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martedì 31 marzo 2015

Russia: ancora atteggiamenti da guerra fredda

Disarmo e Guerra Fredda
Russia, un altro passo indietro 
Giovanna De Maio
29/03/2015
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La Russia sbarra un’altra strada sulla via del dialogo. L’annuncio del ritiro dal Trattato sulle Forze Armate convenzionali in Europa (Cfe) lascia cadere un vecchio retaggio degli equilibri creati a ridosso della caduta del muro di Berlino.

Il dispositivo di questo trattato obbligava la Nato e la Russia a limitare e a notificare reciprocamente ogni modifica nelle dotazioni di armamenti convenzionali, oltre a prevedere un sistema di ispezioni.

La mossa di Mosca arriva contestualmente a due segnali tutt’altro che distensivi lanciati dall’Occidente. Il primo proviene dall’Alleanza atlantica, che continua le esercitazioni congiunte in Polonia e nei Paesi Baltici.

Il secondo arriva dall’Unione europea per il tramite del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che si è espresso così a proposito della creazione di un esercito europeo: “Occorre lanciare un messaggio per far capire alla Russia che siamo seri quando si tratta di difendere i valori europei”.

Cfe, una storia breve e tormentata
Sul piano pratico la sospensione della partecipazione russa alle riunioni del gruppo di consulenza sul Trattato sulle Forze Armate convenzionali in Europa non sembra segnare una cesura storica: l’applicazione del Trattato è stata sin da subito condizionata da rapporti di forza e diffidenza.

Con l’obiettivo di fissare un tetto per il livello di armi convenzionali essenziali per sferrare attacchi a sorpresa e offensive su larga scala, il Trattato era stato originariamente firmato nel 1990 dagli allora sedici membri della Nato e da otto stati del Patto di Varsavia.

Tuttavia già dall’anno successivo, le parti avviarono negoziati per elaborarne una nuova versione,che ne smussasse le disposizioni più restrittive a carico della Russia e dell’Ucraina. La risoluzione finale che ha visto la luce nel ’99, ha poi impegnato la Nato e la Russia in una sfida al reciproco sospetto.

La Nato subordinava l’applicazione degli accordi al totale ritiro delle truppe russe stanziate nel Caucaso, mentre Mosca era piuttosto favorevole a un ritiro parziale, anche alla luce dei presunti progetti dell’allora presidente Usa George W. Bush, che ipotizzava uno scudo spaziale.

In seguito, le dinamiche si sono progressivamente complicate, pur prendendo le mosse dalle stesse basi. La Russia rifiutava di adempiere gli obblighi previsti dal trattato come risposta agli accordi per l’installazione di basi Nato in Romania e in Bulgaria.

La Nato, invece, insisteva sul ritiro delle truppe russe stavolta dalla Moldavia e dalla Georgia. Il tiro alla fune si è concluso nel 2007 con un nulla di fatto, data la decisione unilaterale di Mosca di sospendere l’applicazione del Trattato. Gli spiragli di dialogo lasciati aperti qualche anno fa si sono apparentemente chiusi nei giorni scorsi con l’annuncio del ritiro.

Verso il riarmo generale
L’importanza di questo strumento era stata recentemente richiamata dall’Organizzazione per la sicurezza e per la cooperazione in Europa. Insieme al Trattato sugli Open Skies e al Vienna Document, il Cfe doveva costituire il presupposto di ulteriore cooperazione nel segno della costruzione di un sistema di sicurezza orientato al controllo nella produzione di armi convenzionali.

Il ritiro di Mosca dal Cfe è un altro tassello nel mosaico dello sconvolgimento in atto degli equilibri del post Guerra Fredda. Abbandonare questo format di dialogo è dunque non soltanto segno di una politica sempre più risoluta da parte del Cremlino, ma anche dell’idea di una Russia diffidente verso un’architettura di sicurezza che in questo momento considera crollata.

Se crea disappunto nell’Alleanza atlantica, la decisione russa, tuttavia, non ne modificherà le direttrici d’azione, stando alle dichiarazioni del segretario generale Jens Stoltenberg.

Tuttavia, l’allargamento a Est della Nato costituisce una minaccia storica nella percezione di sicurezza di Mosca: pertanto, la scelta del ritiro dal Cfe non deve stupire.

Se sul piano pratico questa mossa non sembra sortire effetti decisivi, sul piano politico essa costituisce un altro passo indietro lungo la strada della cooperazione nel settore degli armamenti, dove oggi più che mai sarebbe necessaria una posizione comune, anche alla luce dei negoziati sul nucleare iraniano.

Da tempo la Nato lamenta l’inadeguatezza dei mezzi e la necessità di una smart defensee nel frattempo Mosca non è rimasta a guardare. L’aumento della spesa militare nei Paesi baltici dove si svolgono esercitazioni Nato rende ancora più immediata la reazione della Russia che difficilmente accetterà limitazioni se non alle sue condizioni.

Allo stesso tempo, la reciproca diffidenza tra Nato e Russia inevitabilmente si acuisce a causa delle oggettive difficoltà nella gestione dei focolai di crisi nel mondo arabo e nell’est europeo. Lo scenario che si prospetta sembra dunque aprirsi più su rischi di riarmo generale che su possibili miglioramenti significativi nella riduzione degli armamenti.

Giovanna De Maio è dottoranda di ricerca presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale; è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI.

venerdì 27 marzo 2015

Prezzo del Petrolio: problemi per tutti i produttori

Calo del prezzo del petrolio
Il gattopardo saudita e il mercato del greggio
Andrea Bonzanni
22/03/2015
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Nel susseguirsi di notizie negative che stanno sconvolgendo lo scacchiere geopolitico, ve ne è una che va controcorrente: lo spettacolare tonfo nelle quotazioni dell’oro nero, che a gennaio ha toccato quota 47 dollari al barile solo in parte temperato dal rialzo intorno ai 60 dollari registrato nelle ultime settimane.

Illustri macroeconomisti hanno argomentato come un greggio a buon mercato possa rilanciare produzione industriale e domanda interna. Vi è inoltre consenso sul fatto che il petrolio basso stia riducendo ulteriormente le già deboli pressioni inflazionistiche, regalando alle banche centrali maggiori margini per attuare una politica monetaria espansiva.

Analisti geopolitici evidenziano come l’attuale congiuntura sui mercati energetici limiterà il raggio d’azione di regimi spesso problematici sullo scacchiere internazionale (Iran, Venezuela e Russia su tutti). Essa ridurrà anche il flusso di denaro legato al complesso, ma reale, legame tra rendite petrolifere e finanziamento dell’islamismo radicale. Indubbiamente buone notizie per un Occidente importatore cronico e in difficoltà con diversi paesi produttori di petrolio, soprattutto nel mondo islamico.

Arabia Saudita tiene bassa l’asticella del prezzo
Pecca però di eccessivo ottimismo chi vede nel crollo dei prezzi una capitolazione dell’Opec e un’inversione strutturale dei rapporti di forza tra produttori e importatori.

Infatti, se il trend ribassista è da attribuire in primo luogo all’eccesso di offerta sul mercato fisico, la sua tempistica ed entità sono state influenzate in maniera fondamentale dalle mosse del blocco di paesi dominanti all’interno dell’Opec, saldamente guidato dall’Arabia Saudita.

Spalleggiati dagli alleati del Consiglio della cooperazione del Golfo, Ccg, (Kuwait, Qatar, Emirati, Bahrain e Oman), i principi sauditi hanno infatti accentuato il crollo delle quotazioni rifiutandosi, con il barile già sotto agli 80 dollari, di annunciare un taglio della produzione al vertice Opec del 27 novembre scorso.

L’Arabia Saudita ha tenuto un tale atteggiamento nonostante un intervento fosse pienamente giustificato dalla situazione di mercato e richiesto quasi disperatamente da una fetta significativa di paesi Opec (Iran, Venezuela e Nigeria in primis) nonché da altri importanti produttori come Messico e Russia che partecipavano al vertice.

La mossa è stata poi puntellata il mese successivo dalle dichiarazioni del ministro del petrolio Ali al-Naimi sulla possibilità di un petrolio a 20 dollari.

Shale, una vittoria di Pirro?
La narrativa trionfalista della ‘vittoria energetica’ dei trivellatori a stelle e strisce che spodestano gli sceicchi nel dominio del mercato petrolifero nasconde dunque una realtà meno piacevole. Il settore shale americano avrà pure sostituito il gigante saudita Saudi Aramco nel ruolo di “swing producer” in grado di influenzare le quotazioni, come argomenta Alan Greenspan sul Financial Times. Una cosa però è essere swing producerper scelta, lasciando strategicamente fuori dal mercato fette consistenti della propria capacità produttiva (come fanno i sauditi da almeno 30 anni), un altro è esserlo per necessità, in quanto la propria produzione oscilla costantemente attorno alla soglia della profittabilità in uno scenario di estrema volatilità dei prezzi.

Per la schiera di produttori indipendenti del Texas o del Nord Dakota un barile intorno ai 50-60 dollari significa flirtare con la bancarotta, soprattutto quando scadranno i contratti di hedging firmati per coprire la produzione dei prossimi uno o due anni.

Una tale condizione non potrà che portare a un ridimensionamento della produzione a stelle e strisce, nonostante i dati più recenti ancora non segnalino un calo dei volumi estratti.

Le formazioni geologiche scistose (shale), da cui proviene gran parte dell’incremento del 65% nella produzione del petrolio americano negli ultimi cinque anni, necessitano di continui investimenti in nuove trivellazioni per mantenere i livelli di attività attuali, ma l’afflusso di liquidità dai mercati finanziari - complice anche l’annunciata fine delquantitative easing promosso dalla Fed - rischia di affievolirsi. E senza capitali si svuoteranno anche i treni e gli oleodotti che trasportano il greggio americano verso le raffinerie del Golfo del Messico, non a caso - come ha mostrato Bassam Fattouh dell’Oxford Institute of Energy Studies - le destinazioni preferite per il greggio saudita prima della shale devolution.

Geopolitica dell’abbondanza saudita
Nel lungo periodo, inoltre, è difficile immaginare che i paesi del Golfo e i membri delle loro numerose famiglie reali si accontentino di vivere in un mondo di petrolio a buon mercato, privandosi dei lussi e dei privilegi globali che hanno saggiato durante l’ultimocommodity boom.

Anche questa volta l’Arabia Saudita avrebbe a disposizione le armi per invertire la tendenza: basterebbe diminuire la produzione, cosa che si è rifiutata di fare al vertice Opec di novembre. In presenza di un segnale opposto, i capitali finanziari potrebbero rientrare rapidamente sul mercato dei futures con aspettative rialziste, in un remake del rialzo del 2009-2010 dopo il crollo di fine 2008.

Nulla di nuovo da Ryad: la nuova “geopolitica dell’abbondanza” assomiglia molto a quella vecchia.

Andrea Bonzanni è un analista di mercati e politiche energetiche residente a Londra, dove si occupa di regolazione del trading, mercati del gas e emissions trading. Le opinioni espresse in questo articolo sono a titolo personale.

venerdì 20 marzo 2015

Novità all'orizzonte economico europeo

Accordi commerciali Ue-Acp
Maratona negoziale s'avvicina a conclusione
Nicola Tissi
16/03/2015
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Dopo anni di tormentate trattative, il 2014 ha segnato uno spartiacque per gli Economic Partneship Agreements (Epa), accordi commerciali fra Unione europea (Ue) e blocco Africa, Caraibi, Pacifico (Acp).

Con la firma di accordi regionali in tre dei cinque blocchi africani, la maratona degli Epa, iniziata nel 2002, sembra avvicinarsi al suo rettilineo finale.

Epa si, Epa no
Gli Epa intendono mettere fine al sistema unilaterale di preferenze Ue-Acp, in favore di regimi ‘asimmetrici’ in base ai quali l’Ue garantisce accesso senza dazi e quote ai paesi Acp, ottenendo in cambio aperture e liberalizzazioni dei mercati Acp di minor portata (fino al 75%).

La base legale è l’accordo di partenariato Ue-Acp di Cotonou (2000), erede degli accordi di Lomé, che prevede la fine del pluridecennale regime preferenziale riservato ai paesi Acp, incompatibile con i dettami liberoscambisti dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc).

Per i fautori degli Epa tali accordi adatteranno le relazioni Ue-Acp alla realtà del commercio globale odierno, terminando discriminazioni verso paesi terzi e assicurando compatibilità con le disposizioni dell’Omc.

Per i detrattori, gli Epa avvantaggeranno solo l’Ue: se mal calibrate, le liberalizzazioni previste arrecherebbero danni irreversibili alle industrie nascenti in Africa.

L’impatto sul settore agricolo dei paesi africani è tutto da valutare: con l’eccezione di una nicchia di prodotti sensibili, gli Epa mettono i mercati africani davanti al rischio di invasione di prodotti agricoli europei a prezzi più bassi.

Tutto ciò metterebbe fuori gioco i produttori africani che farebbero più fatica ad entrare nel mercato europeo, considerate le barriere non tariffarie esistenti e la minor competitività dovuta anche alle sovvenzioni della contestata Politica agricola comune europea.

Per economie fortemente basate sull’agricoltura come quelle africane, l’impatto degli Epa sul commercio agricolo Ue-Acp è quindi un nodo centrale.

Epa in Africa, un percorso tortuoso 
Se gli accordi Ue-Caraibi si sono conclusi rapidamente (2008), in Africa i negoziati Epa sono stati costellati di difficoltà riguardanti modalità, tempistiche, e grado delle liberalizzazioni, nonché la protezione di prodotti sensibili e le compensazioni per la perdita immediata delle entrate dei dazi doganali.

Per incentivare la conclusione di accordi definitivi, l’Ue ha concesso e poi esteso all’ottobre 2014 la Market Access Regulation che garantiva accesso senza dazi né quote ai prodotti dei paesi Acp firmatari di accordi ‘interim’.

Questa mossa è stata decisiva: nel 2014 sono stati conclusi accordi con tre blocchi africani: Africa occidentale (Ecowas), australe (Sadc) e orientale (Eac).

Nel 2015, con l’approvazione da parte dei Parlamenti nazionali e la ratifica dei rispettivi Capi di Stato, gli Epa dovrebbero finalmente entrare in vigore nei blocchi firmatari.

In Africa centrale e sud-orientale i negoziati sono invece ancora in corso a causa di spaccature interne ai blocchi. Per questi paesi il tempo stringe: nel 2015 è prevista la revisione quinquennale dell’Accordo di Cotonou e all’orizzonte incombono le trattative per un nuovo accordo-quadro Ue-Acp, vista la spada di Damocle della scadenza di Cotonou nel 2020.

Il tortuoso percorso dei negoziati Epa in Africa, costellato di incomprensioni, bizantinismi burocratici, ritardi strategici e deroghe non rispettate, ha a lungo costituito una spina nel fianco delle relazioni Ue-Acp.

Con il tempo i rapporti di forza sono però cambiati e le carte al tavolo dei negoziati si sono rimescolate. Se l’Ue è stata indebolita da una crisi interna acutissima, le economie africane hanno vissuto un periodo di forte espansione, sviluppo e accresciuto peso politico. Bruxelles, conscia di questi cambiamenti, è quindi passata da un atteggiamento intransigente a uno più flessibile improntato sulla logica del compromesso.

Apertura e protezione, un fragile equilibrio
Nel breve periodo l’implementazione degli Epa porterà con sé costi di adattamento e squilibri commerciali, ma una valutazione obiettiva sull’impatto di accordi di questa portata deve fondarsi su un’ottica di medio e lungo termine.

Allo stato attuale esprimere giudizi di merito risulta difficile, vista la pluralità delle variabili in gioco e l’incertezza in merito alle modalità di implementazione. Certo è che l’insostenibilità di regimi commerciali preferenziali unilaterali in un panorama globale caratterizzato da economie sempre più interdipendenti e aperte è un fatto assodato per molti.

Il mancato adeguamento del commercio Ue-Acp alla geografia economica contemporanea sarebbe politicamente miope per entrambi.

I paesi africani in procinto di implementare gli Epa hanno però economie fondate sull’esportazione di materie prime. Quasi nessuno esporta quei prodotti semi-lavorati o finiti, nei quali risiede il surplus economico maggiore e che garantiscono ritorni positivi dal libero scambio con altri blocchi.

Nella storia economica moderna, le più durevoli esperienze di crescita e sviluppo su scala regionale (industrializzazione in Europa nel diciannovesimo secolo e ‘East Asian miracle’ nella seconda meta del ventesimo)sono state caratterizzate da una fase iniziale di protezione commerciale di settori strategici.

Questo ‘farsi le ossa’ predispone un’economia ad affrontare i mercati globali con i dovuti anticorpi. In assenza di ciò, per paesi con strutture economiche poco diversificate - e quindi molto vulnerabili - le aperture previste dagli Epa potrebbero diventare un vero e proprio salto nel buio.

Nicola Tissi (MSc, London School of Economics) si occupa di Africa e cooperazione allo sviluppo dal 2009. Al momento ricopre la posizione di assitente ai programmi del settore educazione nell'Ufficio di Cooperazione dell'Ambasciata d'Italia a Maputo. È raggiungibile al seguente indirizzo: nicola.tissi@gmail.com.

lunedì 16 marzo 2015

Il problema delle rotte aperte.

Sicurezza marittima
Flotte mediterranee contro Pirati Barbareschi
Fabio Caffio
10/03/2015
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Si delinea l'azione internazionale contro l'anarchia delle coste libiche ed i connessi traffici illeciti di armi, petrolio ed esseri umani.

L'opzione dell'embargo navale appare non più rinviabile in quanto il controllo del mare è un presupposto necessario dell'intervento sul suolo libico. Parecchi sono tuttavia i problemi tecnico-operativi relativi all'impiego di Forze navali sotto egida dell'Onu, non ultimo quello del salvataggio dei migranti.

Ritorno al passato
Nel dna libico vi è la tendenza a sottoporre il mare a dominio esclusivo. Sono note le vessazioni al traffico commerciale dei pirati (c.d. barbareschi) stanziati lungo le coste libiche che indussero Venezia, Napoli e gli Stati Uniti a cannoneggiare Tripoli.

Lo stesso Gheddafi aveva sfidato la libertà dei mari: prima nel 1973 con l'annessione del Golfo della Sirte e poi con la proclamazione di una zona di protezione della pesca in cui più volte nostri pescherecci sono stati aggrediti da motovedette libiche.

Naturale quindi che il Consiglio di sicurezza dell'Onu (Cds) dopo la caduta di Gheddafi si fosse preoccupato dell'uso dei porti libici per il contrabbando di armi. La Risoluzione 1973 (2011) aveva perciò autorizzato un embargo navale coercitivo contro i mercantili implicati nel traffico.

Lo stesso era stato fatto nel 2014 con la Risoluzione 2146 volta ad impedire il contrabbando di petrolio dalla Cirenaica con cui il sedicente Califfato cercava di finanziarsi.

Esercitazioni Marina Italiana
In questo contesto s'inseriscono le manovre navali iniziate il 2 marzo dalla Marina Militare Italiana in acque internazionali prossime alla Libia.

Le operazioni non sono state messe in rapporto alla crisi in atto, ma un loro obiettivo dichiarato è quello di accrescere la sicurezza dell'area dove cospicui sono gli interessi italiani negli impianti estrattivi di Bouri gestiti dall'Eni, da cui parte, sino a Gela, il gasdotto Greenstream.

L'esercitazione mira anche a scoraggiare episodi pirateschi come quello del 15 febbraio in cui alcuni scafisti hanno costretto la nostra Guardia costiera a consegnare un'imbarcazione sotto sequestro.

La situazione politica libica (fonte: Corriere della Sera).

Nuovo embargo o blocco navale?
La soluzione embargo navale è comparsa dopo che il Gruppo di esperti sulla Libia ha presentato al Cds un proprio rapporto in cui raccomandava l'impiego di Forze navali per "assistere il governo libico nel rendere sicure le sue acque territoriali per prevenire l'ingresso e l'uscita dalla Libia di armi, crude oil o altre risorse naturali".

Tobruk ed il Cairo si sono anche mosse congiuntamente richiedendo al Cds un blocco navale che impedisca qualsiasi traffico marittimo con porti in mano alle milizie estremiste di Tripoli e Misurata.

Non è ancora chiaro quale sarà la scelta del Cds. Forse si stabilirà in alto mare un embargo navale selettivo contro specifiche imbarcazioni sospette segnalate dal governo di Tobruk, simile a quello della Ris. 2146 (2014).

Il blocco di singole zone costiere non sembra un'opzione praticabile, a meno di non immaginare che sia Tobruk a decretarlo nell'ambito di quello che è oramai un conflitto internazionale, dopo l'intervento militare dell'Egitto. Si pensi a quanto fatto da Israele nelle acque antistanti il Libano nel 2006 ed a Gaza nel 2009.

L'embargo in alto mare ed il blocco costiero potrebbero integrasi. Così si realizzerebbe una sinergia tra Tobruk e l'alleato Egitto e le Forze che agiranno su autorizzazione del Cds. Le unità della Nato saranno certamente tra queste, ma è auspicabile che esse si integrino, per la prima volta, con una componente navale europea.

Anche altri attori mediterranei come la Tunisia o Israele potrebbero partecipare. Nulla esclude che la Russia intervenga unilateralmente, come avviene nel Corno d'Africa per l'antipirateria.

Salvataggio migranti
Si potrebbero con il blocco navale fermare le partenze di migranti dalle coste libiche? La questione è mal posta perché lo scopo di un blocco non è questo, tenuto anche conto dei risvolti umanitari. Invece si deve parlare di espatri illegali, organizzati da avidi trafficanti su imbarcazioni non atte a navigare, che le autorità locali hanno il potere di impedire.

Tali autorità (Tobruk ed il suo alleato?) potrebbero effettuare interventi di salvataggio nelle acque territoriali o nella zona Sar riportando i migranti in Libia in vista della loro successiva presentazione di richieste di asilo ad organismi internazionali presenti in loco.

Eventuali soccorsi prestati in alto mare dalle Forze navali rientrerebbero invece nelle responsabilità dei singoli Stati di bandiera che poi dovrebbero trasportare i migranti in un idoneo "luogo sicuro" (ma quale, visto che solo l'Italia accetta di accoglierli?). Riaccompagnarli in Libia costituirebbe una violazione dei diritti di persone aventi titolo a protezione internazionale.

Certo è che una nuova risoluzione del Cds dedicata alla sicurezza marittima della Libia dovrebbe, questa volta, non tralasciare i problemi del traffico di esseri umani via mare.

Fabio Caffio, è ufficiale della Marina Militare in congedo, esperto in diritto internazionale marittimo.
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venerdì 13 marzo 2015

La nuova frontiera del terrorismo

Guerra al Califfato
Paura dei foreign fighters, ma non troppa
Daniel L. Byman, Jeremy Shapiro
04/03/2015
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Molti ufficiali delle intelligence statunitense ed europea temono che l'ondata di terrorismo si diffonda anche in Europa. E la gran parte dei problemi deriva proprio dal nutrito numero di foreign fighters occidentali coinvolti.

Nonostante le paure e il concreto pericolo che le anima, la minaccia rappresentata dai combattenti stranieri in Siria e Iraq potrebbe essere facilmente esagerata. Alcuni precedenti e le informazioni provenienti dalla Siria invitano a considerare taluni fattori che riducono - e quasi eliminano - la potenziale minaccia terroristica rappresentata dei combattenti stranieri giunti in Siria.

- Molti muoiono, facendosi esplodere in attacchi suicidi o rimanendo uccisi in scontri a fuoco con opposte fazioni.
- Alcuni non fanno ritorno a casa, ma continuano a combattere nella zona del conflitto o nella successiva battaglia jihadista.
- Altri maturano una rapida disillusione e una percentuale di questi torna a casa senza abbracciare nuove, violente cause di lotta.
- Altri ancora vengono arrestati o fermati dai servizi di intelligence.

Il pericolo sollevato dal timore del ritorno in patria dei foreign fighters è reale, ma i servizi di sicurezza europei e statunitensi hanno gli strumenti per ridurre la minaccia. Questi dovranno essere adattati al nuovo contesto siriano e iracheno.

Il modello qui in basso mostra come sia i vari fattori precedentemente elencati sia delle efficaci strategie possono (ma non necessariamente lo faranno) ridurre il rischio rappresentato dai combattenti nelle milizie straniere.

Foreign fighters in viaggio
Anzitutto, bisogna prendere in considerazione il momento della decisione: è necessario pensare di ridurre il numero di quanti partono verso le zone di guerra prima di tutto cercando di interferire nel processo decisionale.

I paesi occidentali dovrebbero mettere in campo una contro-narrativa che evidenzi la brutalità del conflitto e la violenza intestina fra jihadisti. Altrettanto cruciale è pensare di sviluppare attraenti alternative pacifiche al combattimento per aiutare le popolazioni colpite dagli scontri in Medio Oriente.

I programmi di assistenza territoriale possono anche contribuire a migliorare l'attività di spionaggio locale. Trovarsi in giro per la comunità consente in primis al personale dei servizi un maggiore accesso alle informazioni sui potenziali fondamentalisti.

In secondo luogo, tali programmi consentono agli addetti dell'intelligence di entrare in contatto con persone che possano essere reclutati per fornire informazioni su altri aspiranti jihadisti.

Interrompere il transito che passa per la Turchia è una delle più promettenti risposte all'esigenza di contrastare la minaccia di stranieri arruolati fra le schiere dei fondamentalisti islamici per Europa e Stati Uniti.

I governi occidentali dovrebbero inaugurare una più efficace cooperazione con le autorità turche, le quali non sempre hanno considerato il freno al flusso di combattenti stranieri come la loro massima priorità.

Proprio mentre in Turchia cresce la preoccupazione rispetto al pericolo jihadista, l'intelligence e i servizi di polizia occidentali dovrebbero approfittarne per creare canali di comunicazione privilegiati con gli omologhi di Ankara.

In tal modo, i servizi di sicurezza turchi verrebbero avvisati della presenza di soggetti diretti in Siria attraverso il passaggio turco. Al contempo verrebbero invitati a negare loro l'accesso dal confine turco o a fermarli alla frontiera siriana e deportarli.

Altrettanto essenziale è la cooperazione fra i servizi degli Stati europei e fra le intelligence europea e statunitense.

Addestramento e indottrinamento terroristico
foreign fighters vengono poi addestrati in Siria o in Iraq, perlopiù fuori dal raggio di influenza euro-americana. Persino laggiù ci sono però sottili modi di interferire con l'indottrinamento terroristico.

I servizi occidentali dovrebbero fare quanto in loro potere per ingenerare nei leader estremisti in Iraq e Siria il dubbio circa l'effettiva lealtà dei musulmani volontari provenienti da ovest.

Se infatti le organizzazioni jihadiste cominciassero a vedere gli stranieri come potenziali spie o come portatori di turbamento, potrebbero assegnarli a ruoli non combattenti, mettendone alla prova la fedeltà. Per esempio, potrebbero rifiutarsi di arruolarli o offrirgli un biglietto di sola andata come kamikaze.

Subito dopo il ritorno dei combattenti stranieri nei luoghi di provenienza è arduo allontanarli dalla violenza e dal jihad. È questo il quarto gradino del processo che stiamo descrivendo. I servizi di sicurezza occidentali riferiscono che di solito sanno quando i foreign fighters fanno ritorno e che molti rimpatriano ancora pieni di dubbi.

Un primo adempimento per i servizi, in questa fase, deve essere l'identificazione delle priorità fra gli ex combattenti, così da individuare quelli che tra loro necessitano di maggiore attenzione: le nostre interviste, tuttavia, segnalano che una tale mappatura è effettuata incoerentemente (e talvolta nulla affatto) fra i servizi d'intelligence d'occidente.

È inevitabile: alcuni individui pericolosi mancheranno all'appello e taluni di quelli identificati come non particolarmente pericolosi potrebbero costituire un minaccia poco più tardi; tuttavia, la prima impressione è fondamentale per stabilire le priorità dell'intervento da realizzare su chi fa rientro.

Scongiurare attacchi terroristici 
Per fermare i foreign fighter dal pianificare attacchi terroristici, i servizi di sicurezza devono mantenere alta l'attenzione sul problema dei rimpatriati e fare in modo di avere sufficienti risorse per monitorarli.

Solitamente, chi fa la spola fra Siria e Iraq si pone all'attenzione dei servizi. Di contro, continuare a vigilare, a fronte di un crescente numero di combattenti di ritorno nei propri paesi, diventerà più arduo per mere ragioni legate alle risorse in campo.

Allo stesso tempo, proprio la sua stessa efficacia può finire per operare a scapito dell'attività di intelligence: riducendo l'insidia in maniera apprezzabile, infatti, i servizi ridimensionano il pericolo e quindi creano l'illusione che vi sia bisogno di meno risorse.

Un modo per calmierare questo effetto è rappresentato dalla "diffusione" del carico di responsabilità condividendo le informazioni con la polizia locale, le altre forze dell'ordine e le organizzazioni sociali della comunità.

Gli Stati Uniti e l'Europa hanno già schierato efficaci misure per ridurre in maniera consistente la minaccia terroristica rappresentata dai combattenti jihadisti occidentali che fanno ritorno a casa e per limitare la portata di un qualsivoglia attacco che possa verificarsi.

Queste misure possono e devono essere migliorate e, aspetto ancor più importante, adeguatamente equipaggiate. Lo standard di successo non può essere la perfezione. Se così fosse, i governi occidentali sarebbero destinati a fallire e, peggio ancora, a schierare una reazione sproporzionata che non farebbe altro che sprecare risorse e causare pericolosi errori di strategia politica.

L’articolo è un estratto dell’originale, tradotto da Gabriele Rosana, stagista dell’area comunicazione dell’Istituto Affari Internazionali.

Daniel L. Byman, Research Director, Center for Middle East Policy
Jeremy Shapiro, Fellow, Foreign Policy, Center on the United States and Europe
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lunedì 2 marzo 2015

Immigrazione: un problema sempre aperto

Immigrazione
Onda libica sui flussi migratori 
Fedora Gasparetti
27/02/2015
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Lo sviluppo della crisi in Libia e il conseguente aumento dei flussi migratori dal paese sta determinando una vera e propria emergenza umanitaria in Europa e soprattutto in Italia.

Nonostante l’inverno, a gennaio 2015 3.528 migranti hanno attraversato il Mediterraneo (a differenza dei 2.171 registrati lo stesso mese nel 2014), mentre secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) a febbraio gli arrivi sono stati circa 4.300, 3.800 dei quali soltanto nel periodo compreso tra venerdì 13 e martedì 17.

“L’Europa deve essere pronta ad assistere in modo adeguato coloro che rischiano la propria vita in mare, ampliando i limiti geografici di intervento dell’operazione Triton e fornendo delle possibili alternative alla traversata via mare” afferma Federico Soda, Capo Missione dell’Oim in Italia.

Parole confermate dall’ennesima tragedia verificatasi nel Mediterraneo lo scorso 10 febbraio, evento che ha riacceso il dibattito sulle modalità di intervento dell’Europa evidenziando i limiti di Triton, la missione avviata dopo la chiusura dell’operazione Mare Nostrum coordinata dall’Italia.

Il tema è stato anche al centro del seminario L'immigrazione che verrà organizzato da “Area”, Magistratura democratica e Movimento per la Giustizia-Articolo 3, le cui conclusioni hanno sottolineato la necessità di un orientamento delle politiche europee e italiane volte ad assicurare condizioni di viaggio e di accoglienza dignitose e sicure.

L’attenzione i è concentrata anche sul rafforzamento delle risorse delle nuove iniziative europee (a partire proprio da Triton), portando l’esperienza di Mare Nostrum e allargandone il raggio d’azione e riconoscendo esplicitamente anche la finalità di soccorso dei migranti.

Rotta del Mediterraneo centrale
La traversata del mare in realtà costituisce solo la parte finale di un viaggio assai più complesso lungo la rotta del Mediterraneo centrale, una delle più sfruttate dai trafficanti da almeno una decina di anni e all’interno della quale la Libia rappresenta il nexus point dove confluiscono i migranti che sopravvivono al deserto e che provengono da differenti punti di partenza.

Fino al 2010, la relativamente prospera economia del paese offriva buone opportunità lavorative sia ai migranti subsahariani per i quali rappresentava la destinazione finale, sia per coloro che lo consideravano un paese di transito nel quale poter guadagnare il denaro sufficiente per pagare i trafficanti e continuare il viaggio alla volta dell’Europa.

In seguito alle Primavere arabe si è assistito ad un incremento sostanziale dei flussi in partenza dalle coste libiche per raggiungere principalmente l’Italia e Malta.

Nel 2014, 170.816 migranti sono approdati nel sud dell’Italia attraverso la rotta centro-mediterranea, rispetto ai 45.298 del 2013.

L’inasprimento recente dei conflitti ha conseguentemente favorito il business dei trafficanti, all’interno del quale si è inserito anche l’autoproclamatosi Stato islamico che si è conquistato la propria fetta di un mercato esistente ormai da lungo tempo.

In Libia confluiscono migranti provenienti da varie rotte interne gestite dai trafficanti, le cui principali includono l’attraversamento del Sahara a partire dal Sudan (intrapresa soprattutto da cittadini sudanesi e provenienti dal Corno d’Africa), dal Niger (percorsa in particolare da migranti subsahariani) e dal Chad (anche se di minore consistenza, questa via rappresenta un importante punto di passaggio per chadiani, sudanesi e camerunesi).

Anche siriani e palestinesi raggiungono la Libia dal Sudan dopo essere partiti in volo da Amman, Beirut o Istanbul alla volta di Khartoum e quindi attraversando il deserto libico. Tale opzione è una delle poche rimaste a queste due nazionalità dopo che il governo algerino ha reso loro estremamente difficile l’ottenimento del visto. Di conseguenza, la rotta attraverso l’Algeria è stata sostituita da quella alternativa via Sudan.

Flussi migratori multiforme
L’aggravarsi delle condizioni in Libia, la pericolosità del paese e le continue violenze ed estorsioni subite dai migranti (soprattutto di origine subsahariana) hanno costituito senza dubbio dei fattori decisivi nella scelta di imbarcarsi verso l’Italia, come riportano le testimonianze dei migranti arrivati in queste settimane.

Racconti che restituiscono la dimensione multiforme dei flussi migratori diretti verso l’Italia e che vede protagonisti sia migranti forzati, rifugiati e richiedenti asilo in fuga da conflitti che migranti economici e vittime di tratta.

Condizioni, queste, che influenzano notevolmente sia la durata e le condizioni della permanenza in Libia che il compenso corrisposto ai trafficanti (dai 400 ai 1500 dollari secondo i racconti degli intervistati).

L’attesa prima di partire può essere di cinque giorni come di due anni. Alcuni hanno riferito di aver passato dei mesi nelle cosiddette “case di collegamento”, dove sono stati vittime di sorprusi e violenze.

Un altro dato che emerge è quello relativo alle aspirazioni rispetto al paese ultimo di destinazione: dalla Germania al Nord Europa, mete il cui raggiungimento è facilitato dalle reti di trafficanti che si sono create anche all’interno dell’iperprotetto spazio Schengen.

Fedora Gasparetti è esperta di politiche migratorie e di asilo. Dottore di ricerca in Antropologia Sociale è stata consulente per diverse organizzazioni internazionali e nazionali. Per l’OIM ha lavorato in Tunisia, nel campo di rifugiati di Choucha al confine libico. Lavora attualmente per l’agenzia della Commissione Europea Eacea.
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