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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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mercoledì 28 gennaio 2015

ONU: non esiste un altro oridine mondiale

Onu
Le Nazioni Unite sono un’istituzione necessaria
Natalino Ronzitti
26/01/2015
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Meraviglia leggere su un giornale autorevole come il Corriere della Sera (Pierluigi Battista, “L’Aja e l’assurda liturgia dei processi anti Israele”, Corriere della Sera, 19 gennaio 2015) che le Nazioni Unite sarebbero un ente “faraonico, costoso e inutile”, che si è fatto umiliare in molte occasioni e che mette a capo degli organismi che dovrebbero difendere i diritti umani, stati, che invece ne sono i più biechi trasgressori.

Il lettore rimane poi esterrefatto se per argomentare il ragionamento, che è volto a dimostrare la faziosità della Corte penale internazionale (Cpi) per aver aperto un esame preliminare sui pretesi crimini commessi dagli israeliani nei territori occupati, si fa confusione tra gli organismi competenti o addirittura si risuscitano organi estinti.

Così si scambia la Cpi con la Corte internazionale di giustizia (Cig), che hanno in comune solo la sede nella stessa città (L’Aja), e la Commissione dei diritti umani (ormai defunta) con il Consiglio dei diritti umani, e così via.

La Corte internazionale di giustizia giudica solo controversie tra Stati, mentre la Cpi giudica gli individui responsabili di crimini di guerra, contro l’umanità, genocidio e, quando saranno soddisfatte le condizioni previste in un emendamento adottato qualche anno fa, anche il crimine di aggressione.

Il significato delle Nazioni Unite
Le Nazioni Unite non sono un ente inutile! Ovvio che un giudizio sbrigativo può essere il prodotto della visione che ciascuno di noi ha della comunità internazionale e dei rapporti intercorrenti tra gli stati membri, che sono disciplinati dal diritto internazionale.

È errato descrivere le Nazioni Unite come il governo mondiale e probabilmente i suoi critici hanno in mente questo modello. In una comunità anorganica, quale quella internazionale, le Nazioni Unite devono fare i conti con un modello di società che non è quello degli ordinamenti statali.

Ma sono l’unica istituzione che riunisce tutti gli stati, dove ci si può confrontare e discutere, il Parliament of Man come ha intitolato una sua opera lo storico Paul Kennedy, che nel 2006 dette questo titolo ad un volume sulle Nazioni Unite, che affronta i nodi dell’Organizzazione sotto un profilo eminentemente storico, risalendo al Congresso di Vienna e alla Società delle Nazioni.

Luci ed ombre
Esistono dei principi, che sono talvolta (o troppo spesso) trasgrediti, ma di cui occorre tenere conto, qualora non si voglia scadere nell’imbarbarimento nei rapporti tra stati. Tali principi sono scritti nella Carta delle Nazioni Unite o si sono venuti sviluppando con la prassi evolutiva.

Ne citerò soltanto tre: divieto dell’uso della forza, soluzione pacifica delle controversie internazionali, salvaguardia dei diritti dell’uomo.

Uno dei successi principali delle Nazioni Unite è stata la codificazione del diritto internazionale. Basti pensare al diritto diplomatico e consolare, al diritto dei trattati, alla Convenzione sul diritto del mare, ai due Patti del 1966 in materia dei diritti umani. L’elenco potrebbe continuare.

L’altro successo è stato la decolonizzazione. I membri dell’Onu sono quasi quadruplicati dalla sua fondazione e l’organizzazione mondiale è stata certamente d’impulso alla realizzazione del principio di autodeterminazione dei popoli e all’abolizione del colonialismo.

Certo ci sono state e ci sono tuttora delle defaillances, in particolare per quanto riguarda il peace-enforcement. La mancata attuazione delle principali disposizioni del Capitolo VII della Carta ha impedito alle Nazioni Unite di realizzare il sogno di una comunità internazionale fondata sull’assenza di conflitti e la sconfitta e punizione dell’aggressore.

La prassi ha tuttavia originato la formula del peace-keeping che, quantunque imperfetta, ha contribuito a risolvere molteplici situazioni. È troppo facile enumerare solo gli insuccessi delle Nazioni Unite, tralasciando i successi.

Lo stesso peace-enforcement, incluso l’intervento umanitario, può essere fondato su un’autorizzazione data agli stati dal Consiglio di Sicurezza (Cds).

Lungi dal posizionarsi su una critica distruttiva del sistema, occorre operare affinché questo sia messo in grado di funzionare. Un tema ricorrente è attualmente quello degli stati falliti e del post peace-keeping/peace-enforcement.

È necessario che la , uno dei magri risultati finora ottenuti con i tentativi di riforma delle Nazioni Unite, sia dotata di reali risorse per consentire la ricostruzione del tessuto istituzionale nei territori in preda all’anarchia.

Corte penale internazionale
E veniamo alla Cpi, che tra l’altro non è un organismo delle Nazioni Unite. Sul punto si è già espresso sul Corriere del 23 gennaio, nella rubrica interventi e repliche, il giudice Cuno Tarfusser, Vicepresidente della Corte.

Per parte nostra, mentre ribadiamo le critiche già espresse in passato a questa Istituzione, vogliamo osservare come gli stati non membri abbiano poco titolo per criticare l’adesione palestinese allo statuto della Corte, con il pretesto che essa sia stata effettuata avendo di mira un fumus persecutionis nei confronti di Israele.

Il riferimento non è solo alle prese di posizioni israeliane, ma anche a quelle degli Stati Uniti che, pur non essendo uno stato parte, non sono alieni dal consentire che una situazione criminosa sia deferita alla Corte tramite il Consiglio di Sicurezza, purché i loro interessi non siano minimamente toccati.

Prova ne sia la risoluzione 1970 (2011), che ha deferito la situazione libica alla Cpi, impedendo tuttavia alla Corte di giudicare i cittadini degli stati non parti che avrebbero poi partecipato all’intervento militare autorizzato dal Cds.

In conclusione
L’Italia è diventata membro delle Nazioni Unite nel 1955 e quest’anno si appresta a celebrarne il 60esimo anniversario. 
Il nostro è uno degli stati fondatori della Cpi e qualche mese fa ha depositato la dichiarazione di accettazione obbligatoria della competenza della Cig, in coerenza con l’impegno assunto nel 2012 all’apertura della sessione autunnale dell’Assemblea Generale.

L’Italia aspira a divenire membro non permanente del Cds per il biennio 2017-2018. Il contributo italiano può essere indirizzato, insieme agli altri membri dell’Ue, inclusi Francia e Regno Unito membri permanenti del Consiglio, all’ambizioso compito della riforma del Cds e al miglioramento delle Nazioni Unite, un’istituzione tutt’altro che inutile!

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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venerdì 23 gennaio 2015

Immigrazione: aperta un nuovo fronte

Immigrazione
Sempre più carrette della speranza salpano per la rotta Egeo-Jonica
Enza Roberta Petrillo
19/01/2015
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Izmir, Mersin, Antalya, Istanbul. La rotta est-mediterranea che punta all’area Schengen comincia in Turchia.

L’Ezadeen, il cargo bestiame battente bandiera della Sierra Leone approdato a Corigliano Calabro lo scorso 2 gennaio con 450 migranti a bordo, è soltanto l’ultimo dei mercantili soccorsi dalla Guardia Costiera dopo essere stati abbandonati a poche miglia dalle coste italiane cariche di migranti e senza equipaggio.

Tre giorni prima era stata la volta della Blue Sky, con 797 profughi a bordo. Sia l’Ezadeen che la Blue Sky erano partite dalla Turchia.

Proprio come il Merkur, il cargo stipato di 800 migranti, prevalentemente siriani, abbordato da una motovedetta costiera il 20 dicembre scorso a largo di Pozzallo. O il Carolyn Assense, arrugginito mercantile salpato da Mersin, in Anatolia e lasciato alla deriva a largo delle coste siciliane con 700 migranti a bordo.

Una sfilza di casi che le capitanerie di porto italiane rilevano per la prima volta il 28 settembre 2014, quando un mercantile senza codice navale, partito dalla Turchia approda a Crotone con 364 migranti siriani a bordo.

Da allora, le autorità costiere italiane e greche hanno contato 15 casi di navi mercantili decrepite e battenti bandiere disparate, tutte partite dalla Turchia, tutte stipate all’inverosimile di profughi e tutte abbandonate alla deriva in acque Sar (Search and Rescue) italiane.

Turchia, crocevia per l’ingresso in Europa
Già nel 2008, Frontex descriveva la Turchia come il crocevia per l’ingresso irregolare dei migranti in Europa.

Se però, fino al fino al 2012, il 40% degli sconfinamenti irregolari avveniva lungo la frontiera terrestre turco-greca, nell’ultimo biennio, l’inasprimento dei controlli predisposti da Atene con il sostegno di Frontex al confine con la Turchia, ha causato il progressivo spostamento della rotta verso aree meno presidiate come il confine terrestre turco-bulgaro e la rotta egea.

Secondo le autorità greche, soltanto nel 2014 più di 14 mila persone - di cui oltre il 90% in fuga dalla Siria - hanno cercato di raggiungere l’Europa salpando da piccole isole egee utilizzate dai trafficanti come basi logistiche e proseguendo il viaggio su piccole imbarcazioni attraverso il Mar Egeo.

È in questo contesto di continua ridefinizione delle rotte battute dai trafficanti che si inserisce la diramazione Egeo-Jonica emersa negli ultimi mesi. Un percorso nuovo, esclusivamente marittimo e senza pit-stop insulari intermedi, diventato fondamentale soprattutto da quando l’Egitto - fino a qualche mese fa principale paese di partenza dei profughi siriani - ha cominciato a inasprire i controlli lungo la frontiera orientale, rendendo più complicato il superamento del confine.

Da allora, i flussi sono tornati a orientarsi verso la Turchia, da dove si diramano due tragitti principali: quello marittimo che punta all’Italia e quello terrestre che, attraverso i Balcani, punta alla Germania.

A gestire il business delle traversate ci sono gruppi criminali turchi e siriani di media o piccola stazza attivi anche in Svezia, Germania e Italia e specializzati nel reclutamento dei migranti anche tramite internet e spavalde operazioni di web-marketing.

Le partenze, stando a quanto raccontato dai migranti siriani scesi dalla Blue Sky, si ripetono con cadenza regolare da ogni città portuale della Turchia, in particolare da Mersin, località costiera ben collegata con il porto siriano di Latakia. È da qui che comincia la traversata dei profughi siriani.

Libano, restrizioni ai profughi siriani 
Secondo Joel Millman, portavoce dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, “l’ovvia prevedibilità dei flussi di profughi intenzionati a fuggire dalla Siria sta consentendo ai trafficanti una pianificazione efficiente delle attività basata su un flusso garantito e certo di clienti”.

Una tendenza alimentata anche dalla recente decisione del Libano di introdurre l’obbligo di visto per i cittadini siriani che cercano rifugio nei dintorni di Beirut. Questa misura potrebbe aumentare la richiesta di servizi ai trafficanti che operano dalle città costiere turche.

Izabelle Cooper, portavoce di Frontex, ha provato a quantizzare il giro d’affari. Soltanto dai due mercantili intercettati nell’ultima settimana in acque italiane sarebbero stati ricavati circa 7 milioni di euro.

“In media i cargo in disarmo costano al massimo 300 mila euro. Consideriamo solo gli ultimi due casi: 797 persone a bordo della Blue Sky M e 450 sulla Ezadeem. Ogni passeggero ha pagato 6 mila euro, in totale i trafficanti hanno intascato quasi 7,5 milioni di euro. Sottraiamo i 600 mila euro - cifra ipotizzata al rialzo pagata per i due mercantili - e il guadagno è di 6,9 milioni di euro”.

Viminale parla con Grecia e Turchia 
Gli alti profitti e i bassi rischi di intercettazione rendono questa modalità operativa particolarmente allettante per i trafficanti.

Per questo il Viminale ha avviato una cabina di regia per fronteggiare il fenomeno puntando a due obiettivi principali: obbligare Ankara a fermare i mercantili sospetti che salpano dalla Turchia e spingere la Grecia a un pattugliamento più efficace delle proprie acque territoriali.

Linea che è valsa l’endorsment di Dimitri Avramopoulos, commissario Ue per l’immigrazione che ha ribadito la necessità stringente di “un’azione decisa e coordinata a livello europeo”.

Dichiarazione che sa di déjà vu e che non ha fatto alcun riferimento al dato più evidente di questo nuovo flusso: la provenienza delle persone che pagano migliaia di dollari per salpare su cargo arrugginiti alla volta dell’Italia.

Quasi tutti profughi siriani della classe media, disposti a spendere cifre ragguardevoli pur di scampare all’eccidio siriano. Una tendenza che l’UNHCR, a giugno 2014, ha stimato complessivamente intorno ai 3 milioni e che ha portato i siriani a diventare il primo gruppo di rifugiati su scala mondiale.

Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc, Università La Sapienza di Roma; esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri (enzaroberta.petrillo@uniroma1.it).
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lunedì 19 gennaio 2015

Master in Strategia Globale e Sicurezza: in corso l iscrizioni: scadenza il 29 Gennaio 2015

ono aperte le iscrizioni all'edizione 2015 del Master in Geopolitica e Sicurezza Globale dell'Università Sapienza di Roma, organizzato in collaborazione con l'Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).


Il Master di secondo livello si rivolge a laureati magistrali, vecchio ordinamento o con titoli equipollenti che vogliano acquisire un'alta qualificazione professionale in campo geopolitico, utile ad accedere ai concorsi pubblici, ai centri di ricerca internazionalistici e alle aziende di settore. In particolare, il corso è indicato per neolaureati in scienze politiche, giuridiche, umane o economiche, per professionisti di tutti i settori interessati dalle questioni internazionali, per i dipendenti della pubblica amministrazione, per i componenti delle forze armate e dell'ordine, per i membri delle rappresentanze diplomatiche e consolari in Italia.


Il corso ha durata annuale. La didattica si svolgerà presso Palazzo Marina, in Piazza della Marina 4 a Roma, dal 3 febbraio al 19 novembre 2015, con lezioni il martedì e il giovedì dalle ore 17 alle ore 18.30. Oltre alle lezioni frontali, gli iscritti avranno la possibilità di svolgere uno stage presso enti convenzionati, tra cui IsAG. Il titolo di Master universitario, legalmente riconosciuto, sarà acquisito dopo la discussione di una tesina scritta avendo presenziato ad almeno il 75% delle lezioni. La retta è pari a € 2.500 e pagabile in due rate.


Coloro che desiderino iscriversi, dopo aver verificato il possesso dei requisiti richiesti nel Bando, debbono:
- se non già in possesso di una matricola dell'Ateneo, registrarsi al sistema informatico dell'Università Sapienza;
- pagare la tassa d'accesso, pari a € 61,00, utilizzando il modulo scaricabile dal sistema Infostud;
- entro e non oltre il 29 gennaio 2015, presentare la domanda di ammissione, utilizzando il modulo allegato al Bando, assieme a fotocopie di documento d'identità, codice fiscale, ricevuta di pagamento della tassa d'accesso, autocertificazione del titolo universitario, curriculum vitae, dichiarazione di consenso per il trattamento dei dati personali; il tutto inviato con raccomandata A/R o consegnato a mano a: Direttore del Master Prof. Paolo Sellari presso Università di Roma "La Sapienza", Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione, Dipartimento di Scienze Politiche, P. Aldo Moro 5, 00185 Roma.


Per maggiori informazioni sulle modalità di iscrizione, i contenuti del Master e il calendario delle lezioni, si rimanda a:
Sito del Master;
- Direzione del Master presso Università di Roma Sapienza, Dipartimento di Scienze Politiche, Piano 3, Stanza 6, Tel. (+39) 06 49910536, E-mail info@mastergeopoliticaesicurezza.it.
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mercoledì 14 gennaio 2015

L'annco che verrà sarà come quello che è finito

Accadde Domani
Il 2015 tra guerre, crisi, voti e sfida climatica
Adriano Metz
06/01/2015
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Sul calendario del 2015, le bandierine degli impegni internazionali a priori di primaria importanza sono rare: guerre che continuano, nessun appuntamento elettorale da svolta nelle Grandi Potenze; Vertici sulla carta di routine, G20 - ad Antalya in Turchia, a novembre - e G8 - a Elmau in Germania, il 7 giugno -, Ue - tutti a Bruxelles, il primo a metà febbraio sul ‘piano Juncker’- e Apec - a Manila, in novembre - ed altri; manco le Olimpiadi o i Mondiali.

Un anno senza colonna dorsale e senza emozioni? Ci penserà la cronaca di certo, a darci i brividi; ed è invece il clima a fornire una ‘stella polare’ alla diplomazia mondiale nei prossimi 12 mesi, verso l’appuntamento planetario di Parigi a fine novembre.

Il 2014 ci lascia in eredità “un sistema politico internazionale scosso da una serie di crisi, nessuna delle quali ha ancora trovato una soluzione e le ricadute delle quali peseranno sull’avvenire”: vale per la sfida integralista dell’autoproclamatosi “stato islamico” (Is), e per il confronto tra Russia e Ucraina che coinvolge Stati Uniti e Unione europea, Ue, in una sorta di nuova Guerra Fredda.

Banco di prova per gli euroscettici
Gli appuntamenti elettorali più gradi di potenziali conseguenze sono dentro l’Ue, in Grecia subito, poi in Gran Bretagna a primavera e in Spagna in autunno, tre Paesi dove i partiti euro-scettici, pur d’ispirazione diversa, rischiano di fare il botto, da Syriza all’Ukip a Podemos, senza trascurare numerose consultazioni di vario tipo in Svezia, Polonia e altrove.

La guerra al terrorismo, una costante del XXI Secolo dopo l’attacco agli Stati Uniti dell’11 Settembre 2001, continuerà in Afghanistan, in Iraq, contro l’Is, intrecciandosi col persistente conflitto tra israeliani e palestinesi e con gli sviluppi spesso cruenti delle primavere arabe tra Siria e Libia.

Certo, ci sono poi le crisi che si risolvono quando te le sei quasi dimenticate, da tanto durano, com’è stato per il disgelo tra Usa e Cuba; oppure le crisi che maturano lentamente una soluzione, come quella con l’Iran. Il presidente Usa Barack Obama non esclude per il 2015, e comunque entro la fine del suo mandato, la riapertura dell'ambasciata in Iran.

Il Clima di Parigi
Il Vertice di Parigi di dicembre è l’occasione oggi presentata come “decisiva” per un’intesa globale contro i cambiamenti climatici, con l’obiettivo di limitare a due gradi centigradi massimo il riscaldamento atmosferico: una sfida universale che richiede una risposta planetaria.

Le grandi manovre per quella scadenza sono già cominciate. A novembre c’è stata un’intesa tra Usa e Cina, i due più grandi inquinatori; e, a dicembre in occasione della Conferenza di Lima è stato definito un calendario di decisioni e azioni verso l’incontro di Parigi.

L’Ue, da sempre battistrada mondiale sul fronte della lotta all’inquinamento, rispetto alle esitazioni Usa e alle reticenze cinesi e dei Paesi emergenti, ha confezionato a sua volta un pacchetto negoziale, per la riduzione delle emissioni e la promozione delle fonti d’energia rinnovabili.

Tutti elementi, sulla carta, positivi, pur se scienziati e ambientalisti li giudicano spesso inadeguati; e che comunque non bastano a garantire il successo del Vertice di Parigi, tanto più che la strada del ‘dopo Kyoto’ è seminata di incontri fallimentari.

Afghanistan, da Enduring Freedom a Resolute Support
Oltre 13 anni dopo l'inizio della guerra (7 ottobre 2001), la più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti, il 31 dicembre è finita la missione di combattimento in Afghanistan dell’Isaf, l’International Security Assistance Force Nato.

Finita l'operazione 'Enduring Freedom', è iniziata 'Resolute Support': per i circa 9.800 soldati Usa che resteranno sul territorio afghano, cambia poco. Il ‘comandante in capo’ li ha infatti autorizzati a missioni di combattimento, almeno per un altro anno, nel tentativo di evitare l’errore commesso con il ritiro dall’Iraq. La Nato, con meno di 3mila uomini, farà invece solo addestramento.

Califfato e dossier israelo-palestinese
La lotta contro l’autoproclamatosi “Califfato” proseguirà anche 2015 con l’obiettivo di contenere l’avanzata degli integralisti ed evitare il contagio - già esteso allo Yemen e in Libia, in Nigeria e nel Corno d’Africa. I jihadisti accendono focolai di terrorismo in Occidente: ‘lupi solitari’ hanno già colpito in America, in Europa e in Australia; e continueranno a farlo.

Per Obama, gli Stati Uniti e la coalizione da loro guidata stanno realizzando progressi “lenti ma decisivi”, nonostante il coinvolgimento nel conflitto resti limitato a raid aerei e bombardamenti. L’invio di truppe sul terreno resta al momento escluso, nonostante i vertici militari abbiano già chiarito che l’impiego della sola aviazione non può garantire una vittoria.

Se la guerra al terrorismo continuerà nel 2015, non c’è prospettiva che scoppi la pace tra israeliani e palestinesi. L’ultimo smacco all’Onu per le aspirazioni palestinesi lascia la situazione in stallo e rischia di acuire i contrasti nei Territori e nella Striscia di Gaza tra moderati ed estremisti, mentre la scadenza elettorale del 17 marzo in Israele paralizza i negoziati e impedisce concessioni.

Russia-Ucraina e nuova Guerra Fredda
L’anatra zoppa entra, a sorpresa, nel 2015 volando come un germano reale. E lo zar padrone di tutte le Russie, e pure d’un pezzo d’Ucraina, ci entra con il morale d’un mugiko: politica ed economia gli girano male. Barack Obama e Vladimir Putin, protagonisti assoluti dell’attualità internazionale, sembrano essersi scambiati i ruoli, sulla soglia del nuovo anno.

C’è l’impressione che la nuova Guerra Fredda tra Russia e Occidente, innescata dalla crisi ucraina, faccia bene all’economia Usa, che cresce come mai nell’ultimo decennio, e, per contro, colpisca quella russa, danneggiata dalle sanzioni di Usa ed Ue, ma soprattutto frenata dalla guerra dei prezzi del petrolio scatenata - magari per conto di Washington - dall’Arabia Saudita e da altri Paesi Opec, che tengono alta la produzione nonostante la domanda sia bassa. Conseguenza: prezzi giù; e rublo giù.

Il presidente russo, che da circa un anno e mezzo, dalla crisi siriana dell’estate 2013, aveva in mano il pallino della politica internazionale, non sa come contrastare la crisi economica: battendo sul tasto del nazionalismo, esclude marce indietro sull’Ucraina e, tanto meno, sulla Crimea, la cui annessione è illusorio considerare reversibile.

Spingere la Russia nell’angolo, e alimentare l’ipotesi di un’adesione dell’Ucraina alla Nato, significa allontanare la soluzione della crisi ucraina, che va invece cercata con negoziati tra le parti, senza esasperare i contrasti tra gli ‘europei’ di Kiev e i ‘russi’ dell’Est del Paese. E significa pure incoraggiare nuovi assi d’antico sapore sulla scena internazionale, come l’avvicinamento tra Mosca e Pechino, che da energetico può diventare economico e politico.

Unione europea, la grande assente 
Tra Russia e Ucraina, il ruolo di mediazione dovrebbe essere svolto dall’Ue, che esce da un anno di transizione, con il rinnovo di tutti i suoi Vertici istituzionali e dell’apparato legislativo. L’Ue, però, inizia il 2015 con l’handicap del riacutizzarsi della crisi greca.

Le incertezze greche s’intersecano con l’impostazione e l’avvio del ‘piano Juncker’, un programma d’investimenti che dovrebbe rilanciare la crescita e l’occupazione e i cui effetti restano al momento ipotetici. Il disegno dell’integrazione resta in panne, nonostante alcuni progressi, come l’allargamento, il 1° gennaio, dell’area euro - vi entra la Lituania, 19° stato della moneta unica - e come il completamento dell’Unione bancaria.

A rendere concreta la speranza d’un’Europa mediatrice tra Russia e Ucraina non contribuiscono né gli interessi energetici dei 28, fortemente diversificati, né la successione delle presidenze di turno semestrali del Consiglio dell’Ue: dopo l’Italia, tocca alla Lettonia - all’esordio nel ruolo e per di più il Paese dell’Unione più anti-russo. Spazio dunque all’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza europea, Federica Mogherini: un’occasione per mostrare che le riserve sulla sua scelta erano infondate.

Adriano Metz è giornalista freelance.  

  ACCADDE DOMANI, L’AGENDA 2015

1° gennaio - La Lettonia prende la presidenza di turno semestrale del Consiglio dell’Ue; la Lituania entra nell’euro e diventa il 19° Stato della Zona Euro.

9/31 gennaio e 17 gennaio/8 febbraio - Calcio, rispettivamente Coppa d’Asia e d’Africa, la prima in Australia, la seconda in Guinea equatoriale: hanno significanze politiche perché alla prima partecipa per la prima volta la Palestina, mentre la seconda è stata spostata dal Marocco per l’emergenza ebola.

25 gennaio - Grecia, elezioni politiche anticipate.

Marzo - Egitto, elezioni politiche.

17 marzo - Israele, elezioni politiche anticipate

Aprile - Panama, Vertice delle Americhe, possibile incontro tra Barack Obama e Raul Castro

7 Maggio - Gran Bretagna, elezioni politiche

8 Maggio - Seconda Guerra Mondiale, 70° anniversario resa Germania - a seguire, il 6 e 9 agosto 70° anniversario della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki e il 15 della resa del Giappone e della fine del conflitto

30 Giugno - Iran, scadenza fissata per i negoziati sul programma nucleare con il ‘5 + 1’

1° Luglio - Ue, il Lussemburgo assume la presidenza di turno semestrale del Consiglio dell’Ue

22-27 Settembre - Onu/Usa, viaggio del Papa, in occasione dell’Incontro Mondiale delle Famiglie a Filadelfia. Francesco potrebbe parlare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite e visitare pure una porzione del muro di divisione tra Usa e Messico

19 Ottobre - Canada, elezioni politiche

Novembre - Spagna, elezioni politiche

30 Novembre / 11 Dicembre - Parigi, 21° conferenza degli Stati contraenti (195) sul clima
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Cuba e Stati Uniti: il Vaticano protagonista della storica svolta

Ripresa del dialogo Stati Uniti-Cuba
Vaticano, apostolo del disgelo 
Aldo Maria Valli
18/12/2014
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Sicuramente è stato un bel regalo di compleanno per Papa Francesco.

La svolta nelle relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti è anche il frutto di un lavoro diplomatico che la Santa Sede ha svolto in silenzio, ma con grande determinazione, sia con i messaggi di Francesco tanto al presidente statunitense Barack Obama che al suo omonimo cubano Raul Castro, sia ospitando incontri tra le parti in Vaticano, avvenuti soprattutto l’autunno scorso, lontano da occhi indiscreti, mentre tutti i riflettori dei mass media erano puntati sul sinodo dei vescovi dedicato alla famiglia.

Diplomazia vaticana
Duplice l’obiettivo della Santa Sede: da un lato umanitario, per dare un contributo al miglioramento della qualità di vita del popolo cubano, dall’altro geopolitico, per risolvere e superare una grave situazione di tensione.

Voltare pagina, non restare prigionieri del passato: questo l’imperativo, secondo una linea già chiara durante il pontificato di Giovanni Paolo II, che nel 1998 fu il primo papa a visitare a Cuba dopo la rivoluzione, e di Benedetto XVI, che visitò l’isola nel 2012, chiedendo tra le altre cose la liberazione di Alan Gross, contractor dell’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid). Dopo cinque anni di prigionia a Cuba, Gross è tornato ieri in libertà.

Poker negoziale
In questo lavoro papa Francesco ha potuto usufruire dell’appoggio decisivo di cinque persone che conoscono molto bene la realtà cubana. La prima è il segretario di stato monsignor Pietro Parolin, già nunzio in Venezuela, esperto di relazioni con Cuba (che ha ricevuto nei giorni scorsi il suo omologo statunitense, John Kerry, proprio per uno scambio di informazioni sugli ultimi dettagli della svolta).

La seconda persona perno della diplomazia vaticana è il cardinale Beniamino Stella che oggi ha un incarico nella curia romana, ma che in passato è stato nunzio a Cuba. Stella è un consigliere molto ascoltato da Francesco.

Decisivi anche monsignor Angelo Becciu, sostituto alla segreteria di Stato, nunzio a Cuba durante il pontificato di Benedetto XVI e organizzatore della visita di papa Ratzinger nel 2012 e l’arcivescovo dell’Avana, il cardinale Jaime Lucas Ortega y Alamino, amico di Bergoglio, uno dei grandi elettori del Papa argentino e suo amico stimato.

Fu proprio quest’ultimo a rendere noto al mondo il discorso tenuto da Bergoglio durante le congregazioni prima del conclave, discorso che di fatto aprì all’arcivescovo di Buenos Aires le porte del pontificato.

Non si può poi dimenticare il ruolo giocato dall’attuale nunzio a Cuba, il vescovo Bruno Munafò che anche di recente non ha esitato a denunciare le condizioni di povertà in cui vivono tanti cubani e a ribadire che la Chiesa vuole essere dalla parte dei più svantaggiati, a difesa della dignità umana.

“Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba”
Francesco, come già Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ha raccolto il grido di dolore della popolazione. L’obiettivo è la fine dell’embargo commerciale, ma non c’è solo questo.

All’insegna dello slogan che Wojtyla lanciò nel 1998, quando incontrò Fidel Castro (“Che Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba”), la Santa Sede ritiene che sia di fondamentale importanza accompagnare il graduale processo verso la libertà e la fine dell’isolamento.

Cuba può diventare una sorta di laboratorio politico, economico e sociale, di grande rilevanza anche per altri paesi, nel quale sperimentare modelli nuovi.

E da questo punto di vista Francesco ha le idee chiare. Aprirsi va bene, ma il “dio denaro” non deve diventare il protagonista assoluto e l’identità popolare non va in alcun modo mortificata. Ecco perché nella nuova realtà la Chiesa cattolica è intenzionata a giocare un ruolo per niente marginale, specie formando le nuove generazioni.

Aldo Maria Valli è vaticanista di Rai1.
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martedì 13 gennaio 2015

Francia: attentato alla libertà. Di tutti

Attentato alla redazione di Charlie Hebdo
Da sempre dalla parte della libertà di ridere
Azzurra Meringolo
09/01/2015
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Sopra un titolo secco “Le previsioni del mago Houellebecq”. Sotto la caricatura di un Michel Houllebecq goffo e gonfio. È questa la copertina con la quale è andato in edicola Charlie Hebdo alla vigilia del tragico attentato che ha preso di mira la sua redazione parigina, provocando la morte di 12 persone tra le quali il direttore del settimanale.

La celebre rivista di satira politica ha puntato i riflettori sull’autore del chiacchieratissimo Sottomissione, il romanzo che descrive una Francia immaginaria - ma non troppo lontana - guidata da un presidente musulmano. È per questo che nella copertina dell’Hebdo, Houellebecq pensa al giorno in cui - tra meno di dieci anni - sarà costretto a fare Ramadan.

Nella memoria dei francesi, Houellebecq è l’uomo che nel 2001 definì l’Islam la religione più stupida, scatenando un dibattito che alimenta da anni quelle pericolose scintille che hanno contribuito ad appiccare l’incendio di ieri.

Da Charlie Hebdo a Sharia Hebdo
La provocazione è del resto nel dna di Charlie Hebdo, settimanale che sin dalla sua nascita ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso.

La sua missione è chiara: difendere a spada tratta tutte le libertà individuali. Gli strumenti di cui si serve sono sempre gli stessi: vignette e illustrazioni politicamente scorretti, conditi da articoli incentrati su politica, cultura e religione.

Prima ancora di creare zizzania tra Islam e Occidente, Charlie Hebdo - all’epoca ancora una testata legata al mensile Hara-Kiri - fu al centro delle polemiche sorte all’indomani dei funerali di Charles de Gaulle. La copertina del numero uscito dopo la morte del presidente titolava: “Ballo tragico a Colombey, un morto”, un riferimento alla residenza del generale che spinse il Ministero dell’interno francese a bloccare la pubblicazione.

Oltre le Alpi si fece conoscere soprattutto nel 2006, quando pubblicò una serie di caricature del profeta Maometto, già diffuse dal quotidiano danese Jyllands-Posten. Quelle vignette - riprese anche da una maglietta indossata dell’allora ministro Roberto Calderoli che mostrandola creò scontri mortali in Libia - fece vendere al giornale più di 400 mila copie. Una cifra da record pagata però a caro prezzo.

Diverse organizzazioni musulmane francesi chiesero invano il ritiro della rivista la cui sede venne totalmente distrutta da un incendio doloso nel 2011. I disegnatori non smussarono però la punta della loro matita, anzi pubblicarono un numero speciale denominato “Sharia Hebdo”, preso presto di mira da diversi hacker integralisti.

Neanche allora i vignettisti di Charlie Hebdo rinunciarono al loro modo di comunicare: spogliare le immagini fino al loro significato essenziale, esaltandolo all’ennesima potenza. La realizzazione di una vignetta può essere infatti considerata una forma di amplificazione mediante semplificazione, poiché quando si astrae un’immagine per trasformarla in queste forme, più che eliminare i dettagli ci si concentra su alcuni di essi in modo specifico.

Nel 1999, autori come Scott McLeod mostravano come la capacità di concentrare l’attenzione del fruitore su di un’idea è una parte importante del potere comunicativo delle vignette. Quelle di satira politica finiscono poi per diventare barzellette raccontate tramite un’immagine.

È anche per questo che sono seguitissime dal pubblico arabo. Come spiega Paolo Branca in Il sorriso della Mezzaluna, (Carocci, 2011), gli arabi sono figli di un’antica civiltà centrata sulla parola con la quale amano giocare e divertirsi.

Anche dopo l’avvento dell’Islam, i vicari del Profeta, i califfi, non furono risparmiati da aneddoti a loro riguardo. Del resto ancora oggi, per mandare qualcuno a quel paese, un arabo gli augura “che la tua religione vada all’inferno”. Tutti dunque tiriamo giù i santi dal paradiso. I problemi nascono quando qualcuno si permette di farlo con i santi altrui, innescando vere o presunte provocazioni che sfociano in crisi più o meno intense.

Da Salman Rushdie a Theo Van Gogh
La querelle più clamorosa è quella sorta negli anni ’90 attorno al romanzo Versi Satanici di Salman Rushdie, testo nel quale Maometto, le sue mogli e i suoi compagni sono rappresentati, pur sotto pseudonimi, con tratti grotteschi. Offesi e sdegnati, molti musulmani reagirono spropositatamente.

In una fatwa, l’imam iraniano Khomeini definì Rushdie reo di morte, esortando tutti i musulmani a eseguire la sentenza da lui emessa. Un altro evento che ha scosso le coscienze è stato, nel 2004, l’assassinio dell’olandese Theo Van Gogh, regista di Submission, un film denuncia dello stato di sottomissione vissuto da diverse donne musulmane. La pellicola mostra una donna nuda con versetti del Corano stampati sul corpo mentre racconta i soprusi da questa subiti. Immagini femminili impressionanti che non possono giustificare però lo sgozzamento di un cineasta.

Solo pochi mesi dopo scoppia il caso delle vignette raffiguranti Maometto pubblicate dal Jylland Posten e riprese da Charlie Hebdo. Le immagini, inquisite perché violano il divieto di rappresentare il Profeta, accendono una serie di focolai visibili in Iran, Libia, Pakistan, Siria e diversi paesi musulmani. L’affaire finisce a volte per essere strumentalizzato e utilizzato come un catalizzatore di un ben più ampi malcontenti popolari.

L’ultimo brutale attentato alla redazione di Charlie Hebdo s’inserisce in questa sequenza di affaire che mostrano che a volte “ne uccide più la lingua che la spada”. Per evitare che la serie continui è essenziale che le istituzioni musulmane condannino le reazioni sproporzionate dell’opinione pubblica che rischiano di condurre vortici più pericolosi. Del resto, l’umorismo e il ricorso alla satira sono valori universali già presenti nella più antica cultura araba.

Epitaffio di Charbonnier
Osservando le ultime vignette di Stephane Charbonnier, il direttore di Charlie Hebdo, sembra che l’uomo sapesse che questa sequenza non sarebbe arrivata in fretta alla fine. Charb, come si firmava il direttore, si aspettava altri attacchi.

Negli ultimi tempi, le edicole che distribuivano il settimanale venivano disegnate come dei fortini presidiati da sacchi di sabbia e filo spinato. Charbonnier stesso si ritraeva come un kamikaze della libertà di stampa che indossava una cintura esplosiva. Al posto dei candelotti vi erano però le copie della sua rivista. Le armi della satira del suo giornale erano inchiostro e bianchetto. Strumenti ben diversi dall’accendino e la benzina utilizzati da quanti attaccavano l’Hebdo.

Il suo epitaffio Charb sembrava averlo scritto nell’editoriale pubblicato il 15 ottobre 2012. Dopo l’attacco subito a causa della pubblicazione di altre vignette che ritraevano Maometto, il direttore aveva preso carta e penna per ribadire la libertà di espressione, la sua libertà di ridere per qualsiasi cosa.

“Dipingi un Maometto glorioso, e muori. Disegna un Maometto divertente, e muori. Scarabocchia un Maometto ignobile, e muori. Gira un film di merda su Maometto, e muori. Resisti al terrorismo religioso, e muori. Lecca il culo agli integralisti, e muori. Prendi un oscurantista per un coglione, e muori. Cerca di discutere con un oscurantista, e muori. Non c’è niente da negoziare con i fascisti. La libertà di ridere senza alcun ritegno la legge ce la dà già, la violenza sistematica degli estremisti ce la rinnova. Grazie, banda di imbecilli”.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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Francia: matite contro fucili

Attacco alla redazione di Charlie Hebdo
Charlie Hebdo e i delitti di opinione
Stefano Silvestri
09/01/2015
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Da un lato il vile attentato omicida alla redazione di Charlie Hebdo, che 
riempie gli schermi televisivi e le pagine dei giornali, come è giusto. 
Dall'altro la ben più modesta notizia che dovrebbe iniziare in queste ore il 
supplizio di Raif Badawi, blogger libertario saudita condannato a 1000 colpi di frusta, 
10 anni di prigione e 270.000 dollari di multa, per aver apparentemente 
insultato l'Islam nella sua versione saudita.

Egli aveva scritto, tra l'altro, che il suo impegno era quello 
di "respingere ogni repressione (condotta) in nome della religione ... un obiettivo che
raggiungeremo per via pacifica e nel rispetto delle leggi" .

Delitti di opinione: Charlie Hebdo era l'epitome di questa lunga storia, tanto più
 provocatorio perché ironico e dissacrante. Più volte condannato e messo all'indice,
 sempre sull'orlo del fallimento economico e della chiusura, non accettava le regole 
del buon gusto né quelle del rispetto delle altrui convinzioni religiose o morali: 
tutto poteva essere detto o disegnato nelle forme della denuncia e della satira.

Giornale scomodo dunque, ma allo stesso tempo espressione del grado di maturazione
 di una società che ammette l'altro e le sue critiche, sia pure, a volte, a fatica.

Dall'altra parte c'è la chiusura ideologica e settaria, in nome di un'ortodossia che 
non accetta varianti e che si irrigidisce su tutto, che si tratti di opinioni libertarie o
 delle donne al volante, confondendo la propria forza con la propria rigidezza.

La crisi che stiamo vivendo non è un conflitto di civiltà, né tanto meno tra religioni, 
né una guerra classica, ma ha la natura di un nuovo importante scontro tra sistemi 
totalitari e sistemi democratici, con la differenza, rispetto al passato, che questa volta i
 totalitarismi non sono basati in Europa e si nascondono dietro interpretazioni di comodo 
di un credo religioso.

Le crisi che stanno sconquassando il Medio Oriente, mettendo in dubbio la sopravvivenza 
degli stati arabi, sono il campo di battaglia e il centro di questo scontro.

Gli attacchi terroristici in Europa sono gli strascichi esterni di quelle crisi e mirano, nelle
 intenzioni degli ispiratori ideologici e politici di questa manovalanza feroce, a spingere gli
 europei, e in genere ogni altra potenza esterna a quella regione, ad allontanarsi dalla battaglia, 
rendendo fragile così ulteriormente la situazione.

È grave che purtroppo alcuni degli alleati nella lotta a questo terrorismo siano anche responsabili
 dell'irrigidimento ideologico e del totalitarismo politico che alimenta queste crisi, perché ciò rende
 infinitamente più difficile impedire il peggio.

Ma sarebbe anche più grave se le potenze esterne non islamiche si allontanassero dalla regione o
 peggio, cadessero nella trappola dello scontro di civiltà, aiutando così i nostri peggiori nemici a legittimarsi.

Abbiamo di fronte un percorso reso difficile da troppi errori commessi in passato e dalle molte 
incertezze e ambiguità del presente, ma la lotta al terrorismo deve essere resa più forte dalla strage
 di Charlie Hebdo e deve difendere anche i diritti civili di Raif Badawi e di tanti altri presenti in tutto 
il mondo arabo e islamico. Le armi e le idee non possono essere disgiunte.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
 
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venerdì 9 gennaio 2015

Master in Geopolitica e Sicurezza Globale




Sono aperte le iscrizioni all’edizione 2015 del Master in Geopolitica e Sicurezza Globale dell’Università Sapienza di Roma, diretto dal Prof. Paolo Sellari e realizzato in collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), il Circolo Studi Diplomatici (CSD) e l’Associazione Italiana Responsabili Antiriciclaggio (AIRA). 

Giunto alla XIII edizione, il Master è ormai un punto di riferimento a livello nazionale per la formazione post-laurea in geopolitica; e riceve, per il secondo anno, ...

Per Ulteriori dettagli
 www.studentiecultori.blogspot.com

oppure contattare
geografia2013@libero.it
(massimo coltrinari)

giovedì 8 gennaio 2015

Petrolio: prezzi troppo bassi?

Calo del prezzo del petrolio
I guardiani di 2 moschee e di milioni di barili 
Stefano Silvestri
13/12/2014
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Per primo viene il mercato. Non si sa bene perché, malgrado la crisi in Libia, la guerra in Iraq e in Siria, i conflitti in Yemen e lo scontro tra Russia e Ucraina, i prezzi del petrolio rimangano così bassi, quasi la metà di quelli cui eravamo abituati (e cioè tra 50 e 70 dollari al barile, invece che tra 100 e 120).

Arabia Saudita non taglia la produzione
Certo la domanda è depressa a causa della crisi economica e della maggiore efficienza energetica delle industrie europee e giapponesi, ma la ragione principale è che l’offerta non cala, perché l’Arabia Saudita ha deciso di non tagliare la produzione.

Perché non l’ha fatto? Qui cominciano le speculazioni, particolarmente care a tutti quelli che “leggono” la politica internazionale con paraocchi complottistici.

Per cui è bene ribadire che la prima ragione evidente è anche la più semplice, ed è sufficiente: perché diminuire l’export, facendo aumentare i prezzi, non avrebbe portato più soldi alle casse di Riyadh, ma avrebbe fatto perdere ai sauditi importanti fette di mercato, senza alcuna certezza di poterle recuperare, una volta finita questa fase.

In altri termini, i sauditi avrebbero dovuto sacrificarsi per il bene degli altri esportatori, senza ottenere nulla in cambio.

Certo, in passato, questo è avvenuto, ma erano gli anni in cui i grandi paesi arabi ancora credevano alla prospettiva dell’unità araba e in cui i sauditi erano garantiti dalla alleanza con i leader al potere al Cairo, a Damasco e a Baghdad. Ora tutto questo è finito.

Abbiamo invece la crescita dell’Iran come potenza regionale in Iraq, in Siria, in Libano, tra i palestinesi, nel Golfo, in Yemen e persino in Libia e vi è il tentativo di importanti correnti dell’Islam sunnita, in particolare di quelle che si rifanno al partito dei Fratelli Musulmani, finanziate da altri paesi esportatori di gas e di petrolio, di sfidare l’ortodossia saudita attraverso nuove forme di islamismo fondamentalista e jihadista.

Perché garantire loro maggiori risorse economiche? Non è forse opportuno ricordare loro chi ha ancora saldamente in mano le chiavi del forziere?

Ridimensionando la rivoluzione dello shale gas 
Due altri vantaggi aggiuntivi addolciscono questa decisione. Il primo, con un prezzo del barile che oscilla attorno a 60 dollari, la produzione di petrolio e gas dagli scisti bituminosi, che farebbe dell’America del Nord il primo produttore mondiale di questi beni, è al limite più basso della convenienza e ciò potrebbe rallentare di molto gli investimenti, allontanando nel tempo la duplice prospettiva di un nuovo concorrente e della fine della dipendenza americana dall’energia del Golfo.

In un momento così delicato per gli equilibri regionali e così incerto per quel che riguarda gli orientamenti della politica statunitense, queste sono, dal punto di vista saudita, buone notizie. Né gli statunitensi vedono tutto ciò con grande sfavore, visto che comunque mantengono le loro riserve di petrolio e di gas e che nel frattempo la minore circolazione del biglietto verde aiuta al rafforzamento del dollaro rispetto alle altre monete.

Crisi economica russa
E infine anche perché gli Usa condividono con i sauditi la soddisfazione per le conseguenze che un basso prezzo del barile ha sulla Russia. Infatti il calo del prezzo aggrava la crisi economica russa, facendo così pagare a Vladimir Putin la sua difesa del governo di Bashar el-Assad in Siria e i suoi buoni rapporti con l’Iran.

Naturalmente i calcoli possono cambiare, anche molto rapidamente. Molte nubi si stanno addensando sui negoziati 5+1, con l’Iran. Il loro fallimento definitivo potrebbe portarci sull’orlo di una guerra regionale, e forse oltre.

Altrettanto grave e destabilizzante, anche se apparentemente meno probabile, potrebbe essere una grave crisi politica interna saudita. Sono scenari di conflitto che paralizzerebbero il Golfo e potrebbero facilmente far schizzare il pezzo del barile sino a vette inesplorate.

Se invece escludiamo scenari così drammatici, è probabile che i prezzi subiranno un lento rialzo, seguendo il ritmo della ripresa economica e quindi anche della domanda.

Ma se così fosse, e il prezzo del petrolio si dimostrasse impervio alle crisi politiche e militari (a meno che non siano disastrose), la logica stessa dell’impegno occidentale in Medio Oriente e in Nord Africa potrebbe essere destinata a mutare: l’interesse spasmodico a mantenere la stabilità per la stabilità e ad evitare ogni mutamento politico, non sarebbe più giustificato.

Dopo le primavere arabe, i paesi europei e gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a individuare un nuovo progetto di lungo termine, una strategia, impauriti dalle conseguenze di alcune delle scelte fatte e dall’emergere del fanatismo religioso.

La politica petrolifera dell’Arabia Saudita ci assicura un largo spazio per nuove scelte e nuove iniziative, allontanando l’emergenza.

Ringraziamo dunque Riyadh e cerchiamo di non sprecare l’occasione.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
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