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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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sabato 21 febbraio 2015

Svizzera: c'è del fumo sulla Confederazione

Svizzera
Tsunami Swissleaks sul fisco svizzero
Cosimo Risi
13/02/2015
 più piccolopiù grande
In origine fu Wikileaks, poi venne Vatileakes e ora irrompe Swissleaks, uno scoop a scoppio ritardato, nato in parte per lanciare il libro di Hervé Falciani e in parte per ribadire che c’è del fumo in Svizzera.

Già dalla primavera 2010 il caso Swissleaks era noto in Italia come “lista Falciani”, dal nome del funzionario della Hsbc Private Bank di Ginevra che fra il 2006 e il 2007 aveva movimentato circa 180 miliardi di euro, parte dei quali si sospettava frutto di evasione fiscale e altri illeciti.

La lista con i nomi di clienti italiani fu trasmessa dalle autorità francesi - che l’avevano inzialmente acquisita - a quelle europee in base alla direttiva 77/799/Cee in tema di reciproca assistenza nel settore delle imposte dirette. Le indagini in Italia furono affidate alla Guardia di Finanza e alla Procura di Torino e portarono a recuperare ingenti somme e perseguire numerosi responsabili.

Effetti della finanza oscura
L’unico motivo che spiega il clamore suscitato oggi dal rilancio della vecchia inchiesta è che questa riporta alla ribalta la finanza oscura dei paradisi fiscali e dell’industria off-shore. Secondo quanto scritto il 9 febbraio su La Repubblica da Thomas Pinketty, autore di Il Capitale nel XXI secolo, la finanza oscura mina la coesione sociale, è fonte di diseguaglianze e minaccia la tenuta delle istituzioni democratiche.

Che certe pratiche siano diffuse o quanto meno tollerate in seno all’Europa è ulteriore motivo di preoccupazione. Il tarlo ci rode dall’interno. Alcuni clienti sono nomi del jet set internazionale e la loro immagine generalmente glamorous non pare risentire di questo incidente di percorso. Il “dimenticare” di dichiarare certe fortune al paese di residenza, i cui servizi sociali essi non pagano o non pagano in misura adeguata, non pare motivo di disonore sociale.

Falciani, un eroe ricercato
Falciani è per alcuni un eroe o quanto meno un iconoclasta. Per altri, come la giustizia svizzera, è un ricercato da estradare. La Spagna, paese dove principalmente vive, respinge la richiesta di estradizione. In Svizzera il procuratore generale lo aveva indagato sin dal primo scandalo per accesso abusivo ai sistemi informatici della banca e appropriazione indebita. Falciani continua a collaborare con gli investigatori di vari paesi interessati a portare alla luce ulteriori aspetti dello scandalo.

Nel 2014 si è diffusa la notizia di un’altra lista Falciani con i nomi di oltre centomila clienti che, attraverso le filiali della banca, si distribuiscono fra Lussemburgo, Montecarlo, Isole del Canale, Ginevra. La notizia riguarda pure italiani che avrebbero scelto Lugano. Falciani guadagna in popolarità anche politica a misura delle rivelazioni.

Il movimento spagnolo Podemos lo insignisce di grande reputazione, si dice di una sua collaborazione con il partito greco di Syriza. La procura svizzera, appena qualche mese fa, ne chiede il rinvio a giudizio per spionaggio economico qualificato, acquisizione illecita di dati, violazione del segreto commerciale e del segreto bancario. Il processo dovrebbe compiersi a breve con l’imputato verosimilmente contumace.

Paradiso fiscale svizzero
La nuova inchiesta Swissleaks riporta la Svizzera nel calderone dei paradisi fiscali o quanto meno dei paesi fiscalmente poco collaborativi. Si minimizza il fatto che lo scandalo originario sia ormai datato e che nel frattempo qualcosa è accaduto nella Confederazione e nei suoi rapporti con il resto del mondo.

La strategia del denaro pulito (stratégie de l’argent propre) voluta dal governo federale sta producendo qualche frutto. Si aggiunga l’azione più penetrante della Finma, l’autorità di vigilanza dei mercati finanziari. Gli uffici delle banche adottano delle buone pratiche per intervistare i clienti sulle fonti delle loro fortune, scaricare gli istituti da certe responsabilità riversandole sul cliente, congelare conti correnti, impedire prelievi abnormi di denaro o trasferimenti verso mercati poco trasparenti. La due diligence si applica in maniera più incisiva.

Su tutto domina l’atteggiamento decisamente più aperto di Berna verso gli organismi multilaterali, specie Ocse e G20. Per non dire di quello nei confronti di certi stati membri come l’Italia, con cui è imminente la sottoscrizione dell’intesa fiscale dopo anni di laboriosa negoziazione.

Qualcosa di rilevante nel mondo della finanza d’oltralpe si muove. I risultati possono essere benefici per noi. Nell’immediato, perché fanno chiarezza nei rapporti reciproci; nel futuro, perché favoriscono i flussi di ritorno sotto forma di investimenti produttivi.

Cosimo Risi, Ambasciatore a Berna, è docente di Relazioni internazionali al Collegio europeo di Parma.
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venerdì 20 febbraio 2015

GAME THEORY AND TRANSBOUNDARY IVER MANAGMENT: A THEORETICAL BACK GROUND

di
 Federico Salvati
 (federicoslvt@gmail.com)

Water is a vital  for human life but not everywhere this essential asset is abundant. For this reason, sadly, many community are force to administrate the water in order to maximize the utility and to not squander the already scarce asset. Water management is one of the main strategical issues of our times. In some regions like central Asia or North Africa the topic affect  the daily life of millions of people in a scenario where the human life is still irremediably bound to the geographical datum. When the resource is shared by tow or more state the situation can rise strategic competition and water management become even a more thorny argument. A shared river basin at the same time can be source of fierce wars or steady cooperation. In order to analyze the scenario we can use a game theory approach. This perspective allows us to conceptualize main interests and their related behavior forecasting probable outcomes and choices. The big flaw of this approach is that we assume the actors to be completely rational. Many aspects which belong to the cultural or the social- anthropological sphere are not taken in account, even though empirically they can have a major influence depending by the case. Furthermore in many analysis it is not clear upon what basis the pay-offs of the games calculated. This can create arbitrary assumption that can affect the analysis from its very basics. Theoretically speaking anyway hardly social science has found an as valid approach as game theory is. According to such analysis the central focus has to be posed on externalities problems. When an upstream country decide to use a transboundary river course it creates externalities for the downstream state manipulating either the quality and the quantity of the resource. Seen the premises the fallowing question now is to explain how and if these externalities can be internalized and what would be the consequences of the different available strategies. Non- cooperative game models for this specific scenario seem to fit pretty well. According to non- cooperative game theory the parties are engaged in a competitive strategic relation. They will try to maximize their behaviour by choosing their strategies. The players are interconnected and: every decision of one party will affect possibility and strategy of the other. Non -cooperative strategy (E.G. prisoner dilemma strategy) tends to not generate cooperation between the parties, since the risk of been exploited is too high. In a classical non cooperative game the players will go for a non cooperative strategy which is strictly dominant on the cooperative one, reaching so their Nash equilibrium.

FIG. 1 Classical prisoner dilemma

                                                              COOP            EXPLOIT
Casella di testo: COOP.

1
Casella di testo: EXPLOIT           1
3
        -3
-3
            3
0
         0

We can recognize in this game the classical prisoner dilemma structure.
A general solution for the prisoner dilemma is to repeat the single game. The repetition makes rationally a better strategy to cooperate since it is the only manner to maximize the pay-off. The equilibrium in the long term can differ from the equilibrium in the subgame. Fundamental assumption remains that such repetition (as in the case of transboundary river management ) it doesn't have and end game. In the opposite case a strict domination for the non-cooperation strategy would be recreated in the endgame and cooperation will fail. Another important circumstance to analyze is the possibility for the down stream country to improve its bargain power by linking different issues together. In this case the new equilibrium for the game would be found in a mixed matrix interlinking all the issues. In the shared river basin scenario we can easily an bright example of it. The upstream country acting unilaterally in the river exploitation can generate a security dilemma-like situation. By increasing its welfare the upstream country will decease the downstream one. This will generate instability and insecurity, creating border troubles and problems akin. Bluntly put if we deprive the downstream country of all the water indirectly we will generate a security problem between the tow actors. In the mixed game example the upstream and the downstream country can find new equilibrium, choosing a strategy more profitable for both actors. More simply reworded by giving up a bit in one issue they will receive an upper pay-off gaining more from the other .
fig. 2 mixed game
                                                    coop           coop    explo           explo
                                                    instability  secu     secu           instability                      
Casella di testo: Explo
security
Casella di testo: Coop
instability
Casella di testo: Explo
instability
Casella di testo: Coop
secuity
5
         2
-1
          3
1
        2.5
-5
          3.5
6
         0
4
          3
2
        0.5
-2
          1.5
4
         0
-2
          1
3
          1
-3
          2
5
       -2
1
          1
4
        -1
0
          0

The possibility to find a better solution to the game by multiplying interests is backed up also by another game theory feature. We assume usually that a government has more targets than means to achieve them. They have therefore to trade-off in order to achieve what they can, with what they have. This will make coordination more likely to happen and more important. This kind of thinking brings up more questions then answers. For example we can discuss about what is the extent of the trade off or what are the endogenous mechanisms that push the decision-makers to stand for a specific goal. Anyway one think certainly remains: the actors in a regional environment if they have a trade-off situation (like water-security ), they can have higher out-comes when they cooperate. Such a situation has found vast proof (analytically and empirically) thanks to the works of economists like Hamada, Ghosh and Masson.
Fig 3 cooperation game
                                                                  EXPLOIT   COOP
                                                          
Casella di testo: EXPLOITCasella di testo: COOP0
       0
0
         0
0
        0
1
         1

Under this prospective we can use a different kind of approach to describe the problem. Let us assume in this case the existence of a cooperative game. According to the cooperative game theory the  members will have to seek coordination. The pay-off are more higher when the parties coordinate. If they don't do so they will face added costs or simply lower out- comes. In the water management case this is clearly relevant. Thinking our case in a dynamic perspective, according to the perspective of a cooperative game there is an astounding result. In fact by cooperating the cost faced by one of the parties in a specific field will yield an increase of utility over the fact per se. Generation of positive externalities will produce a snowballing effect where the action will have a final utility which comprehends at the same time the value per se of the action plus the avoidance of further problem creation. In our specific case for instance we can present as a case in point security issues. If the upstream country pumped all the water for its purposes, the downstream country would be left without the wherewithal for feeding the population. This would generate a commitment problem. The downstream country has to take control of the river basin because otherwise the population will starve to death. By finding an efficient mean to prevent starvation of the downstream country the upstream country could have, for instance, electricity production, plus the prevention of a military attack. As we said in the introduction game theory is not a perfect tool of analysis. Models are just a exemplification of real life but we can hardly find a similar tool that give as such a challenging frame for setting our reasoning

 (geografia2013@libero.it)




venerdì 13 febbraio 2015

In vigore il Trattato ATT

Trattato Onu
Regolare il commercio delle armi si può
Adriano Iaria
05/02/2015
 più piccolopiù grande
Regolare il commercio delle armi si può. Lo dimostra l’entrata in vigore del trattato sul commercio di Armi (Att).

Il trattato, al quale hanno aderito sessantuno stati ai quali si sono aggiunti centotrenta paesi firmatari (tra cui Stati Uniti e Israele) proibisce il trasferimento di armi convenzionali, munizioni, loro parti e componenti nel caso in cui questo sia contrario agli obblighi stabiliti dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in virtù dal Capitolo VII.

Lo stesso divieto vale per le armi il cui trasferimento rischia di violare obblighi imposti da trattati internazionali di cui lo stato contraente è parte, e per quelle che lo Stato parte sa poter essere utilizzate per commettere crimini internazionali.

Inoltre, il trattato entrato in vigore il 24 dicembre, prevede che nel caso in cui il trasferimento non sia proibito, lo stato esportatore dovrà svolgere una serie di attività per valutare i rischi dell’esportazione e prendere una serie di provvedimenti volti a mitigare tali rischi.

Germania, Francia, Regno Unito, Spagna e Italia, 5 dei 10 maggiori paesi esportatori di armi, hanno ratificato il trattato.

Verso Città del Messico 2015
Il Trattato prevede che entro un anno dall’entrata in vigore dovrà essere convocata una conferenza degli stati parte per approvare, inter alia, le regole di procedura. Una serie di incontri preparatori si sono svolti a Città del Messico e Berlino in vista della conferenza che si terrà proprio nella capitale messicana tra agosto e settembre 2015.

La prima questione sarà stabilire, per consensus, la maggioranza necessaria per l’approvazione di tutte le attività d’implementazione.

Da una parte, una maggioranza semplice permetterebbe una più facile implementazione del trattato con il rischio però di ridurre il numero di adesioni future da parte di quegli stati riluttanti a un maggior sviluppo.

Dall’altra, una maggioranza qualificata garantirebbe un maggior consenso, sebbene ciò possa minacciare una maggior implementazione.

Le delegazioni dovrebbero quindi propendere per quest’ultima ipotesi. La maggioranza qualificata è altresì quella indicata per l’approvazione, in ultima istanza, degli emendamenti esaminati durante la Conferenza degli stati.

Inoltre, applicare una maggioranza semplice nell’attività d’implementazione si discosterebbe troppo dal modus operandi per consensus fin qui adottato e che ha prodotto ottimi risultati in termini di approvazione del trattato e numero di adesioni.

Il rapido processo di firma e ratifica da parte degli stati deve esser visto come un importante segnale da parte della comunità internazionale nel continuare a disciplinare il commercio di armi attorno ad un testo in grado di raccogliere il più ampio numero di adesioni senza diluire la sua efficacia.

Pertanto una maggioranza qualificata dei 3⁄4, come ad esempio per l’approvazione degli emendamenti, non comprometterebbe un proficuo processo d’implementazione del trattato.

Arms Trade Treaty-Basement Assessment Project
Ulteriore punto d’analisi è lo sviluppo del trattato al livello interno. Ogni stato parte, entro un anno dall’entrata in vigore del trattato, dovrà trasmettere al Segretariato un report con tutte le misure nazionali adottate per implementarlo.

Tali report sono un importantissimo strumento per valutare da una parte l’operato degli stati e dall’altra per poter sviluppare best practices in materia di rendicontazione.

Al fine di uniformare i report, su impulso della società civile è stato costituito l’Arms Trade Treaty-Basement Assessment Project (Att-Bap), che potrà sottoporre all’approvazione della prima Conferenza degli stati un modello standard per la rendicontazione delle misure adottate dagli Stati.

Inoltre, gli stati parte dovranno trasmettere al Segretariato annualmente la rendicontazione delle attività d’importazione ed esportazione effettuate e autorizzate. Anche in questo caso, l’Att-Bap sta lavorando per un modello unico di rendicontazione.

Difesa e interessi nazionali
In conclusione, la prima Conferenza degli stati avrà l’arduo compito di mantenere vivo quello spirito che ha permesso di avanzare nella regolamentazione di una disciplina delicata, come il commercio internazionale di armi, strettamente connessa alla difesa e alla tutela degli interessi nazionali.

Difficile che gli Stati possano accettare un nuovo modello di rendicontazione delle importazioni ed esportazioni autorizzate ed effettuate; l’art. 13.3 del trattato, fortemente voluto da un grande numero di Stati durante le negoziazioni diplomatiche, indica come strumento di rendicontazione il modello già utilizzato per il Registro Onu delle armi convenzionali, evitando ridondanze con modelli già esistenti.

Adriano Iaria è laureato in diritto internazionale e sfide contemporanee alla Cesare Alfieri di Firenze. Esperto in disarmo e regolamentazione delle armi convenzionali, con l'Iriad collabora nel settore della legislazione internazionale del commercio di armi.
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sabato 7 febbraio 2015

Peace and war: unclear concepts.

di
 Federico Salvati
(federicoslvt@gmail.com)

"What is peace?" Asked Susan Sontag in her 2001 Jerusalem Prize acceptance speech. Even if it could seem a plenitude, to outline a concrete definitions of this concept might turn out to be quite difficult. Along with common sense, war and peace are dichotomized concepts, antonyms constructed on the absence of a contentious situation. If we linger upon this for more than a moment we can easily understand how this definition is poor and unsatisfactory. The mere absence of war can't at all be classified as peace. Let us think about the current situation of frozen-conflicts scattered around the world ( for instance the Koreas scenario or the Nagorno-Karabakh war). Even though there is no open fight, we can not define light-heartedly these situations as peaceful ones. A range of feminist authors indeed formalize peace as the “elimination of insecurity and danger”. Bluntly put: a more realistic definition of peace has to be centered on a positive and pro-active relation either within or between social groups. On the other hand, absence of violent conflict (the so called “negative peace”) does not prelude to a peaceful situation per se. such formalization of peace has a strong explanatory power but it mystifies more than it can clear them out. The natural fallow up to this stage shall be: to what extent do we need a pro-active social value in order to define a context as a peaceful situation? And what of these values should be understood as inescapable in order to do so? Granted there is no certain answer to such a question, but it must be noted that this is not a fancy academic frill. Au contraire, this is the apothegm of the international “peacemaking” activity. In other words: how do we make it sure to avoid a potential conflict scenario and how do we prevent it from a future development? In order to untangle this knot, I could produce in this article a long and boring list of widely-shared common sense statements about what is important and what is not in human social life. Instead I think it would be more interesting to quote the well-known realist thinker Kenneth Waltz who said: “To explain war is easier than to understand peace. If one ask what might cause war the simple answer is 'anything'...”. Scholars always prefer to study war rather than peace enforcement, since the first one is more easy to detect (even if lately things have become much more complicated), to define and to harness. According to the far famed Clausewitz's definition, war is nothing more than a “duel on an extensive scale.... mere continuation of policy by other means”. If we understand war as the exercise of violence in order to attain an objective, its substantial causes could be, theoretically speaking, infinite, since whatever human impulse can lead to the exercise of violence, whenever it is in the faculty of the subject and its exercise shall demonstrate to be the best way to obtain what longed. Developing the essential tenets of Clausewitz' reflection Christopher Coker in his book: “can war be eliminated?”disavows the nature of war as a social idea. Contrarily to what John Muller asserted, war is no socially-constructed-activity and as such can not and will not be eliminated only by the human self-reasoning.
According to Coker's position War is a destructive manifestation of the deep-rooted human ethos to live part of our life as a fight. This attitude allow us to overcome hurdles and to win difficulties.
To refuse this nature would be a XIX-century-totalitarian-regime style hypocrisy. I won't be very popular in asserting that but: “violence in not always bad”.
Even if (for the sake of the debate) we could imagine a world wherein human being has been totally “de-violentized” this world would be a sheer nightmare. The idea of conflict latu senso is a powerful and essential part of our moral nature. No violence would mean complete compliance with the authority, incapacity to contest, protest, to think out of the box, self determination and so on... war as we mean it is a narrow outburst of something widely bigger which has more extensive implication in our daily life. The  key question at this point is: does the externalization of a conflict have to be always destructive? Is there a way to channel it in a more constructive existence? (in order to have further information on this read “constructive conflicts” by Kriesberg and Dayton)

Concluding: war and peace are tow very complicated concept. However what has been said above is only a theoretical proposition which HAS VERY LITTLE TO DO WITH PRACTICAL REALITY. Still we need to discuss it in order to evolve our concept of what we have been taught or we think we know. I know I am leaving the reader with lots of unresolved questions but a further investigation on peace and war would require definitely more time and space and would be pretty boring. Nonetheless I won't feel any scruples in declaring that things get better in time. We institutionalized most of our activities, we have the capacity to evolve, to do better and to be more aware and empathic to our neighbor and conflicts (global scale or just back street fights) make no exception to this.

giovedì 5 febbraio 2015

Google e la Spagna: una imposta di troppo.

Proprietà intellettuale
Spagna, saracinesche abbassate su Google News
Matteo Bordoni, Dennis Jansen
28/01/2015
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Google News abbassa le saracinesche in Spagna. È questa la risposta di Big G alla nuova legge che impone a chiunque pubblichi un link o una breve citazione di un articolo di giornale di pagare un “equo compenso” all’editore.

La legge spagnola n. 21/2014, in vigore dal 1 gennaio 2015, attribuisce infatti agli editori o agli altri titolari di diritti sui contenuti divulgati su pubblicazioni periodiche o su siti web aggiornati periodicamente aventi finalità informative o di intrattenimento, il diritto di percepire un’equa remunerazione dai titolari dei portali web o internet (“fornitori di servizi di aggregazione di contenuti”) che mettano a disposizione del pubblico frammenti non significativi di dette pubblicazioni, come titoli e sommari.

Non è richiesta invece alcuna autorizzazione per la divulgazione (ma ciò non vale per le immagini per cui è necessario il consenso). È questa la legge che ha spinto, il 16 dicembre, Google News a chiudere il proprio sito in Spagna.

Editori europei contro Google
La vicenda spagnola è soltanto l’ultimo episodio di una querelle che vede contrapposti gli editori, decisi a chiedere una remunerazione per la divulgazione, anche parziale, dei contenuti delle pubblicazioni, e Google che insiste per non pagare un corrispettivo.

In Belgio, dal 2006 al 2012, gli editori belgi e Google sono stati coinvolti in un contenzioso che ha visto Google per lungo tempo soccombente. Tuttavia, in data 13 dicembre 2012, le parti hanno raggiunto un complesso accordo di partnership, volto ad aumentare i rispettivi bacini di utenza e i ricavi, secondo cui gli editori avrebbero potuto rientrare, su base volontaria, in Google News.

Anche in Francia, il contrasto tra l’associazione degli editori e il gigante di Mountain View si è risolto con un compromesso. Nel febbraio 2013, il governo francese e la società californiana hanno siglato un accordo dove Google si è impegnata a costituire un fondo da 60 milioni di Euro per facilitare il passaggio dal sistema analogico al digitale.

In Germania, la Leistungsschutzrecht del 1° agosto 2013 ha attribuito agli editori il diritto esclusivo sugli estratti delle pubblicazioni oltre al diritto di concederli in licenza. La nuova legge ha costretto Google a rimuovere dalle proprie liste dei risultati i contenuti di ogni pubblicazione ad eccezione del titolo.

Sorprendentemente, tale circostanza ha determinato una tale riduzione delle visite dei siti internet dei giornali che i maggiori editori hanno subito concesso una licenza d’uso gratuito dei propri contenuti a Google.

La condotta degli editori, però, è stata assoggettata all’indagine sia dell’Ufficio Marchi e Brevetti tedesco (“Dpma”) che dell’antitrust in quanto discriminatoria nei confronti dei più piccoli content providers.

In un successivo procedimento, gli editori hanno convenuto in arbitrato Google, Yahoo e 1&1 innanzi al Dpma per costringerli ad accettare in licenza i contenuti di titolarità degli editori corrispondendo loro un prezzo ragionevole. Yahoo, da parte sua, ha chiesto la dichiarazione di incostituzionalità del Leistungsschutzrecht per violazione del diritto all’informazione degli utenti.

Corte di Giustizia Ue e collegamenti internet
È opportuno valutare la compatibilità della legge spagnola con il diritto vivente dell’Unione europea.

Nel caso Svensson (Svensson c. Retriever Sverige, C466/12, del 13 febbraio 2014, par. 25 ss.), la Corte di Giustizia ha negato che la messa a disposizione di collegamenti internet cliccabili verso altri articoli pubblicati da altri siti internet necessiti della autorizzazione dei titolari del diritto d’autore nei casi in cui la messa a disposizione delle opere tramite un collegamento cliccabile non porti a comunicare le medesime a un pubblico nuovo.

Secondo la Corte, ciò si verifica quando il complesso degli utilizzatori di un altro sito, ai quali siano state comunicate le opere di cui trattasi tramite un collegamento cliccabile, potesse direttamente accedere a tali opere (senza eludere misure restrittive) sul sito sul quale siano state inizialmente comunicate, senza intervento del gestore dell’altro sito.

Italia e diritti di proprietà intellettuale
La legge spagnola viene indicata da alcuni editori italiani come modello da emulare. L’esperienza europea sembra suggerire approcci basati piuttosto sulla libertà negoziale delle parti che incidano meno sull’accessibilità e l’efficienza del mercato.

Come segnalato dalla Autorità italiana antitrust, all’esito di una istruttoria per abuso di posizione dominante conclusosi il 17 gennaio 2011 con l’assunzione di Impegni da parte di Google, “occorre una legge nazionale che definisca un sistema di diritti di proprietà intellettuale in grado di incoraggiare su internet forme di cooperazione virtuosa tra i titolari di diritti di esclusiva sui contenuti editoriali e i fornitori di servizi innovativi che riproducono ed elaborano i contenuti protetti da tali diritti”.

La Google Tax rischierebbe di scontentare tutti: gli editori avrebbero meno accessi ai propri siti, i search providers offrirebbero meno risultati di ricerca e gli utenti, di conseguenza, otterrebbero meno informazioni utili. Questa incertezza, come dimostra l’esperienza tedesca, renderebbe più frequenti i contenziosi.

Matteo Bordoni (LL.M. Berkeley), è avvocato in Roma presso lo Studio Baker & McKenzie dove si occupa di arbitrato e contenzioso.
Dipl-Jur. Dennis Jansen, (LL.M. Berkeley), è un membro del Institute for Legal Questions of Free Licenses and Open Source Software Law
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Italia: le linee maestre della politica estera

Politica estera italiana
Gentiloni e il nuovo interventismo umanitario
Giovanni Faleg
02/02/2015
 più piccolopiù grande
Quanto lontano e con quali mezzi militari è lecito e opportuno spingersi per contribuire alla guerra globale contro il terrore? Questo è uno degli interrogativi sollevati dalla recente escalation di violenza provocata dal terrorismo di matrice islamica e jihadista.

Traendo le giuste lezioni dagli interventi militari e i fallimenti del peacekeeping negli ultimi dieci anni, l’Italia può contribuire a sviluppare un nuovo tipo di inteventismo.

Esso deve essere volto a evitare il proliferale di stati falliti e canaglia nel lungo periodo, allargando l’orizzonte strategico e sviluppando una logica comprensiva di intervento.

Tale strategia deve andare oltre i limiti del non intervento sul terreno semplificato nello slogan «no boots on the ground», affrontando in maniera efficace le conseguenze post-intervento, in particolare il cambio di regime ove esso si verifichi. L’interventismo deve evitare, non creare, destabilizzazione come accaduto in Iraq e in Libia.

Europa divisa tra legittimazione unilaterale e multilaterale
A fronte dei maggiori conflitti e delle crisi umanitarie degli ultimi dieci anni, l’Europa si è divisa fra stati propensi a intervenire in prima linea e unilateralmente (Francia e Regno Unito) e paesi, come la Germania, che hanno avuto un atteggiamento più prudente, inquadrato in una cornice di legittimazione multilaterale (Onu) e con un contributo militare limitato.

Queste divergenze hanno impedito all’Unione europea di sviluppare una capacità d’azione nei teatri di crisi, lasciando ampio margine di manovra alle «coalizioni dei volenterosi».

L’Italia ha assunto una posizione mediana. A partire dall’intervento Nato in Jugoslavia, il nostro paese ha avuto spesso un ruolo di primo piano nella gestione delle crisi, come dimostra la nostra presenza nella missione Unifil (Libano) e Kfor (Afghanistan).

Non senza andare, in alcuni casi, contro l’opinione pubblica (Iraq 2003). D’altra parte, soprattutto negli ultimi anni, l’Italia ha avuto un atteggiamento diverso da quello di Francia e Gran Bretagna, assumendo un più basso profilo rispetto all’attivismo di Parigi e Londra in Libia, Mali e Siria.

La linea interventista di Gentiloni
Il Ministro degli esteri Paolo Gentiloni sembra pronto ad aprire una nuova fase interventista della nostra politica estera. «L’impegno per peacekeeping e per i diritti umani è uno degli elementi su cui si fonda la politica estera italiana», ha dichiarato il Ministro in una recente intervista rilasciata a Il Foglio, con riferimenti concreti alla necessità di considerare un contributo italiano più deciso contro la minaccia posta dall’autoproclamatosi «stato Islamico» e un possibile ritorno dei nostri militari in Libia.

A seguito degli attacchi di Parigi, Gentiloni ha ribadito che «il non interventismo non risolve i nostri problemi» e ha confermato la sua linea interventista «a tutto campo», seguendo il paradigma della 3D secuity (defence, diplomacy and development).

La posizione della Farnesina è tutt’altro che fuori luogo. Un riesame delle caratteristiche della nostra strategia di sicurezza, e quindi degli obiettivi e dei mezzi dell’interventismo umanitario, è doveroso per far fronte al crescere della minaccia jihadista e coordinare risposte con i nostri alleati.

L’orizzonte strategico di una tale politica interventista è però cruciale, al fine di limitare i rischi ed evitare errori commessi in passato.

I rischi non si limitano solo alla possibilità di fomentare la nascita di cellule terroristiche dentro i nostri confini, gli attacchi verso obiettivi civili o le perdite che potrebbero subire le nostre forze armate in missione.

Nel lungo periodo, interventi mal pianificati possono portare all’emergere di stati falliti, con ripercussioni più o meno dirette sulla sicurezza nazionale in termini di flussi migratori, crisi energetiche, instabilità a livello regionali nel vicinato meridionale, come ci sta mostrando il caso libico.

La Libia è infatti un chiaro esempio di come un’operazione relativamente breve e apparentemente efficace possa condurre uno stato al fallimento e al caos tribale, se non inserita in una strategia di più lungo respiro che includa misure non militari.

Vi è ormai largo consenso sul fatto che gli errori commessi in Libia non si debbano ripetere in circostanze future, ad esempio in Siria. Ciò implica una revisione del concetto di interventismo che includa misure inclusive ed integrative, secondo la logica europea del ”comprehensive approach”.

Parlamento e politica estera 
In altre parole, sia benvenuta una nuova stagione interventista della politica estera italiana, a condizione che lo strumento militare sia inteso a sostegno di una strategia più ampia di peace and state-building, che includa mezzi civili, riforma del sistema di sicurezza e dello stato di diritto.

I due ingredienti per sviluppare tale strategia sono consenso fra partiti politici e risorse economiche adeguate.

Il nostro Parlamento dovrebbe verificare, il prima possibile, l’esistenza di tale consenso e la disponibilità delle risorse economiche, anche considerato il quadro di crisi economica. Con questi due ingredienti, l’interventismo all’italiana può andare molto lontano e contribuire a un sistema internazionale più pacifico.

Giovanni Faleg è consulente di ricerca presso lo IAI.
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