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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

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venerdì 27 maggio 2016

Il pesante retaggio della Cina di Mao

A 50 anni dalla rivoluzione culturale
Cina, ricordare Mao per guardarsi da Xi
Nello del Gatto
22/05/2016
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C’è voluto un giorno alle autorità cinesi per decidere se e cosa scrivere in merito alla ricorrenza dei 50 anni dalla Rivoluzione culturale di Mao. Solo a distanza di 24 ore, due giornali (con degli editoriali: nessun commento ufficiale delle autorità, anche se il peso è lo stesso) hanno ricordato uno dei momenti peggiori, ma anche un importantissimo pezzo della storia, della Cina.

Il 16 maggio 1966, infatti, cominciava una delle pagine più oscure dell’umanità che, in un decennio, portò al quasi annientamento di una civiltà millenaria e alla morte di oltre un milione e 700.000 persone.

Con la Rivoluzione culturale, la Cina ha fatto i conti quasi subito. Già sotto Deng Xiaoping, nel 1981, si dichiarò la distanza dal movimento anche se ovviamente si salvò il suo ideatore e i principi che lo ispirarono nell’iniziarla, accusando invece la Banda dei Quattro capeggiata da Jiang Qing, la vedova del Grande Timoniere, di avere sfruttato la Rivoluzione.

Contro ogni tipo di autorità
Il 16 maggio 1966 veniva pubblicata una circolare con la quale si affermava che il progresso maoista cinese era minacciato dal suo interno. In quel momento infatti in Cina, il maoismo era attaccato da un lato dal Grande Balzo in avanti che Mao volle per industrializzare il paese e che invece portò anche alla gravissima carestia del 1960; dall’altro, forze innovatrici e riformiste si muovevano all’interno del partito per riportare all’origine del comunismo il partito e il paese.

Mao, facendosi scudo della sua influenza, fece passare la risoluzione (che venne pubblicata integralmente solo un anno dopo) partendo dal presupposto che i nemici del paese erano all’interno dello stesso partito e invitando di fatto i giovani (che si costituirono poi nelle Guardie Rosse) a combattere qualsiasi tipo di autorità esclusa la sua.

E così fu: dieci anni di vero caos (quel “grande caos che realizza grande ordine”, come lo stesso Mao lo definì in una lettera alla moglie) durante il quale qualsiasi tipo di autorità fu messa almeno in discussione, se non subiva peggiori conseguenze come campi di lavoro forzati, prigionia o uccisioni.

Anche Deng Xiaoping e il padre dell’attuale presidente Xi Jinping subirono la stessa sorte. La guerra dichiarata ai “quattro vecchi” (vecchie tradizioni, vecchia cultura, vecchi costumi e vecchie idee) era cominciata e avrebbe seguito per dieci anni le sorti del suo ideatore, lasciando dietro di sé distruzione e morte.

La repressione dei dissidenti
Di questa scia di morte, forse la vittima più famosa dell’epoca è il presidente cinese Liu Shaoqi: teorico del modello sovietico di sviluppo economico contro quello maoista, fu visto dal Grande Timoniere come il suo maggiore contendente, il pericolo maggiore al suo progetto e fu arrestato come traditore dalle Guardie Rosse, morendo poi in carcere due anni dopo.

In quest’ondata si inserisce anche la misteriosa morte di Lin Biao, il vice di Mao, suo successore designato e capo delle Guardie Rosse, il cui aereo cadde misteriosamente durante una lotta intestina per la successione al Grande Timoniere.

Nonostante questo, la condanna del partito alla Rivoluzione culturale arrivò soltanto nel 1981 con un documento nel quale il movimento venne descritto come una “vera catastrofe”, che non può essere visto “come una rivoluzione o un progresso sociale in nessun senso”. Ma Mao non viene condannato per questo, come invece avviene per la Banda dei Quattro.

Dopotutto è chiaro: il partito comunista cinese, allora come oggi, non può rinnegare se stesso ma soprattutto la sua leadership, perché aprirebbe sacche di contestazione e la possibilità di critiche che non possono essere accettate. Lo stesso Deng Xiaoping, avversario di Mao ma nuovo leader dalla Cina e padre del paese com’è oggi, anche se subì moltissimo da Mao e dalle Guardie Rosse, disse che il Grande Timoniere aveva commesso errori solo al 30% e quella percentuale era legata solo alla Rivoluzione culturale.

Commemorazioni tardive e rivoluzioni 2.0
Non c’è stata nessuna censura statale alla ricorrenza dei 50: nessun commento è stato bandito da Internet, anche se c’è stato un tacito silenzio. Nessuno ne ha parlato, sulla stampa, sui giornali. Solo il giorno dopo (anticipato nella notte sull’edizione online), un editoriale in quarta pagina del Quotidiano del Popolo, l’organo del partito (poi seguito anche dal Global Times, vicino alle posizioni dell’esercito), ha ribadito la condanna espressa nel 1981 chiedendo al paese di stringersi al suo presidente Xi Jinping e alle sue azioni.

Già, il “nuovo Grande Timoniere” della Cina. Ma per molti analisti, Xi non ha imparato (o ha imparato troppo bene) la lezione inflitta a suo padre durante la rivoluzione culturale. Il presidente, infatti, pare essere al comando di una “rivoluzione culturale 2.0”, come la chiamano in molti.

La sua lotta alla corruzione all’interno del partito (“colpiamo tigri e mosche”) ha di fatto decapitato i suoi avversari politici; ha sapientemente creato un nuovo culto della personalità attraverso un soft power mediatico nel paese e fuori; ha stretto il controllo sui media, allontanando tutti coloro che non si adeguano; ha reso più difficile la vita ai giornalisti sia cinesi sia stranieri presenti nel paese e, secondo le stime delle organizzazioni non governative che si battono per i diritti umani, sotto di lui sono aumentati i casi di arresti, detenzioni, condanne e allontanamenti dei dissidenti.

Oggi come allora, il paese del Dragone non parla di questa “rivoluzione”, non sentendo sulle proprie spalle il peso di queste decisioni e di queste azioni. Dopotutto, le autorità di Pechino perseguono il loro scopo (fino ad ora riuscito) di migliorare le condizioni di vita in Cina, anche utilizzando metodi non proponibili in altri paesi. Fino a che dura, fino a quando saranno in grado di offrire panem et circenses, difficilmente qualcuno sarà messo in discussione.

Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo (Twitter: @nellocats).
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lunedì 16 maggio 2016

Terrorismo, immigrazione e mancanza di strategia

Europa e terrorismo
Verso una Frontex terrestre
Diego Bolchini
11/05/2016
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Scovare le connessioni tra i terroristi per vanificare il loro operato in Europa. È questo l’obiettivo dell’Europol che attraverso la cooperazione internazionale tra organismi di polizia dei diversi Stati, insiste sull’importanza dello scambio di esperienze operative.

Le nuove realtà operative dell’Europol
Al fine di raggiungere questo complesso obiettivo, al quale va sommato quello contiguo rappresentato dalla lotta ai network criminali di trafficanti di esseri umani, sono nati a inizio anno 2016 due Centri specialistici dipendenti dall’Europol.

Il primo è l’European Counter-Terrorism Center, Ectc, un progetto diretto da Manuel Navarrete Paniagua, già alto funzionario Guardia Civil con vasta esperienza operativa nell’anti-terrorismo spagnolo e nel contrasto all’Eta. Il secondo è l’European Migrant Smuggling Center, Emsc, diretto da Robert Crepinko, già funzionario della polizia slovena.

Secondo quanto dichiarato dai responsabili Europol, diversi agenti operanti sotto il coordinamento dell’Ectc e in stretto raccordo con altre Agenzie europee come Frontex sono stati di recente dislocati in “punti caldi” (c.d. Hot Spots, vale a dire aree caratterizzate da specifica e rilevante pressione migratoria) dell’Europa Sud-Mediterranea in attività di controllo nei centri di registrazione per i rifugiati. Le indagini, condotte a scopo di prevenzione sono connesse alla sicurezza ed applicate ai flussi migratori correnti.

Terroristi confusi tra i migranti?
L’attività degli agenti è finalizzata a identificare l'eventuale presenza di potenziali soggetti radicalizzati, aventi scopi di infiltrazione terroristica in Europa. Essa è condotta con diversi strumenti e modalità contemplando supporto investigativo, scambio informativo e riscontri da banche dati.

Le nuove attività in Hot Spots saranno un banco di prova importante nell’ottica della definizione e validazione di nuove procedure di sicurezza, richieste dagli ingenti flussi migratori verso l’Unione. In questo settore Europol esprime una crescente capacità di analisi e interscambio informativo, svolgendo altresì attività di sostegno a potenziamento delle singole forze di polizia degli Stati Membri.

Il compito non sarà verosimilmente facile. Tra ipotizzabili mimetismi ideologici e contraffazioni documentali, l’identificazione di eventuali soggetti criminali da intercettare all’interno dei flussi di migranti richiederà un forte supporto analitico e tecnologico.

La specificità della potenziale minaccia odierna consistente nel rischio di avere terroristi “confusi” tra i migranti - seguendo quasi il vecchio slogan maoista del “vivere come il pesce nell’acqua” - richiederà inoltre capacità professionali aggregate, combinando esperti di terrorismo (in relazione a profili individuali da individuare e monitorare) e di criminalità organizzata (in relazione alle filiere di trafficanti di esseri umani e illegal immigration networks, che potrebbero facilitare eventuali ingressi di terroristi per semplice profitto economico).

In tale contesto, la canonica distinzione di categorie tra nazionale e internazionale, mondo degli Affari interni e degli Affari esteri appare sempre più labile e sfumata: gli organismi di polizia giudiziaria si trovano a fronteggiare, de facto, spettri di minaccia ramificati, che vedono sempre più spesso collegamenti trasversali del tipo: Stato di residenza/Stati esteri/Stati di passaggio.

L’Italia e la minaccia jihadista
Muovendo da una prospettiva nazionale, appare lecito affermare che il piano investigativo e il piano giudiziario italiano stanno lavorando già da anni in modo significativo nell’ottica di un efficace monitoraggio delle aree a rischio estremismo jihadista.

Tale esperienza e capacità accumulata potrà essere un valido contributo rispetto alle iniziative promosse nel contesto di Polizia europea in un’ottica di reciproca collaborazione.

Si pensi, solo per citare una relativamente recente attività investigativa dell’antiterrorismo interno, all’operazione Masrah condotta dal Ros dell’Arma dei Carabinieri e dalla Procura delle Repubblica di Bari nel 2013.

Nel corso di questa operazione fu individuata una cellula di presunti terroristi islamici, avente base operativa nella città pugliese di Andria. In relazione a questa iniziativa investigativa furono eseguite diverse ordinanze di custodia cautelare in Sicilia, Lombardia e prodotto un mandato di arresto - quasi precorrendo tempi e luoghi - in Belgio: l’ex imam di Andria fu infatti arrestato proprio a Bruxelles.

L’auspicio da condividere oggi è che, ove esistenti, tante altre maschere possano essere divelte, svelando in tal modo eventuali progettualità ostili.

Diego Bolchini è analista di relazioni identitarie, autore di contributi per diverse riviste specializzate nei settori afferenti geopolitica, sicurezza e difesa.
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lunedì 9 maggio 2016

Uno scenario designato

Europa
Brexit, se si riaccende la fiamma 
Antonio Armellini
03/05/2016
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Come andrà a finire il voto sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. L’ambasciatore Antonio Armellini delinea i due scenari opposti, ragioni e conseguenze. Nel primo articolo si era immaginata la vittoria della fuoriuscita di Londra dall’Ue. In questo si ipotizza invece la prevalenza nelle urne del fronte opposto.

Dunque è ufficiale: Londra rimane membro dell’Unione europea, Ue. L’incertezza, dopo che i primi exit poll avevano indicato un testa a testa, è finita nella giornata di ieri con la conferma che il “soccorso rosso” del voto laburista nel Nord dell’Inghilterra ha funzionato meglio del previsto.

Il numero di votanti ha superato di poco il 60% e lepercentuali - 52% a favore e 41% contro - ricordano quelle del referendum sulla Scozia del 2014. Le grandi città - Londra, Manchester, Birmingham - hanno votato compattamente per il remain, come la Scozia e l’Irlanda del Nord, ma quello che soprattutto ha contato è stato l’afflusso maggiore del previsto dei giovani: complice forse il cattivo tempo, sono stati probabilmente loro a decidere l’esito della contesa.

L’appoggio degli shirese del Sud dell’Inghilterra per il brexit non ha subito incrinature, cosicché il paese si presenta sempre più diviso su linee geografiche (Sud e Nord, Inghilterra e Irlanda e Scozia e Galles); generazionali (giovani e laureati e pensionati e lavoratori non qualificati); socio-culturali (grandi città e provincia e zone rurali).

Voto razionale
L’ultimo psicodramma greco, e il fallito tentativo di dare vita a un vero sistema di controllo comune alle frontiere mentre l’accordo con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan traballa vistosamente e si è aperto un nuovo drammatico fronte con la Libia, non sono bastati a convincere l’elettorato a scegliere quel miscuglio tipicamente britannico di insularismo fatto di diffidenza per tutto ciò che sa di straniero, di nazionalismo nutrito da nostalgie imperiali per una inesistente “anglosfera” in cui trovare rifugio salvifico dall’Europa, su cui avevano puntato i brexiteers per contrastare il coro degli argomenti che quasi tutta l’industria, la City e la grande maggioranza degli alleati avevano intonato per sostenere il governo nella campagna per il remain.

Non per questo il voto è stato ispirato da considerazioni razionali: del resto, di razionalità in questa campagna elettorale se ne è vista ben poca. Più semplicemente, le correnti psicologiche e “di pancia”, su cui il brexit pensava di fare leva, hanno ceduto il passo ad un’altra fondamentale componente della “pancia” del paese: il pragmatismo che l’ha indotto a scegliere il “diavolo che si conosce” piuttosto che farsi sedurre dal salto nel buio verso una immaginaria sovranità.

L’Europa che ha vinto è quella del mercato e delle convenienze economiche: essa - come ha ben chiarito l’eccezione sulla “evercloser union” voluta dal premier David Cameron - ha poco da spartire con l’idea di una Unione di paesi che condividano un comune obiettivo politico di integrazione, per quanto lontana.

Di questa Europa mercantile però gli inglesi hanno, per la seconda volta in quarant’anni, dichiarato di voler fare parte e sta ora agli altri fare i conti con la situazione. E decidere il da farsi.

Europa, un sospiro di sollievo
Le reazioni in Europa sono state, come prevedibile, di sollievo. Angela Merkel ha dichiarato che la Gran Bretagna ha fatto una scelta che la rafforzerà, e con essa rafforzerà tutta l’Europa. Matteo Renzi ha detto che si apre la prospettiva di una sempre più stretta cooperazione fra due grandi paesi che insieme possono costruire una Europa diversa, più libera e vicina ai cittadini.

Hollande si è unito al coro, non senza ricordare che passato questo scoglio decisivo, l’Europa intera deve ora riprendere con lena il cammino verso il completamento dell’Unione.

Tutt’altra musica fra i nuovi paesi membri dell’Europa dell’Est. L’ungherese Viktor Orban e il polacco Andrzej Duda hanno annunciato una riunione straordinaria del “Gruppo di Visegrad” per proporre un asse con la Gran Bretagna volto a superare l’illusione pericolosa dell’euro e mettere fine all’erosione delle sovranità nazionali voluta dalla burocrazia brussellese.

Applauditi in questo dall’Austria e criticati un po’ da tutti gli altri, ma non da Marine Le Pen e Matteo Salvini, che si sono fatti promotori di un manifesto dei movimenti euroscettici europei per “azzerare l’euro e cambiare l’Europa che affama i suoi cittadini” grazie anche (si presume) all’appoggio che a questo progetto dovrebbe dare Londra.

Cameron chiede nuove modifiche
David Cameron ha dichiarato che la Gran Bretagna resta in Europa per cambiarla, non ritenendo sufficiente quanto sin qui ottenuto, e si è impegnato a indire un nuovo referendum se, in capo a due anni, le modifiche richieste da Londra non saranno state accettate.

Una mossa ad un tempo difficile e pericolosa (per la stabilità dell’Ue), con la quale cerca di rafforzare la sua posizione nei confronti della maggioranza euroscettica del partito, decisa a continuare a dare battaglia.

Più che da Boris Johnson - il cui ruolo di “parricida” ufficiale appare un po’ appannato per l’eccesso di violenze retoriche fini a sé stesse - dovrà guardarsi dai mediatori che già si annunciano all’interno del governo. Da Michael Gove soprattutto, anche se un pensierino potrebbe farlo Philip Hammond.

Nigel Farage si è dimesso come annunciato e manovra per far confluire l’Ukip nei tories spingendone l’asse ancor più verso destra. Cosa questa che potrebbe innescare la reazione opposta di quanti guardano a personaggi come Kenneth Clarke per dare vita a un nuovo partito moderato e filo-europeo, in cui accogliere anche quanto resta della pattuglia liberale.

Ue, esame rimandato
La Gran Bretagna che rimane nell’Ue consente a questa di rimandare l’esame autocritico che una vittoria del brexit avrebbe reso inevitabile. Ma non di rinunciarvi: Londra continuerà ad opporsi a qualsiasi tentativo di dare maggiore coesione al processo di integrazione e starà attenta ad evitare, soprattutto, ogni decisione che immagini possa incidere negativamente sui suoi interessi.

Allo stesso tempo, appare sempre più chiaro che il futuro dell’euro è legato alla capacità dei suoi membri di compiere un salto di qualità in senso sovranazionale: un ministro unico delle Finanze, senza una politica fiscale comune e soprattutto senza un progetto politico condiviso, rischierebbe di essere l’ennesimo fuoco fatuo dell’Europa unita.

C’è una forte contraddizione fra l’Europa di Altiero Spinelli e quella di Margaret Thatcher: andrà risolta e nessuna delle parti ha ben chiaro come. Una grande confusione sotto il cielo, di cui non si sentiva davvero il bisogno.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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martedì 3 maggio 2016

Immigrazione; nuove prospettive

Accordo Ue-Turchia
Migranti, quei minori ai confini d’Europa
Giovanna di Benedetto
27/04/2016
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In Grecia, dopo l’accordo fra Unione europea e Turchia, migliaia di bambini e minori migranti soli sono a rischio di violenza e sfruttamento.

Le enormi difficoltà che questi minori hanno affrontato per arrivare in Europa, mettendo a rischio ancora una volta la loro vita - oltre 1.260 persone risultano morte o disperse in mare dall’inizio dell’anno, nel tentativo di raggiungere le coste del Vecchio continente - non sono finite.

Cercavano una speranza e un’occasione di futuro, hanno trovato muri e filo spinato. L’Unione europea ha abbandonato i minori che viaggiano soli ed è venuta meno ai propri obblighi chiudendo le frontiere e implementando l’accordo Ue-Turchia, senza assicurarsi che venissero rispettate le salvaguardie legali.

Bambini non accompagnati
Dall’inizio dell’anno sono più di 154.000 i profughi che sono arrivati in Grecia; due su tre sono donne e bambini. Di questi, almeno 2.000 sono minori non accompagnati - provenienti per lo più da Pakistan, Afghanistan, Siria e Iraq - che hanno raggiunto l’Europa da soli o che hanno perso la loro famiglia lungo il tragitto e ora sono bloccati in Grecia in seguito alla chiusura delle frontiere, a fronte di soli 477 posti disponibili a ospitarli in strutture adeguate in tutto il Paese.

Il 75% di loro non ha un posto sicuro dove stare. Non si sa dove collocare i nuovi arrivati che, spesso, vengono rinchiusi in centri di detenzione o commissariati di polizia per lunghi periodi di tempo. Molti dei minori non vengono registrati al loro arrivo in Grecia e rimangono quindi completamente invisibili alle agenzie umanitarie e governative, a volte vengono identificati come maggiorenni o come accompagnati da altre persone e non ricevono il sostegno a cui hanno diritto.

In Grecia si verifica il paradosso che, da un lato ci sono bambini e giovani rinchiusi in centri di detenzione - una misura che non può mai essere considerata corrispondente al migliore interesse del minore -, mentre dall’altro tanti giovani migranti soli e vulnerabili sono lasciati senza riparo e al freddo, come succede per esempio ad Atene, perché l’offerta di alloggi sicuri e servizi adeguati è nettamente inferiore alla domanda.

Dormono all’aperto in luoghi di accoglienza non ufficiali, sempre più precari, e sfuggono alle maglie del sistema. Sono esposti a numerosi rischi come quello di abuso, sfruttamento da parte dei trafficanti, rischiano di ammalarsi e sono molto fragili a livello psicologico.

Attualmente, solo al Campo di Moria a Lesbo, dove ci sono oltre 3.300 persone, 157 minori non accompagnati sono rinchiusi nell’area di prima accoglienza e 62 nella zona gestita dalla polizia, dove vivono in stanze sporche e non hanno letti a sufficienza, in una condizione estremamente pericolosa per il loro benessere fisico e mentale. Non hanno accesso ai servizi legali o ad altri tipi di assistenza di base di cui avrebbero urgente bisogno.

Rifugi informali e rischio abusi
Anche al confine settentrionale della Grecia, i bambini e i minori che viaggiano soli dormono in rifugi informali e continuano a essere esposti ad abusi, violenza e sfruttamento. Molti erano in viaggio per raggiungere i familiari in Europa quando, il mese scorso, si sono visti sbarrare i confini. Solo a Idomeni, divenuta tristemente nota come il luogo simbolo di questa crisi migratoria, oltre 10.000 persone aspettano disorientate, in attesa di capire cosa ne sarà del loro futuro. Tra queste, migliaia sono i bambini, la maggior parte dei quali con meno di 10 anni.

Save the Children ha visto minori soli e vulnerabili dormire nel fango o dentro cartoni, accanto a fuochi improvvisati accesi con materiale disparato, pur di riscaldarsi nelle fredde notti trascorse all’addiaccio, esposti al rischio di ammalarsi a causa delle critiche condizioni igienico-sanitarie e a violenze in un contesto di totale promiscuità.

In Grecia, Save the Children ha raggiunto oltre 352.000 profughi e migranti, di cui oltre 138.000 bambini, con programmi di nutrizione, distribuzione di beni di prima necessità, aree dedicate a mamme e neonati, gestione di rifugi per minori non accompagnati, in coordinamento con organizzazioni e autorità locali.

Negli spazi a misura di bambino, che Save the Children ha allestito a Idomeni, così come a Lesbo e in tante altre strutture delle isole e della terraferma, i piccoli frequentatori provano, con l’aiuto degli educatori, a recuperare un senso di normalità, tornando per un po’ davvero a sentirsi di nuovo bambini.

Giovanna di Benedetto è Ufficio stampa presso Save the Children Italia (ufficiostampa@savethechildren.org (@SaveChildrenIT).
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