Politica estera italiana Gentiloni e il nuovo interventismo umanitario Giovanni Faleg 02/02/2015 |
Quanto lontano e con quali mezzi militari è lecito e opportuno spingersi per contribuire alla guerra globale contro il terrore? Questo è uno degli interrogativi sollevati dalla recente escalation di violenza provocata dal terrorismo di matrice islamica e jihadista.
Traendo le giuste lezioni dagli interventi militari e i fallimenti del peacekeeping negli ultimi dieci anni, l’Italia può contribuire a sviluppare un nuovo tipo di inteventismo.
Esso deve essere volto a evitare il proliferale di stati falliti e canaglia nel lungo periodo, allargando l’orizzonte strategico e sviluppando una logica comprensiva di intervento.
Tale strategia deve andare oltre i limiti del non intervento sul terreno semplificato nello slogan «no boots on the ground», affrontando in maniera efficace le conseguenze post-intervento, in particolare il cambio di regime ove esso si verifichi. L’interventismo deve evitare, non creare, destabilizzazione come accaduto in Iraq e in Libia.
Europa divisa tra legittimazione unilaterale e multilaterale
A fronte dei maggiori conflitti e delle crisi umanitarie degli ultimi dieci anni, l’Europa si è divisa fra stati propensi a intervenire in prima linea e unilateralmente (Francia e Regno Unito) e paesi, come la Germania, che hanno avuto un atteggiamento più prudente, inquadrato in una cornice di legittimazione multilaterale (Onu) e con un contributo militare limitato.
Queste divergenze hanno impedito all’Unione europea di sviluppare una capacità d’azione nei teatri di crisi, lasciando ampio margine di manovra alle «coalizioni dei volenterosi».
L’Italia ha assunto una posizione mediana. A partire dall’intervento Nato in Jugoslavia, il nostro paese ha avuto spesso un ruolo di primo piano nella gestione delle crisi, come dimostra la nostra presenza nella missione Unifil (Libano) e Kfor (Afghanistan).
Non senza andare, in alcuni casi, contro l’opinione pubblica (Iraq 2003). D’altra parte, soprattutto negli ultimi anni, l’Italia ha avuto un atteggiamento diverso da quello di Francia e Gran Bretagna, assumendo un più basso profilo rispetto all’attivismo di Parigi e Londra in Libia, Mali e Siria.
La linea interventista di Gentiloni
Il Ministro degli esteri Paolo Gentiloni sembra pronto ad aprire una nuova fase interventista della nostra politica estera. «L’impegno per peacekeeping e per i diritti umani è uno degli elementi su cui si fonda la politica estera italiana», ha dichiarato il Ministro in una recente intervista rilasciata a Il Foglio, con riferimenti concreti alla necessità di considerare un contributo italiano più deciso contro la minaccia posta dall’autoproclamatosi «stato Islamico» e un possibile ritorno dei nostri militari in Libia.
A seguito degli attacchi di Parigi, Gentiloni ha ribadito che «il non interventismo non risolve i nostri problemi» e ha confermato la sua linea interventista «a tutto campo», seguendo il paradigma della 3D secuity (defence, diplomacy and development).
La posizione della Farnesina è tutt’altro che fuori luogo. Un riesame delle caratteristiche della nostra strategia di sicurezza, e quindi degli obiettivi e dei mezzi dell’interventismo umanitario, è doveroso per far fronte al crescere della minaccia jihadista e coordinare risposte con i nostri alleati.
L’orizzonte strategico di una tale politica interventista è però cruciale, al fine di limitare i rischi ed evitare errori commessi in passato.
I rischi non si limitano solo alla possibilità di fomentare la nascita di cellule terroristiche dentro i nostri confini, gli attacchi verso obiettivi civili o le perdite che potrebbero subire le nostre forze armate in missione.
Nel lungo periodo, interventi mal pianificati possono portare all’emergere di stati falliti, con ripercussioni più o meno dirette sulla sicurezza nazionale in termini di flussi migratori, crisi energetiche, instabilità a livello regionali nel vicinato meridionale, come ci sta mostrando il caso libico.
La Libia è infatti un chiaro esempio di come un’operazione relativamente breve e apparentemente efficace possa condurre uno stato al fallimento e al caos tribale, se non inserita in una strategia di più lungo respiro che includa misure non militari.
Vi è ormai largo consenso sul fatto che gli errori commessi in Libia non si debbano ripetere in circostanze future, ad esempio in Siria. Ciò implica una revisione del concetto di interventismo che includa misure inclusive ed integrative, secondo la logica europea del ”comprehensive approach”.
Parlamento e politica estera
In altre parole, sia benvenuta una nuova stagione interventista della politica estera italiana, a condizione che lo strumento militare sia inteso a sostegno di una strategia più ampia di peace and state-building, che includa mezzi civili, riforma del sistema di sicurezza e dello stato di diritto.
I due ingredienti per sviluppare tale strategia sono consenso fra partiti politici e risorse economiche adeguate.
Il nostro Parlamento dovrebbe verificare, il prima possibile, l’esistenza di tale consenso e la disponibilità delle risorse economiche, anche considerato il quadro di crisi economica. Con questi due ingredienti, l’interventismo all’italiana può andare molto lontano e contribuire a un sistema internazionale più pacifico.
Giovanni Faleg è consulente di ricerca presso lo IAI.
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Esso deve essere volto a evitare il proliferale di stati falliti e canaglia nel lungo periodo, allargando l’orizzonte strategico e sviluppando una logica comprensiva di intervento.
Tale strategia deve andare oltre i limiti del non intervento sul terreno semplificato nello slogan «no boots on the ground», affrontando in maniera efficace le conseguenze post-intervento, in particolare il cambio di regime ove esso si verifichi. L’interventismo deve evitare, non creare, destabilizzazione come accaduto in Iraq e in Libia.
Europa divisa tra legittimazione unilaterale e multilaterale
A fronte dei maggiori conflitti e delle crisi umanitarie degli ultimi dieci anni, l’Europa si è divisa fra stati propensi a intervenire in prima linea e unilateralmente (Francia e Regno Unito) e paesi, come la Germania, che hanno avuto un atteggiamento più prudente, inquadrato in una cornice di legittimazione multilaterale (Onu) e con un contributo militare limitato.
Queste divergenze hanno impedito all’Unione europea di sviluppare una capacità d’azione nei teatri di crisi, lasciando ampio margine di manovra alle «coalizioni dei volenterosi».
L’Italia ha assunto una posizione mediana. A partire dall’intervento Nato in Jugoslavia, il nostro paese ha avuto spesso un ruolo di primo piano nella gestione delle crisi, come dimostra la nostra presenza nella missione Unifil (Libano) e Kfor (Afghanistan).
Non senza andare, in alcuni casi, contro l’opinione pubblica (Iraq 2003). D’altra parte, soprattutto negli ultimi anni, l’Italia ha avuto un atteggiamento diverso da quello di Francia e Gran Bretagna, assumendo un più basso profilo rispetto all’attivismo di Parigi e Londra in Libia, Mali e Siria.
La linea interventista di Gentiloni
Il Ministro degli esteri Paolo Gentiloni sembra pronto ad aprire una nuova fase interventista della nostra politica estera. «L’impegno per peacekeeping e per i diritti umani è uno degli elementi su cui si fonda la politica estera italiana», ha dichiarato il Ministro in una recente intervista rilasciata a Il Foglio, con riferimenti concreti alla necessità di considerare un contributo italiano più deciso contro la minaccia posta dall’autoproclamatosi «stato Islamico» e un possibile ritorno dei nostri militari in Libia.
A seguito degli attacchi di Parigi, Gentiloni ha ribadito che «il non interventismo non risolve i nostri problemi» e ha confermato la sua linea interventista «a tutto campo», seguendo il paradigma della 3D secuity (defence, diplomacy and development).
La posizione della Farnesina è tutt’altro che fuori luogo. Un riesame delle caratteristiche della nostra strategia di sicurezza, e quindi degli obiettivi e dei mezzi dell’interventismo umanitario, è doveroso per far fronte al crescere della minaccia jihadista e coordinare risposte con i nostri alleati.
L’orizzonte strategico di una tale politica interventista è però cruciale, al fine di limitare i rischi ed evitare errori commessi in passato.
I rischi non si limitano solo alla possibilità di fomentare la nascita di cellule terroristiche dentro i nostri confini, gli attacchi verso obiettivi civili o le perdite che potrebbero subire le nostre forze armate in missione.
Nel lungo periodo, interventi mal pianificati possono portare all’emergere di stati falliti, con ripercussioni più o meno dirette sulla sicurezza nazionale in termini di flussi migratori, crisi energetiche, instabilità a livello regionali nel vicinato meridionale, come ci sta mostrando il caso libico.
La Libia è infatti un chiaro esempio di come un’operazione relativamente breve e apparentemente efficace possa condurre uno stato al fallimento e al caos tribale, se non inserita in una strategia di più lungo respiro che includa misure non militari.
Vi è ormai largo consenso sul fatto che gli errori commessi in Libia non si debbano ripetere in circostanze future, ad esempio in Siria. Ciò implica una revisione del concetto di interventismo che includa misure inclusive ed integrative, secondo la logica europea del ”comprehensive approach”.
Parlamento e politica estera
In altre parole, sia benvenuta una nuova stagione interventista della politica estera italiana, a condizione che lo strumento militare sia inteso a sostegno di una strategia più ampia di peace and state-building, che includa mezzi civili, riforma del sistema di sicurezza e dello stato di diritto.
I due ingredienti per sviluppare tale strategia sono consenso fra partiti politici e risorse economiche adeguate.
Il nostro Parlamento dovrebbe verificare, il prima possibile, l’esistenza di tale consenso e la disponibilità delle risorse economiche, anche considerato il quadro di crisi economica. Con questi due ingredienti, l’interventismo all’italiana può andare molto lontano e contribuire a un sistema internazionale più pacifico.
Giovanni Faleg è consulente di ricerca presso lo IAI.
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