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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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venerdì 31 luglio 2015

Europa: errori madornali e cambi di rotta

Unione europea
Il nodo è politico, anzi di politica istituzionale
Fulvio Attinà
21/07/2015
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A sentir molti anche altolocati, i guai dell’Unione europea (Ue) risalgono alla crisi economica mondiale e alle risposte sbagliate che i governi e le istituzioni europee hanno dato.

Sarà vero. Ma, domandiamoci, poteva andare diversamente? Temo di no e concordo di più con quelli che dicono che la crisi dell’Unione, più che economica e finanziaria, è politica. Anzi, preciso, è politica perché col trattato di Lisbona i governi hanno commesso un errore di politica istituzionale madornale: hanno fatto del Consiglio europeo un’istituzione dell’Unione e gli hanno attribuito la posizione apicale.

Errori madornali e cambi di strada
Intendiamoci, non era prevedibile. A Lisbona è giunto a compimento un processo iniziato quasi 50 anni fa con il compromesso di Lussemburgo. I governi dell’allora Comunità economica europea concordarono una revisione dell’impianto istituzionale per spostare il vertice del sistema dalla Commissione ai governi.

Ci hanno messo tanto tempo per portare a termine il loro progetto perché qualcuno ha remato contro. Primo fra tutti, Jacques Delors che negli ultimi anni Ottanta ha guidato la strategia del mercato unico e avviato quel processo di riforma politica ed istituzionale che ha consentito di passare dalla Comunità all’Unione e di firmare i trattati di Maastricht e di Amsterdam che hanno iniziato a ridurre quello che chiamavamo deficit democratico ed era un sistema istituzionale di governo scorretto.

Dopo Maastricht e Amsterdam, però, l’Ue ha cambiato strada. Dicono alcuni perché il processo di integrazione non teneva e non tiene conto degli Stati nazionali. Forse è vero ma è anche vero che gli stati nazionali e i loro leader devono tener conto di condizioni che impongono cambiamenti. Se non lo fanno, mal gliene incoglie!

Di questo erano e sono consapevoli coloro che la pensano come la pensava Jacques Delors. Fatto è che le scelte istituzionali operate dai trattati di Nizza e specialmente di Lisbona, esagerando il significato del no alla Costituzione europea, hanno aperto quel processo di perdita di legittimità e di efficacia politica dell’Unione di fronte al quale oggi ci troviamo.

Quelle scelte, infatti, hanno spento il dualismo Commissione-Consiglio, hanno manipolato la parlamentarizzazione dell’Unione svuotando, fra l’altro, del suo significato strategico la designazione parlamentare del presidente della Commissione e, ecco l’errore madornale, hanno messo tutto il potere di produzione politica dell’Unione nel Consiglio europeo.

In questo modo, l’Ue è diventata un’organizzazione internazionale molto avanzata, certo, ma subordinata alla diplomazia e soprattutto agli interessi elettorali dei governi.

Tutto il potere al Consiglio europeo
Da quando il Consiglio europeo è diventato istituzione apicale, le decisioni fondamentali sui problemi di oggi e sui programmi futuri sono fatte nei negoziati dei capi di governo. I margini di decisionalità della Commissione e del Parlamento esistono ma sono poca cosa.

La Commissione esegue ciò che le conclusioni di ogni riunione del Consiglio indicano. Poco importa che la Commissione sia libera di elaborare studi e progetti, a quelle conclusioni deve attenersi.

Il Parlamento segue in buon ordine salvo qualche sprazzo più correttivo che antagonista delle decisioni del Consiglio: la dinamica tra Parlamento rappresentante del popolo e Consiglio (dei Ministri, ma la differenza dal Consiglio europeo è solo di nome) rappresentante degli Stati è scomparsa o quasi.

In sostanza, questa Ue ha un sistema politico-istituzionale fatto apposta per l’onda populista dei nostri tempi e, a sua volta, la alimenta. Basta sentire i discorsi di Cameron, Renzi, Merkel, Hollande ed altri capi di governo. Sono diversi l’uno dall’altro quanto ad approccio verso l’Ue, eppure dicono tutti la stessa cosa: “Il mio popolo ha meriti; questa Unione deve riconoscere i meriti del mio popolo; io non posso accettare politiche europee che sacrificano gli interessi del mio popolo meritevole”.

Che ci sia la crisi economica o altro non conta poi tanto. Conta il fatto istituzionale che è stato messo in piedi indipendentemente dalla crisi economica. La ragione è semplice. Se i governi decidono insieme le politiche europee, come si può trascurare che ogni governo in Consiglio guarda al suo interesse di vincere le prossime elezioni nazionali? Come meravigliarsi, insomma, che la produzione politica del Consiglio sia vincolata da questa aspettativa che accomuna tutti i suoi membri?

Un esempio recente: l’Unione deve dare risposta al problema di migranti in fuga da guerre, persecuzioni e povertà; è un problema che interessa tutti; la Commissione redige un piano di quote per distribuire almeno i richiedenti asilo; sa di poter contare sul sostegno di qualche governo, ma dimentica che la rielezione dei governi in Consiglio è a rischio se quella proposta passa; il Consiglio non produce alcuna politica.

Il minimo comun denominatore consiste nel confermare l’esistente, cioè il controllo delle frontiere, il respingimento dei migranti illegali, il vigente e contestato trattamento di Dublino per i richiedenti asilo.

Da un sistema evirato al balzo in avanti
C’è chi continua a dire che l’Ue è un sistema intergovernativo controbilanciato da Commissione e Parlamento. Ma col sistema istituzionale di Lisbona la Commissione è stata evirata e non possiamo trascurare che ormai l’aspettativa di rielezione della maggioranza dei deputati europei si lega a quella del proprio governo.

La maggioranza dei parlamentari europei non può che stare ‘in cordata’ con il premier del suo Stato in Consiglio: anch’essi saranno rieletti se gli elettori riconoscono di essere restati protetti a Bruxelles. Il luogo comune che davanti agli elettori i politici si salvano scaricando le colpe su Bruxelles non tiene più nel sistema istituzionale di Lisbona.

La via d’uscita sarebbe, come si suole dire, un balzo in avanti. Non nascondiamocelo, la via d’uscita è federale: è un esecutivo europeo, con piena competenza su alcune politiche, la cui elezione e rielezione dipendono da un unico corpo elettorale europeo. Questo succede in tutte le democrazie.

Chi vuole il potere esecutivo fa un programma per vincere le elezioni e, se le vince, attua un insieme di politiche che tiene conto degli interessi e delle attese di tutti i suoi possibili elettori. Un esecutivo come il Consiglio europeo che governa in funzione della rielezione dei suoi 28 membri da parte di 28 elettorati diversi non può avere la stessa performance del precedente. La sua ricerca del minimo comune denominatore tra le 28 posizioni darà una scarsa produzione politica. I fatti lo dimostrano.

Per fare il balzo in avanti e cominciare a uscire dal madornale errore istituzionale, allora, bisogna fare un passo indietro, cancellare Lisbona e riaprire il cambiamento istituzionale disegnato a Maastricht e Amsterdam.

Non scommetterei sulla fattibilità di questo cambiamento nel breve termine. C’è un serio problema: le elezioni le fanno i partiti e i partiti europei ancora non ci sono. Pressioni ambientali interne ed internazionali, tuttavia, potrebbero renderlo possibile.

L’integrazione europea, comunque, non è in pericolo. Tutti si rendono conto che in Europa c’è bisogno di coordinare le politiche degli Stati ma l’efficacia politica dell’Unione non può tornare a crescere se non si rimette mano alle riforme istituzionali senza fare errori.

Fulvio Attinà è professore di scienza politica e relazioni internazionali e Jean Monnet Chair Ad Personam nell’Università di Catania.
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giovedì 30 luglio 2015

L'Italia e la terza via in Europa

Ue, Grecia, Italia
L’Europa ha bisogno d’una Terza Via
Eleonora Poli, Maximilian Stern
16/07/2015
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La posizione italiana sul recente referendum greco è stata altalenante. Prima del voto, il premier Renzi s’è pubblicamente dichiarato a favore del sì, come numerosi altri leader dell’eurozona, anche se, a giudizio di numerosi osservatori, l’Italia avrebbe potuto trarre beneficio da un consenso greco contro l’austerity europea.

Dopo la vittoria del no, s’è impegnato per trasformare il risultato in un’opportunità per la Grecia e l’Unione.

L’atteggiamento prima del referendum ha sorpreso quanti ritenevano che ci fosse spazio politico per un sostegno del Pd a Syriza. Con un programma elettorale basato sull’aumento del benessere sociale anche a discapito della disciplina fiscale, alcune idee del partito di Alexis Tsipras sembrano collimare con quelle della campagna del Pd per le elezioni europee del maggio 2014.

Invece, prima del voto, il premier Renzi non solo non ha sostenuto la battaglia dei greci contro l'austerità, ma ha addirittura condiviso la necessità di attuare riforme severe. Dopo, Renzi ha ricevuto critiche da quanti affermano che s’è sostanzialmente defilato ai tavoli decisionali europei: accusa cui il premier e il sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi hanno replicato rivendicando un ruolo cruciale nella maratona negoziale tra il 12 e 13 luglio, al Vertice dell’Eurogruppo.

Le motivazioni di politica interna …
Quella che può apparire come una posizione irrazionale trova però motivazioni in una serie di ragioni di politica interna e estera. Considerando il fronte interno, la possibile Grexit doveva essere evitata ad ogni costo: essendo il terzo maggior creditore dopo Germania e Francia, l’Italia è esposta per 40 miliardi di euro come debito greco.

Al di là di ogni assicurazione da ipotetici contagi, l’uscita della Grecia dall’euro sarebbe certamente dannosa per un’economia italiana ancora in difficoltà, che ha sperimentato una crescita negativa nel 2014. Vista la rigidità tedesca, il solo modo per evitare l’uscita greca dalla zona euro era tramite l’attuazione di chiare riforme di austerità.

In secondo luogo, la Grexit sarebbe un pericoloso precedente politico, a cui Matteo Salvini, leader della Lega, potrebbe fare appello, rinforzando di fatto la sua campagna anti-euro.

Comparando l’Ue ad un gulag in cui i cittadini sono soggetti a una sorta di diktat di Bruxelles, Salvini ha infatti proposto più volte un referendum nazionale per decidere se uscire dall’Eurozona, nonostante esso non sia contemplato dalla Costituzione.

In terzo luogo, una vittoria politica di Syriza sulla Germania avrebbe delegittimato la linea moderata perseguita dal Partito democratico, dando maggior consenso a partiti come Sinistra Ecologia e Libertà (Sel, 32 parlamentari), che fa parte dello stesso gruppo politico di Syriza al Parlamento europeo, o il Movimento 5 Stelle (M5S, 127 parlamentari).

Durante la campagna per il referendum greco, sia Sel che il M5S non solo hanno sostenuto la decisione di Tsipras, ma, forti del loro slogan “OXI”-ge-”NO”, si sono anche mobilitati per un nuovo piano europeo che potesse fermare la politica di austerità e fornire nuovo ossigeno alle economia nazionali.

… e quelle di politica estera
Dal punto di vista di politica estera, Renzi avrebbe deciso di adottare una posizione defilata e comunque non di pieno sostegno alla Grecia per far apparire l'Italia come un paese mediterraneo affidabile.

Questo potrebbe garantire al Paese lo spazio politico necessario per potere poi chiedere una maggiore flessibilità sull’applicazione delle regole di bilancio o un maggiore sostegno europeo per risolvere problematiche relative all’immigrazione.

Seppure guidata da considerazioni economiche e dalla necessità di mantenere la legittimità politica, la strategia apparentemente ondivaga di Renzi, che alternava segnali di solidarietà verso la Grecia con prudenza nei confronti della Germania, ha dato all’Italia alcuni vantaggi.

I timori di contagio della crisi greca sembrano svaniti, lo spread delle obbligazioni non è aumentato così tanto come ad esempio in Portogallo, il governo è stabile ed i rapporti con la Germania sono eccellenti. Inoltre, avendo attuato riforme volte alla liberalizzazione economica, non da ultimo il Job Act che dà maggiore flessibilità al mercato del lavoro, l'Italia ha il potenziale per diventare un Paese modello dell'Europa meridionale.

Tuttavia, nel lungo periodo, la mancanza di una politica estera forte non paga mai. Sicuramente la strategia di Renzi comporta pochi rischi, ma non dà all’Italia una posizione autorevole nella determinazione della politica europea.

Forte della stabilità interna acquisita, Renzi dovrebbe ora sviluppare una politica estera coerente, che potrebbe rappresentare una “terza via” non solo per l'Italia, ma anche per l'Europa stessa.

Infatti, rappresentando un'alternativa alla irrazionalità della Grecia e alla rigidità della Germania, Renzi potrebbe guidare una coalizione di Paesi del Mediterraneo, come Portogallo, Spagna e Francia, e chiedere maggiore flessibilità nell’applicazione delle politiche di austerità al fine di rilanciare le economie nazionali.

Con il 12.7% di disoccupazione e una decrescita del-0.4% nel 2014, politiche economiche più flessibili potrebbero aiutare la ripresa economica italiana e garantire a Renzi ampia legittimità politica. Inoltre, ponendosi come leader di una “terza via” moderata, Renzi potrebbe contribuire a superare le divisioni politiche ed economiche tra Stati membri e a condurli verso un’Unione europea più coesa.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI. Maximilian Stern è Co-founder of @foraus - Swiss Think Tank on Foreign Policy, Mercator Fellow.
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martedì 21 luglio 2015

venerdì 17 luglio 2015

Russia: un sistema antimissili efficente

Il sistema S-400 e la forza aerea russa.

di 
 Federico Salvati

Mosca, 15 luglio 2015
   
  In un intervista rilasciata la settimana scorsa alla Pravda, il colonnello Sergei Khatylev ha spiegato come il nuovo sistema di difesa missilistica S-400 non avrebbe rivali, specialmente a confronto del  suo corrispettivo americano ( sistema patriot).
    L'S-400 è un sistema di difesa aerea che utilizza 4 tipi diversi di missili a medio e lungo raggio. Il missile è lanciato da un condotto di lancio e può arrivare ad un altezza di 30 metri prima che si azioni  la propulsione secondaria. La portata di fuoco invece può arrivare a coprire una distanza di ben 600 KM. I missili sono dotati di un sistema di guida semiautomatica che permetta di direzionare il missile in una certa area. Una volta entrato nell'area il missile cerca il suo obiettivo automaticamente agganciandosi a a fonti di energia compatibili con il suo sistema di puntamento.
    I possibili obiettivi da cui il sistema missilistico fornisce copertura sono i più svariati. La lista comprende jet figher, elicotteri, missili cuiser e cruiser ipersonici, missili tattici, aerobaistici ecc. Il sistema radar dell'S-400 è un grado di identificate ben 300 obiettivi simultaneamente a 600 Km di distanza.
    Il colonnello Sergei Khatylev ha fatto notare, quindi, come la difesa americana, per quando possa essere considerata performante, tatticamente, non regge il confronto con il sistema S-400. Ad onor del vero, l'area di sorveglianza americana copre solo determinati settori più sensibili per Washington, mentre Mosca ha dei bisogni difensivi di gran lunga più estesi. I sistemi Patriot americani però non sono all'avanguardia come quelli russi. Ad esempio, il sistema patriot fatica a reagire se l'obiettivo cambia improvvisamente direzione e soffre di condizioni di lancio più sfavorevoli rispetto a quelle dell' S-400.
    Se la Russia sembra avere la meglio sul piano difensivo, anche nell'offensiva le prospettive di confronto sono scoraggianti per gli USA.
    Washington sembra non aver ancora risolto i suoi problemi con i tristemente noti Figher-35. Secondo fonti giornalistiche, i veicoli non sarebbero in grado di sparare un solo colpo con la loro arma principale (un cannone a fuoco rapido da 25 mm) fino al 2019. Si sarebbero riscontrate, infatti, delle difficoltà insormontabili con il software di supporto dell'arma. Inoltre il veicolo risulterebbe troppo facilmente individuabile secondo la revisione indipendente della RAND Corporation. L'efficacia degli F-35 resterebbe,in fin dei conti, solo sulla carta e le lamentele degli alleati americani in merito aumentano giorno dopo giorno.
    Il Cremlino invece ha annunciato, non molto tempo fa, l'imminente completamento dei Sukhoi PAK-FA di 5 generazione. Questi aerei da combattimento una volta dispiegati dovrebbero superare qualitativamente le performance degli F-35 in ogni aspetto.
    Se veramente l'efficienza, millantata da Mosca, rispetto al proprio potere aereo sia una realtà concreta è difficile da stabilire con certezza. Le dimostrazioni pratiche del sistema S-400, infatti, sono poche e il suo impiego sul campo non è ancora avvenuto in maniera così significativa da permettere un bilancio neutrale.

    La situazione merita comunque la massima attenzione visti, sia gli attriti degli ultimi due anni tra l'occidente e il Cremlino, sia la difficile situazione del settore ricerca e sviluppo dei sistemi americani impiegati nello spesso campo.

giovedì 2 luglio 2015

Caso Italia e Libro Bianco.

Innovazione tecnologica
Fattore vincente e motore per lo sviluppo
Michele Nones
25/06/2015
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Nel mercato globale la competizione continua a crescere ed accelerare. Aumenta la domanda soprattutto grazie ai mercati in ascesa e aumenta l’offerta soprattutto grazie ai nuovi produttori. Nei settori ad elevata tecnologia permangono forti barriere all’ingresso, ma riescono solo a rallentare e selezionare l’arrivo di nuovi concorrenti, non ad impedirlo.

L’arrivo di nuovi concorrenti
Su quest’ultimo fronte giocano molteplici fattori:

1) La globalizzazione comporta un maggiore e più facile trasferimento delle conoscenze (comprese le tecnologie) e delle persone (comprese quelle ad elevata istruzione), anche grazie alla maggiore facilità di comunicazione e movimento.

2) L’innovazione tecnologica di prodotto e di processo lascia ampio spazio all’intervento umano sia direttamente sia attraverso il supporto informatico e, quindi, non sempre è richiesta la presenza di massicci investimenti fissi.

3) L’acquisto di prodotti ad elevata tecnologia è condizionato al trasferimento di capacità tecnologiche e industriali. Che questo avvenga per ragioni politiche o anche economiche è, da questo punto di vista, irrilevante. E che si tratti di centrali atomiche o di impianti per l’energia o di velivoli, elicotteri, navi militari o aerei passeggeri (solo per citare i casi più conosciuti), lo è altrettanto.

4) Le nuove potenze regionali spingono per entrare in questi settori perché importanti per la loro crescita (in ragione dell’effetto trainante), perché prestigiosi (il caso più eclatante è quello spaziale), perché fondamentali ai fini della loro sicurezza e difesa.

5) I Paesi più industrializzati limitano solo parzialmente i trasferimenti tecnologici (prodotti militari altamente sofisticati) soprattutto per la necessità di trovare nuovi mercati di sbocco per prodotti sempre più avanzati e costosi che i loro mercati interni non sono in grado di mantenere.
Solo gli Stati Uniti fanno eccezione a questa regola e, anche per questo, riescono a controllare meglio i trasferimenti tecnologici. La Russia è molto più disinvolta, come gli stessi Paesi europei, soprattutto in questo periodo di crisi o basso sviluppo economico e di taglio delle spese militari.

Nella competizione globale l’innovazione tecnologica è uno dei fattori vincenti ed è riconosciuta da tutti come il motore dello sviluppo.

Innovazione di prodotto e di processo, una valanga
L’opinione pubblica vede quasi esclusivamente e inevitabilmente l’innovazione di prodotto che permea la vita quotidiana. E questo vale ormai in tutto il mondo, escluse le sole aree ad altissima povertà.

Ma, in realtà, è ancora più importante l’innovazione di processo perché ne rappresenta la premessa, coinvolge tutti i settori (compresi quelli dove i prodotti apparentemente restano gli stessi e non sono considerati sofisticati) ed è completamente trasversale.

Anche per queste ragioni in tutti i paesi l’innovazione tecnologica è sostenuta direttamente o indirettamente dai governi, poco importa se attraverso politiche fiscali, della ricerca, della formazione, disponibilità di finanziamenti, realizzazione di infrastrutture, centri e istituti di ricerca.

Fra tutti gli altri, il settore forse più supportato è quello dell’aerospazio, sicurezza e difesa perché aggiunge alla componente tecnologica e industriale una caratteristica unica ed essenziale, quella della tutela e della difesa del proprio sistema-paese.

L’innovazione tecnologica assomiglia, in positivo, ad una valanga: aumenta continuamente la sua velocità e trova nuova energia nella sua corsa (e, simbolicamente, travolge ogni ostacolo): bisogna, quindi, starci davanti e anticiparne l’evoluzione, correndo come e, se possibile, più degli altri, se si vuole rimanere nel gruppo di testa o, per lo meno, non restare troppo distaccati: alle spalle si ingrossa e si avvicina il gruppo degli inseguitori.

Il caso Italia: ritardi e limiti
L’Italia costituisce un caso originale. È entrata in ritardo, rispetto ai Paesi concorrenti, nei settori ad elevata tecnologia. Ma le ridotte dimensioni del mercato nazionale e la dispersione dei finanziamenti pubblici su troppi fronti, hanno finito con il limitare il “tasso di sopravvivenza” delle nostre capacità di innovazione. Il risultato è che oggi, fra i pochi settori sopravvissuti, il principale è rappresentato dall’aerospazio, sicurezza e difesa.

Qui lo Stato italiano ha, oltre tutto, una doppia responsabilità: è, come tutti gli altri, “regolatore” del mercato, principale acquirente, sostenitore dell’export, finanziatore della ricerca tecnologica, ma è fra i pochi ad essere anche l’azionista di riferimento dei principali gruppi industriali nazionali, Finmeccanica e Fincantieri.

Il problema è che questa seconda funzione si estrinseca quasi esclusivamente con la nomina dei suoi vertici e non con la definizione e coerente attuazione di una politica di settore, anche a causa della mancanza di una cabina di regia che raccolga e superi le diverse competenze e gelosie ministeriali.

Questa azione di guida risulta ancora più importante di fronte all’integrazione del mercato europeo e all’inevitabile ripresa del processo di razionalizzazione e ristrutturazione dell’industria europea. Decidere dove vogliamo restare, dove possiamo accettare di essere interdipendenti coi partner europei, dove dobbiamo abbandonare il campo, è una responsabilità del Governo che non può essere elusa o delegata.

Coerenza con il Libro Bianco
Non a caso il recente Libro Bianco della Difesa prevede una collaborazione interministeriale volta a rafforzare le nostre capacità tecnologiche e industriali attraverso l’elaborazione di un Piano, mantenuto periodicamente aggiornato, che individui le attività strategiche nel campo della difesa e della sicurezza, anche tenendo conto delle potenziali applicazioni duali delle relative tecnologie.

Primo obiettivo da perse
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