40% della popolazione e hanno costituito la base etnica dell’Unita durante la guerra civile. Seguono i Mbundu (25% circa della popolazione) e i Bakongo (14%). Meno numerosi ma rilevanti dal punto di vista dell’influenza economica e politica sono i mestiços, gruppi di popolazione mista di origine africana, europea e asiatica, che si concentrano soprattutto nelle città e costituiscono il 3-5% circa della popolazione totale. Per quanto riguarda la religione, la maggioranza degli abitanti del paese è cristiana (53%), mentre il resto della popolazione pratica culti tradizionali (46,8%). Una esigua minoranza di persone è di fede islamica.
In Nigeria ci sono più di 250 gruppi etnici che presentano una enorme varietà di tradizioni, lingue, culture e religioni. Le principali etnie nel Nord sono gli Hausa e i Fulb/Fulani, la maggioranza dei quali è di religione musulmana. Altri importanti gruppi etnici del nord della Nigeria sono Nupe, Tiv, e Kanuri. Nel sud-ovest predomina, invece, il popolo Yoruba che si divide quasi equamente fra fede islamica e cristiana mentre una minoranza professare l’antico culto animistico del loro
gruppo. L’etnia Igbo, invece, è di maggioranza cristiana e si trova nelle zone centrali del Sud-Est. Le confessioni più diffuse sono il protestantesimo ed il cattolicesimo ma sono presenti anche popolazioni di fede anglicana, pentecostale ed evangelica. Infine, Gli Efik, gli Ibibio, gli Annang
e gli Ijaw costituiscono altre popolazioni del Sud-Est della Nigeria.  Tra tutte le 250 fazioni etniche-religiose, gli Hausa-Fulani, gli Yoruba e gli Igbo  sono i tre gruppi etnici da considerare “leader” dato che hanno condizionato la storia nigeriana dalla sua indipendenza. Dagli anni Sessanta, infatti, all’interno del Paese si è radicalizzata una forte contrapposizione tra il Nord musulmano ed il Sud cristiano. Le due aree da sempre si contendono la spartizione delle risorse dello Stato federale e il potere di controllo politico e militare dei territori causando scontri di natura interna e spinte secessionistiche, come la sanguinosa guerra civile del Biafra, nel 1967, tentata dall’etnia Igbo per ottenere il pieno dominio sui territori del Sud. Nonostante il ritorno alla democrazia nel 1999 e la balcanizzazione della Nigeria in 36 Stati federati diversi come tentativo di fornire ad ogni gruppo etnico il proprio riconoscimento ed una maggiore rappresentanza politica ed economica sul territorio occupato, negli ultimi decenni sono state numerose le occasioni di conflitto fra i diversi gruppi etnici, tutte di natura politica ed economica. Nella regione del Delta del Niger, per esempio, i gruppi degli Ogoni e degli Ijaw hanno portato avanti degli aspri conflitti con il governo centrale e le multinazionali estere per il controllo del petrolio e dei suoi profitti economici. In Nigeria, dunque, così come nel Sudan, sono le differenze religiose unite a interessi economici alla base dei conflitti.
Nel Ruanda e nel Burundi, invece, i conflitti sono spesso provocati da gruppi etnici che si ribellano in nome di una identità etnica. I due gruppi etnici che costituiscono la quasi totalità della popolazione del Ruanda e del Burundi sono gli Hutu (circa l’85% della popolazione) e i Tutsi (circa il 14% della popolazione). Hutu e Tutsi vivevano insieme in società feudali dalla struttura simile ma con rilevanti differenze. In Ruanda si trova, dal XVI secolo, un regno dalla struttura molto centralizzata, basato su una rigida divisione di ruoli tra gli allevatori-guerrieri tutsi e i coltivatori hutu e con a capo un sovrano tutsi che esercitava un potere effettivo su una classe di capi della stessa etnia. C’era anche una terza etnia, i pigmei twa, ma era minoritaria e relegata in una posizione di marginalità. Lingua, religione, tradizioni erano le stesse per gli hutu come per i tutsi ma il nord del Ruanda, governato dagli hutu, per lungo tempo rimase restio a sottomettersi alla struttura feudale del resto del paese, e ha comunque sempre conservato un forte senso della propria diversità. Il Burundi differiva per la sua struttura feudale che si caratterizzava dall’esistenza di una classe nobile ritenuta «neutra», cioè né hutu né tutsi, detta ganwa, e dall’esistenza di un insieme di principati locali che mal accettavano l’intromissione del sovrano nelle loro vicende, orgogliosi di mantenere una propria autonomia. I regni del Ruanda e dell’Urundi sono caduti, dopo la Conferenza di Berlino, sotto la sfera di influenza tedesca, con conseguenti spedizioni e tentativi di penetrazione. I risultati furono molto diversi per i due regni. In Ruanda il sovrano scelse di collaborare ufficialmente con i colonizzatori, anche se si sviluppava una nascosta resistenza passiva mascherata da un’apparente sottomissione. In Burundi seguirono, invece, una lunga serie di scontri e violenze a cui gli occupanti tedeschi risposero con campagne militari estremamente dure. Passati in mano ai Belgi, le due etnie iniziarono ad essere studiate da un punto di vista etnico-razziale, sulla base delle concezioni scientifiche dell’epoca. Venne avvalorata l’idea per cui i tutsi fossero una popolazione con una distinta origine razziale dagli hutu e vennero descritti dai colonizzatori come i capi naturali, con un grande talento politico, abili nel nascondere il proprio pensiero, caratterizzati da un’educazione volta all’acquisizione di un grande autocontrollo dei sentimenti. Al contrario, gli hutu sono stati dipinti come una popolazione naturalmente destinata a restare subordinata, come agricoltori senza ambizioni, sinceri e spontanei in modo ingenuo, facili all’ilarità e alle esplosioni incontrollate. Questa forte distinzione di identità ha portato alla guerra civile e al genocidio del 1994 allontanando la risoluzione delle problematiche del paese.
Nello Zimbabwe il gruppo etnico più diffuso è quello degli Shona ma sono presenti molte altre culture che possono includere credenze e cerimonie diverse. Circa l’80% dei cittadini del paese si identifica come cristiani di cui il 63% sono protestanti (soprattutto seguaci delle Chiese africane) mentre i seguaci delle religioni etniche sono circa l’11%. L’1% sono musulmani, provenienti principalmente dal Mozambico e dal Malawi, lo 0,1% sono indù e lo 0,3% sono Baha’is. Circa il 7% dei cittadini non sono religiosi o sono atei. La struttura sociale è rigida e si basa su regole prestabilite e rapporti tradizionali consolidati. Per la protezione della propria cultura, lo Zimbabwe è rimasto un paese isolato dal punto di vista economico, sociale e politico.
Nell’ambito dell’analisi parametrale, dunque, la presenza di fazioni etnico-religiose mette a rischio la capacità di coesione sociale che sta alla base di uno stato stabile e solido.



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venerdì 15 novembre 2019

Materiale per Analsi Parametrale 2


Disoccupazione

VALENTINA TROGU

Un altro parametro identificabile come fattore di squilibrio in termini di sicurezza dello Stato è la disoccupazione. Cosa significa non avere un lavoro? Bassi livelli occupazionali hanno come conseguenza l’assenza di opportunità economiche e possono causare contraddizioni sociali creando condizioni favorevoli all’affermazione di potenziali ribelli in una società che non ha gli strumenti idonei per dissuadere dall’uso della violenza.
In Africa si contano più di 32 milioni di giovani senza un lavoro e la cifra è destinata ad aumentare se non si riuscirà a fronteggiare la crescita demografica con un aumento delle possibilità di impiego. In Costa d’Avorio il 23% della popolazione è senza occupazione, in Gabon il 18%, in Gambia il 29,8% e in Sud Africa il 27,3%. Inoltre, la maggior parte dei lavori sono al limite dello sfruttamento e le occupazioni dignitose sono una rarità. Dal punto di vista antropologico viene posto l’accento sul fatto che il valore dell’uomo è diventato sempre più basso. Se prima la piaga era lo sfruttamento, oggi è l’esclusione, fenomeno ancora più tragico. La questione della  disoccupazione, dunque, si allaccia ad una sottomissione della natura di essere umano che va ad intaccare l’identità delle persone africane. La conseguenza sulla società è un aumento della devianza e della criminalità. Può sembrare un’ovvietà associare un aumento della possibilità di comportamento deviante ad un disoccupato ma ricerche economiche empiriche e teoriche degli ultimi anni hanno sottolineato la presenza di specifici meccanismi attraverso i quali la disoccupazione può influenzare la criminalità. L’analisi economica parte dall’assunto per cui l’uomo, in maniera razionale, è impegnato in una valutazione continua dei costi e dei benefici che derivano dalle azioni che può mettere in pratica. Una prima valutazione relativa ad un azione criminale riguarda, quindi, la connessione tra i benefici che si potrebbero ottenere e i danni diretti o indiretti che da affrontare in caso di insuccesso. Secondo quest’ottica, in un paese in cui l’obiettivo di trovare un’occupazione è totalmente distante dalla realtà, c’è una mancanza di controlli adeguati e il fenomeno della violenza non è altamente condannato, è elevata la possibilità che la disoccupazione porti ad atteggiamenti criminali. Un esempio ci porta a prendere in considerazione uno dei paesi precedentemente citati tra quelli con il numero più elevato di disoccupati – il Sud Africa. L’emergenza criminalità è elevata. Il governo di Pretoria ha stimato una media di 57 omicidi al giorno nel 2018, cifra allarmante e inaccettabile. La sicurezza del paese è completamente inesistente e le persone del luogo sono talmente abituate ad assistere a rapimenti, uccisioni o rapine da considerarle la normalità.
Un paradosso da citare relativo al continente africano e al tasso di disoccupazione prende in considerazione l’istruzione. Alcuni paesi, primo tra tutti il Marocco, hanno iniziato negli ultimi anni ad investire maggiormente nell’istruzione (il Marocco spende il 26% del suo bilancio statale per l’istruzione). Soprattutto nel nord Africa si è assistito ad un aumento del numero di studenti e di università. Prendendo in esame sempre il Marocco si è passati dai 308.000 studenti nel 2009/2010 agli 822.000 nel 2017/2018, con un aumento del 167% in otto anni. Di contro, nonostante l’aumento del numero di università, degli studenti e dei soldi spesi per l’istruzione si assiste ad un aumento dei laureati disoccupati. Come detto all’inizio, nel continente africano è difficile trovare un lavoro dignitoso perché intervengono altri fattori che minano l’istruzione e l’occupazione in Africa. Parliamo della corruzione, della mancanza di riforme del sistema scolastico, delle agevolazioni destinate solo ad una élite di giovani studenti. Ulteriori rilevanti problematiche vengono create poi dal gruppo terrorista islamista, originario della Nigeria, Boko Haram, la cui traduzione letterale è ‘l’istruzione occidentale è proibita’. Un attacco del gruppo ha visto prendere d’assalto, nel febbraio 2018, una scuola femminile nel villaggio di Dapchi, a nord del Paese, per rapire degli studenti ma, negli ultimi dieci anni, le azioni violente di Boko Haram contro scuole e studenti sono state numerose ed hanno lasciato almeno 7 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria, 2,1 milioni di sfollati e 20.000 civili morti (come riferito in un report di Human Rights Watch). L’ideologia di Boko Haram si fonda sull’idea per cui sia necessario distruggere l’illuminante potere educativo in quanto espressione di peccato dal momento che comprende insegnamenti al di fuori di quelli del corano. Altra motivazione per cui il gruppo sta lottando per mantenere l’educazione di qualità lontana dalla popolazione è legata alla consapevolezza che attraverso l’educazione si può raggiungere la libertà soprattutto perché è in grado di fornire una posizione lavorativa effettiva e appagante che allontanerebbe i giovani africani dalla criminalità e dalla violenza.





venerdì 8 novembre 2019

Materiali per Analisi Parametrale


Rifugiati

Valentina Trogu

La misura della capacità di uno Stato deve essere messa in relazione con una sfida difficile da affrontare, quella dei fenomeni transnazionali di natura violenta come il traffico delle armi, la droga, le risorse preziose,  la criminalità organizzata, i gruppi terroristici, le Organizzazioni Non Governative e i rifugiati. Se lo Stato non è in grado di fronteggiare tali minacce si assisterà ad una diffusione di situazioni conflittuali in tutta l’area regionale interessata. I conflitti in questione assomigliano in tutto e per tutto a delle vere e proprie guerre civili che interessano realtà locali, provinciali, nazionali e regionali determinando un aumento del numero dei rifugiati.
La definizione base del termine “rifugiato” stilata dalla Convenzione Onu nel 1951 lo descrive come colui che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese.
È limitativo circoscrivere il termine rifugiato agli individui che temono di essere perseguitati se si prendono in considerazioni realtà come quelle del continente Africano (ma anche dell’America Latina) in cui è possibile assistere a spostamenti di massa di elevati numeri di persone che si allontanano da un paese caratterizzato da crisi sociali ed economiche in situazioni di conflitto. Ecco che, all’interno del termine rifugiato, è possibile leggere la definizione di sfollati interni - persone o gruppi di individui che sono stati costretti a lasciare le loro case o luoghi di residenza abituale, in particolare a causa di situazioni di violenza generalizzata, violazioni dei diritti umani o naturali, o per conflitti armati, che non hanno attraversato un confine internazionale riconosciuto – o di richiedenti asilo – persone che hanno presentato domanda di protezione internazionale, di cui non è stato ancora determinato l'esito ma che, in caso di esito positivo, verranno riconosciute come rifugiati acquisendo alcuni diritti e doveri, secondo la legislazione del Paese che lo accoglie. Ci sono, poi, i rifugiati “prima facie”, individui che fuggono in massa dal Paese a causa di conflitti e violazioni sistematiche dei diritti umani e per cui sarebbe inutile e impossibile esaminare singolarmente le domande di asilo. Alcuni esempi hanno come protagonisti i sudanesi che fuggono in Ciad, i Somali che vanno in Kenya e i ciadiani che a loro volta scappano nella Repubblica del Centro Africa.
Differente dalla definizione di rifugiato ma altrettanto attuale è l’utilizzo del termine migrante. I migranti sono coloro che privi di documenti oltrepassano le frontiere nazionali in cerca di aiuto per sfuggire ad una situazione di povertà estrema, conflitto generalizzato, crisi sociale ed economica. Nella maggior parte dei casi non hanno i requisiti per richiedere asilo, nonostante abbiano senza dubbio necessità di protezione internazionale, con la conseguenza di vedersi negato l’accesso ai servizi essenziali come l’istruzione, l’assistenza sociale, i servizi sanitari e il diritto al lavoro.
La differenza tra rifugiato e migrante, dunque, risiede principalmente sul piano legale ma notiamo spesso usare in modo intercambiabile i due termini dai mass media o nei dibattiti pubblici. Probabilmente perché in entrambi i casi si parla di persone costrette a lasciare il paese di origine per recarsi in un luogo sconosciuto in cui si pensa e spera si possa riuscire a vivere. L’individuo, però, viene a perdere ogni riferimento legato alle tradizioni, agli usi e ai costumi del proprio paese e si trova a vivere un processo di rifondazione e riappropriazione individuale del rapporto con la religione, con la società e con le altre persone. Gli immigrati non riescono a conservare in modo duraturo usi e costumi della società di origine e contemporaneamente si trovano a vivere in un contesto in cui sono visti come una minoranza e in cui mancano i precedenti riferimenti culturali. Da questa situazione di perdita dell’identità personale nasce la necessità di creare nuove identità che possono incarnarsi in una sottocultura dando l’impressione di conservare, almeno inizialmente, l’identità di origine ma che in realtà sono identità ricomposte, multiple, contestuali e di transizione. La riformulazione dell’identità avviene partendo da categorie prese dal paese di accoglienza che non sono né coincidenti con la cultura originaria né frutto di un processo di assimilazione. Occorre considerare, poi, che rifugiati, richiedenti asilo, migranti oltre alla creazione di una nuova identità devono affrontare i fantasmi che si portano dietro dal paese di origine. Violenze, guerre, carestia, sevizie, rapimenti, queste sono le motivazioni alla base della fuga, motivazioni che lasciano cicatrici interne ed esterne difficilmente sanabili se non vengono affrontate con il giusto supporto. Sintomi trascurati di un disagio psicologico sfoceranno, come dimostrano i fatti, in episodi di disadattamento e di aggressività.
Le conseguenze della migrazione potrebbero essere inserite in una lunga lista che parte proprio dai problemi legati alla perdita dell’identità di chi è costretto a lasciare il paese di origine ma che affronta, poi, le questioni sociali ed economiche che graveranno sul paese meta della migrazione o del rifugiato e che sono alla base delle decisioni di non accoglienza dei migranti. Un lungo dibattito si potrebbe affrontare sulla questione così come a lungo si potrebbe parlare di come porre fine al fenomeno intervenendo sulle cause che sono all’origine degli spostamenti. Le numerose conseguenze delle migrazioni e fuga dal paese di origine sono alla base della decisione di includere i rifugiati come parametro di valutazione della capacità di uno Stato inserendolo come fattore di squilibrio per la sicurezza dello Stato stesso.

sabato 2 novembre 2019

Missioni fuori area 3


Il Quadro Generale Storico-Giuridico-Politico.


1.    Aspetto Storico
2.    Aspetto Giuridico
3.    Aspetto Politico