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martedì 28 giugno 2016

Brexit: si deve ripensare a quale Europa costruire

Brexit
L’Europa di Spinelli contro quella della Thatcher
Antonio Armellini
25/02/2016
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David Cameron ha ottenuto più o meno quello che voleva; i Ventisette hanno concesso più o meno quello che ritenevano possibile. Il risultato è un compromesso che forse eviterà la fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, Ue, ma che lascia aperti molti interrogativi e fa intravvedere pericoli del cui impatto non tutti sembrano essersi resi conto.

Addio a un’Ue sempre più stretta
La cancellazione dell’impegno condiviso per una “unione sempre più stretta” è stata considerata a lungo alla stregua di una clausola di stile, o poco più, e lo stesso Cameron la aveva, almeno all’inizio, presentata così.

Man mano che ci si è avvicinati alla stretta finale del negoziato ci si è resi conto che essa è destinata a modificare l’impianto istituzionale europeo in maniera ben più dirompente.

Il mantra di un gruppo di paesi che condividono il medesimo obiettivo di dare vita ad una struttura sovranazionale comune - sia pure con tempi modalità differenziate - non ha più fondamento. Era un mantra un po’ frusto, qualcuno potrà osservare, ma era anche l’unico a costituire il tessuto politico unificante del progetto europeo.

Ora il re è nudo e nessuno può fingere di ignorarlo: per l’Ue si prospetta un futuro non già basato su geometrie variabili, velocità differenziate e quant’altro, bensì su due Europe distinte: una di Altiero Spinelli, intorno all’euro, una di Margaret Thatcher, basata sul mercato.

Due Europe separate e interconnesse - in una reinterpretazione del concetto di Europa “delle convergenze parallele” - nel quadro di una Ue più ampia - quella di Coudenhove Kalergi - basata su principi fondamentali di libertà, economia di mercato e diritti della persona, in cui si potrà far posto alla Turchia e si dovrà cercare di far ragionare gli Orban di oggi e di domani.

A volerla cogliere, l’accordo sul Brexit potrebbe fornire l’occasione per un ripensamento a fondo della natura e delle finalità dell’Ue (è quanto sostengono anche gli euroscettici inglesi, sia pure in una prospettiva diversa). Come potrà articolarsi l’Europa politicamente integrata della moneta? Quale sarà la sua governance? Quale la tempistica e le modalità di un processo unificante che dovrà partire da una unione economica e di bilancio, ma non fermarsi alla creazione di un unico ministro delle finanze? Chi ne saranno i membri?

L’Italia e la revisione dell’identità europea
Immaginare che tutti i Diciannove saranno disposti a compiere il salto di qualità verso l’unione sovranazionale che la sopravvivenza a lungo termine dell’euro richiede non è assolutamente scontato. Così come non è scontato se, e come potrà/vorrà parteciparvi un’Italia che sembra oscillare fra bordate euroscettiche e dichiarazioni d’impegno di sapore federalista (si veda l’ultimo position paper di palazzo Chigi).

Come verranno definite le relazioni fra l’Europa politica e l’Europa del mercato? Come si potrà evitare che la scomposizione del processo europeo avviata con il compromesso sul Brexit - in tema di immigrazione, welfare, rapporti finanziari - non diventi strutturale, alterandone definitivamente la natura? Come, di conseguenza, far sì che l’eccezionalissimo britannico resti tale, mentre si profilano all’orizzonte richieste del medesimo segno (Danimarca e Irlanda si agitano già)?

L’Italia ha storicamente svolto un forte ruolo propositivo nella costruzione politica dell’Europa: la debolezza francese e i condizionamenti della Merkel potrebbero consentirle di assumere la guida dell’indispensabile revisione dell’identità europea. Ci vorrebbe un forte colpo d’ala, che almeno per ora non si vede, mentre il governo Renzi resta ancorato a schemi come quello di sei fondatori che, aldilà del dato simbolico, è superato tanto dalla contingenza come dalla storia.

Brexit, campagna elettorale
La campagna per il referendum è partita in maniera diversa da come Cameron si aspettava. Sul piano razionale, vi sono pochi dubbi che per Londra uscire dall’Ue avrebbe effetti fortemente negativi; la più che probabile secessione della Scozia potrebbe decretare addirittura la fine del Regno Unito. La grande industria e la borghesia cosmopolita delle grandi città ha preso decisamente posizione per il sì, ma non è detto che basti.

Sull’esito del voto le valutazioni razionali rischieranno di cedere il passo a pulsioni che di razionale hanno poco e che sono profondamente radicate nelle zone rurali e nella vecchia cintura industriale: si tratta di un elettorato che diffida della City e che vede nell’Europa un pericoloso cavallo di troia della globalizzazione, dalla quale difendersi rivendicando l’insularismo della propria britishness. Gioca contro di ciò il tradizionale pragmatismo degli inglesi, che li porta in genere a preferire il “diavolo che si conosce” al rischio di nuove avventure.

Vittoria del Sì, ma …
Mi sentirei quindi di dire che - salvo stravolgimenti dell’ultimo momento, come una nuova crisi dei migranti o l’esplosione del caso Grecia - il sì prevarrà con un margine ristretto, simile a quello del referendum per la Scozia. Se così dovesse essere, il problema inglese non sarebbe risolto, ma continuerebbe a trascinarsi indefinitamente, con una Londra sempre più riottosa e alla ricerca di ulteriori scappatoie che allontanino il pericolo di finire contaminata dall’aborrito progetto di integrazione politica sovranazionale.

È quello su cui punta Boris Johnson, il quale si è schierato per il no ma ha poi spiegato, in un lungo articolo sul Daily Telegraph, di non volere l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, ma di volersi servire del no per negoziare ulteriori concessioni con Bruxelles.

Sul piano interno il suo calcolo ha senso: se David Cameron dovesse vincere il referendum alla grande, le possibilità di Boris Johnson di soffiargli il posto alle prossime elezioni si ridurrebbero a zero mentre, nel caso di vittoria del no, le cose muterebbero a suo favore.

Sul piano comunitario però Johnson, e i molti che a Londra la pensano come lui, sottovalutano gravemente l’insofferenza degli altri partner per questa costante, querula insistenza britannica nell’accettare negando, nel negoziare ripromettendosi di cambiare idea. La pazienza degli Eurocrati potrebbe stavolta essere davvero finita.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
 
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Sempre più complicata la prospettiva mondiale

Economia
Mondo multipolare tra conflitto e cooperazione
Marco Magnani
15/06/2016
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Il Quantitative easing della Fed, l’invecchiamento demografico del Giappone, la Primavera araba e la minaccia di cambiamenti climatici sono eventi in apparenza distinti e distanti. Lo stesso vale per la politica monetaria di Mario Draghi, le elezioni presidenziali americane, il rallentamento dell’economia cinese, il rischio Brexit, il prezzo del petrolio, l’accordo sul nucleare con l’Iran.

In realtà sono fenomeni molto più intrecciati di quanto non sembri. I collegamenti tra politica monetaria, crescita economica e affari internazionali ci sono sempre stati ma oggi sono tali da aumentare esponenzialmente la difficoltà di comprendere i rapporti causa-effetto e di gestire efficacemente le crisi. Lo studio delle interdipendenze nel mondo attuale è quindi fondamentale per i policy-maker.

Il mondo semplice dei blocchi contrapposti
Complessità e interdipendenze sono aumentate rapidamente. Solo qualche decennio fa il mondo era più “semplice”. In politica estera, la netta contrapposizione tra i due blocchi della “guerra fredda” garantiva il mantenimento di un certo equilibrio. Le crisi erano in gran parte gestite con accordi, espliciti o di fatto, tra Washington e Mosca. In caso di conflitto, nemici e alleati erano facilmente identificabili.

In campo economico, la ripartizione era tra paesi industrializzati e in via di sviluppo. Gli Stati Uniti erano l’unica vera locomotiva che trainava l’economia mondiale attraverso importazioni di merci ed energia e gran parte del mondo finanziava i due grandi deficit americani.

I fattori di crescita erano chiari. Le decisioni della Fed le uniche veramente rilevanti, alle quali le altre Banche centrali si adeguavano. L’utilizzo delle leve tradizionali di politica monetaria a Washington determinava conseguenze in larga misura prevedibili sull’economia statunitense e mondiale. Anche in campo economico le crisi erano gestibili in gruppi ristretti come il G7.

Gli schieramenti erano definiti anche in campo energetico: da una parte i paesi produttori di petrolio e dall’altra quelli industrializzati importatori di energia. Molti dei primi erano organizzati nel cartello dell’Opec. I secondi, con grandi fabbisogni e poche fonti alternative, particolarmente vulnerabili ad aumenti del prezzo del greggio. Anche in questo caso, la realpolitik facilitava accordi e compromessi nelle situazioni di crisi che potevano incidere su prezzo e forniture di petrolio.

Bipolarismo, teoria dei giochi e comportamenti razionali
Nel mondo “semplice” dei blocchi gli attori erano pochi e si conoscevano bene. Politica estera e politica economica erano una sorta di partita a scacchi tra giocatori razionali. La fiducia reciproca era poca ma, prendendo a prestito la terminologia della teoria dei giochi, la “ripetizione del gioco” garantiva comportamenti razionali da parte dei giocatori.

La teoria dei giochi dimostra che un atteggiamento di cooperazione produce maggiori vantaggi rispetto a uno egoistico. A patto che ci sia fiducia reciproca tra gli attori, oppure che si abbia un approccio di lungo periodo (cioè che il gioco sia ripetuto più volte) che induca a comportamenti razionali.

Il dilemma del prigioniero - una delle versioni più semplici di game theory, applicato a economia, politica internazionale, strategia militare, ecologia - mostra come un comportamento egoista da parte dei giocatori arrechi un danno generale mentre, al contrario, un atteggiamento di cooperazione razionale sia la soluzione migliore per tutti.

Il presupposto è che tutti i “giocatori”, non solo uno, si comportino in modo cooperativo. Ciò è più facile che avvenga se i giocatori sono pochi, si conoscono reciprocamente e tendono a rimanere gli stessi nel tempo.

Dall’unica superpotenza al mondo multipolare
Con la fine della guerra fredda e un prolungato periodo di diffusa crescita economica cambiano gli equilibri politico-economici mondiali. Nell’arco di tempo tra le due date simboliche del 9 novembre 1989 (caduta del muro di Berlino) e dell’11 settembre 2001 (attacco terroristico al World Trade Center di New York), gli Stati Uniti sono l’unica superpotenza politica, militare ed economica a livello globale.

In questa veste, Washington riesce quindi a imporre al mondo un atteggiamento “cooperativo”. Ciò facilita la gestione delle crisi e il raggiungimento di equilibri internazionali. È l’applicazione sul piano internazionale di quanto intuito dal filosofo inglese Hobbes quattro secoli prima, con riferimento agli stati nazionali. Per Hobbes la soluzione alle naturali tensioni tra gli uomini è la “costrizione”: in questo contesto, l’introduzione dello Stato, con le sue leggi, garantisce la collaborazione tra i cittadini.

Gli Stati Uniti, grazie alla forza economica, a quella politico-militare e alla Fed, hanno esercitato questo ruolo con buoni risultati per l’equilibrio mondiale. Oggi, pur rimanendo Washington la principale superpotenza, è emerso un nuovo scenario multipolare caratterizzato da un elevato numero di attori e dalla loro crescente interdipendenza. I rapporti causa-effetto, in tutti i settori, sono molto più complessi da decifrare, le crisi più impegnative da gestire e le decisioni di policy più difficili da prendere.

Il mondo complesso delle interdipendenze
In politica estera, il parziale disimpegno degli Stati Uniti da molti fronti e l’affermarsi di diverse potenze regionali hanno fatto saltare molti equilibri e aumentato il grado d’incertezza. Le vicende di Siria, Libia e Iraq ne sono un esempio.

In economia, i motori di crescita mondiale sono oggi almeno quattro: Stati Uniti, Europa, Cina ed economie emergenti. Da una parte, ciò allarga la base della crescita, dall’altra rende più difficile utilizzare efficacemente i tradizionali strumenti di politica fiscale e monetaria.

La politica monetaria espansiva della Fed volta a far uscire gli Stati Uniti dalla crisi spinge i capitali alla ricerca di rendimenti verso settori a rischio e paesi emergenti. E genera bolle speculative difficili da controllare e pericolose per tutti.

È accaduto a inizio anni ’90 con il Sudest asiatico, dopo il 2001 con il mattone e rischia di ripetersi in Brasile. D’altra parte la mera aspettativa di aumento dei tassi americani sta provocando nervosismo nei mercati finanziari, rientri di capitale negli Stati Uniti e rafforzamento del dollaro, con il rischio di mettere in ginocchio molte economie emergenti.

Anche i prezzi di petrolio e commodity sono importanti. Il picco del greggio di un paio d’anni fa, evento in passato indiscutibilmente negativo per Washington, ha incoraggiato gli investimenti nell’estrazione di shale gas avvicinando gli Stati Uniti all’indipendenza energetica.

D’altro canto, il recente crollo del petrolio, certamente favorevole per le economie industrializzate, produce effetti collaterali e rischi anche per Europa e Stati Uniti. Tra questi, la difficoltà dei paesi produttori di petrolio a finanziare la spesa pubblica, con conseguenti rischi d’instabilità sociale e politica. Si pensi a Russia, Arabia Saudita e Nigeria.

Lo stesso vale per i prezzi di altre materie prime, in particolare dei generi alimentari che nei paesi in via di sviluppo sono importanti per la stabilità interna. Si ricordi che la Primavera araba nel 2011 coincide con il picco dei prezzi delle materie prime.

Infine, nel mondo “complesso” anche i cambiamenti climatici sono sempre più un rischio per la crescita economica e la stabilità dei mercati finanziari. L’accordo COP21 a Parigi ha quindi una forte valenza internazionale anche da un punto di vista economico.

Equilibri instabili e “terzo paradigma” di Caillé
Nel mondo multipolare di oggi, ogni paese ha la tentazione di perseguire il proprio interesse. Ciò rende molto più complesso raggiungere equilibri e affrontare con efficacia le crisi. Nonostante anche nei “giochi complessi” la soluzione più razionale e più conveniente per i diversi attori sia la collaborazione reciproca, la tentazione di giocare “contro” gli altri è più forte.

In questo contesto la “costrizione” a cooperare à la Hobbes è ardua, forse impossibile. Non la possono e vogliono esercitare più gli Stati Uniti e non è in grado di realizzarla l’Onu. L’alternativa è la fiducia, al contempo fonte e risultato di forti relazioni tra le parti. Solo in presenza di fiducia reciproca, infatti, i governi, le economie e le istituzioni possono entrare in relazioni di cooperazione. L’introduzione di quello che il sociologo francese Alain Ciallé chiama il “terzo paradigma”, basato sulla relazione, può aiutare a superare le contrapposizioni e raggiungere equilibri tra gli attori.

Nel mondo complesso di oggi, fenomeni apparentemente distanti sono in realtà fortemente intrecciati. Ciò rende difficile raggiungere situazioni di equilibrio e gestire le crisi. In tutti i settori.

Le alternative sono due: il caos, che spesso porta a situazioni di conflitto, o l’aumento della cooperazione, per ottenere la quale è necessario migliorare la qualità delle relazioni tra paesi e istituzioni. Il punto di partenza è formare una classe dirigente che comprenda a fondo le interdipendenze tra i fenomeni di politica monetaria, crescita economica e affari internazionali.

Marco Magnani è Fellow allo IAI e Senior Research Fellow alla Harvard Kennedy School; ha pubblicato “Sette Anni di Vacche Sobrie” (Utet), Creating Economic Growth (PalgraveMamillan), Terra e Buoi dei Paesi Tuoi (Utet) e collabora con IlSole24Ore. Nell’autunno 2016 offrirà il corso Monetary Policy, Economic Growth and International Affairs a Scienze Politiche della Luiss. (Twitter @marcomagnan1) www.magnanimarco.com.

giovedì 23 giugno 2016

Un Mondo verso la precarietà

Commercio internazionale
Verso regole più fragili e frammentate
Laura Mirachian
16/06/2016
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A molti forse è sfuggita l’inedita disputa avviata dagli Stati Uniti nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) in relazione al giudice sud-coreano Seung Wha Chang. A Chang viene negata l’approvazione a un secondo mandato nell’Organo di Appello del Meccanismo per la Risoluzione delle Controversie per aver travalicato il proprio compito di mera interpretazione delle norme vigenti in sentenze rivelatesi sfavorevoli alle tesi americane.

L’indebolimento delle regole universali
Il Meccanismo in questione è un pilastro del sistema commerciale globale, inaugurato con gli Accordi di Marrakesh nel 1994. Prevede che, nel caso di contenzioso sui comportamenti commerciali di un’impresa, venga istituito un Panel di esperti giuridici la cui pronuncia, con possibilità di appello, venga poi adottata dall’intera membership in apposita assemblea plenaria.

Chiamati in giudizio sono i due (o più) Stati interessati. L’adozione in plenaria è pressoché automatica in quanto acquisita mediante la formula “unless there is consensus against the adoption”. La stessa procedura si applica poi al monitoraggio dell’attuazione delle sentenze ed eventualmente all’autorizzazione di misure compensative in caso di mancata modifica della legislazione nazionale incriminata. L’intero procedimento si svolge quindi tra Stati, richiede l’unanimità della membership, e ha carattere cogente.

Rari sono stati i casi di opposizione alla nomina o alla conferma dei giudici in questi decenni. Ma contestare un giudice nelle attuali circostanze è un segnale di portata particolarmente rilevante.

L’Omc registra infatti un declino di credibilità a seguito dello stallo del Doha Development Round, ciclo negoziale avviato nel 2001 con il fine specifico di un miglior coinvolgimento dei Paesi emergenti e in Via di Sviluppo nel sistema globale di regole del commercio internazionale, e arenatosi nel 2008 per le profonde divergenze in tema di sussidi e sostegni socio-economici specie, ma non solo, nel settore agricolo.

La Conferenza di Bali nel 2013 non ha registrato che risultati marginali. Né le raccomandazioni dell’allora Direttore generale Pascal Lamy, di procedere con gradualità, codificando quanto fosse possibile concordare stadio per stadio, sono valse a rivitalizzare le trattative. Nel frattempo, su iniziativa di Washington va affermandosi la nuova tendenza verso aggregazioni regionali, quali il Ttip (TransatlanticTrade and Investments Partnership) con l’Europa, il cui negoziato è in corso, e il Tpp (Trans-Pacific Partnership), già negoziato, con l’area del Pacifico.

I passi indietro degli Stati Uniti
Washington è stata fin dagli anni ’80 il motore propulsivo della liberalizzazione globale e delle relative regole mondiali. Ha sostanzialmente guidato il processo che ha portato alla creazione dell’Omc e agli ambiziosi risultati dell’Uruguay Round. Ma negli anni, ha poi dovuto riconoscere la difficoltà di gestire al contempo il rispetto di tali regole e la forza delle proprie lobbie interne. Cercando talvolta di difendere l’indifendibile, a fronte di pronunce sfavorevoli dei Panel giudicanti.

Emblematico il caso del contenzioso con il Brasile sui sussidi ai produttori americani di cotone, sanato, dopo anni, non con l’adeguamento della legislazione americana, come avrebbe dovuto essere, ma con un’intesa extra-giudiziale che ha previsto compensazioni per i produttori danneggiati.

Sotto questo profilo, il metodo di Risoluzione delle Controversie dell’Omc si è rivelato per l’Amministrazione americana ingombrante e assai difficile da sostenere. Pesano i meccanismi semi-automatici delle decisioni finali, il consenso universale richiesto per le medesime, e soprattutto il coinvolgimento diretto dello Stato a difesa di interessi specifici del settore privato.

A tutti questi problemi cerca di ovviare il nuovo sistema proposto da Washington nel contesto delle aggregazioni regionali sopra citate. Oltre a limitare il campo di applicazione delle nuove regole ai Paesi Avanzati di cui si suppongono sistemi omogenei (con esclusione quindi di Cina, Russia, oltre che Emergenti e Pvs), in tema di Risoluzione delle Controversie attribuisce al settore privato stesso l’onere di portare uno Stato in giudizio a salvaguardia del proprio specifico interesse (Investor-State Dispute Settlement). Una formula che, se esonera lo Stato dell’impresa reclamante dal coinvolgimento diretto nel contenzioso, statuisce inequivocabilmente, nel momento in cui una sentenza dovesse sancire la modifica della legislazione nazionale dello Stato chiamato in giudizio, il primato dell’interesse privato sul più ampio interesse pubblico.

Il ruolo del negoziato Ttip
Interpretando le forti obiezioni dell’opinione europea, il Parlamento di Strasburgo l’8 luglio dello scorso anno ha adottato una Risoluzione che afferma la necessità di conferire carattere ‘trasparente e pubblico’ al sistema di protezione degli investimenti, nonché ‘l’impossibilità per gli interessi privati di minare la politica pubblica’.

La Commissione, che negozia per la Ue, nel settembre 2015 ha quindi adeguato il proprio approccio negoziale introducendo l’obbligo di assoluta trasparenza, e proponendo due gradi di giudizio e l’impiego di esperti giuridici altamente qualificati al fine di contenere la sfida posta dagli interessi privati. La nuova versione è in discussione con gli Stati Membri e dovrebbe essere sottoposta alla controparte americana entro l’anno.

Un negoziato è un negoziato, e pertanto l’esito finale non è al momento pregiudicato. Ma non sfugge che il confronto su questo particolare capitolo riguarda un aspetto fondamentale della nuova spinta alla globalizzazione, un aspetto che tocca le corde più sensibili dell’Europa - più ancora, se possibile, che la salvaguardia degli standard europei ambientali e sanitari o l’apertura del mercato americano degli appalti pubblici - e cioè la capacità degli Stati di ‘governare’ la globalizzazione.

Correttamente, l’Italia avanza come paracadute il principio del “single undertaking” - nulla è concordato finché tutto non è concordato. Ma la contestazione, in questo momento, del giudice Wha Chang da parte americana non è un buon viatico.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso l’Onu, Ginevra.

domenica 12 giugno 2016

LA proposta italiana per l'immigrazione

Hot spot in mare, ricetta italiana alla prova Ue
Fabio Caffio
09/06/2016
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Spinta dalla necessità di adottare misure per fronteggiare nuovi massicci arrivi via mare, l'Italia pensa di identificare i migranti su navi adibite ad hot spot galleggianti. Si vuole evitare l'ingresso di irregolari economici valutando subito i potenziali aventi titolo a protezione internazionale.

L'obiettivo è condivisibile, ma riserve possono essere espresse da differenti punti di vista, compreso il radicato convincimento dell'Unione europea, Ue, che l'Italia sia, per posizione e vocazione, il principale hub delle persone salvate in mare provenienti da Libia ed Egitto.

Soluzione tattica
Il piano italiano va correlato alla ricerca e soccorso (Sar) dei migranti, obbligo morale e giuridico che l'Italia assolve da sempre a pieno (più di 600.000 persone assistite dal 1991, di cui 300.000 negli ultimi due anni).

L'imbarco su nostri hot spot galleggianti equivarrebbe infatti, secondo le Linee guida dell'Organizzazione marittima internazionale, al raggiungimento di un "luogo sicuro" (place of safety) in territorio italiano, cui consegue, in termini di concessione di asilo, l'attuale sistema di Dublino.

Le limitazioni logistiche di una nave sia pur grande, la presenza di minori, il carattere coercitivo dell'identificazione in funzione di successivi rimpatri, potrebbero tuttavia intaccare il principio che è "sicuro il luogo (...) dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento...".

Contenziosi giuridici sono quindi ipotizzabili. Ma ad essere sul banco degli accusati della Corte europea dei diritti dell'uomo sarebbe l’Italia, mentre nessun addebito verrebbe mosso ai Paesi che hanno preso su proprie navi le persone in pericolo, trasportandole poi su quella italiana.

Salvataggio garantito: attrazione per i migranti?
Il dislocamento di una nave hot spot vicino alla Libia ricalca, in un certo senso, il modulo dell'Operazione Mare Nostrum. Proprio per questo, non bisogna dimenticare l'accusa rivolta all'Italia di aver inconsapevolmente determinato, con il proprio impegno umanitario, un "fattore di attrazione" (pull factor). Nel 2014, esponenti politici britannici osservarono cinicamente che Mare Nostrum incoraggiava a tentare una pericolosa traversata foriera di tragedie.

La questione è ovviamente viziata in partenza, se si considera che l'altissimo numero di persone perite drammaticamente in mare non può essere il frutto di un semplice azzardo.

Vero è, invece, che i trafficanti di esseri umani hanno adattato le loro strategie criminali alla possibilità che migranti, lasciati alla deriva vicino alla Libia o all’Egitto, richiedano con un cellulare l'intervento dell'autorità Sar italiana, certi di contare sul suo intervento anche al di fuori dell'area di nostra competenza regolamentata dal DPR 662/1994.

In rosso i limiti delle zone SAR di Tunisia, Libia e Grecia, nonché di quella pretesa da Malta che ingloba parte della zona italiana.

Europeizzare il Sar
L'Ue è refrattaria a considerare il soccorso in mare come una sua funzione, ritenendolo esclusiva responsabilità nazionale, poiché il salvataggio dei migranti, benché atipico, si inquadra nel normale soccorso ai naviganti a carico dei singoli Stati.

Il massimo sforzo europeo è stato assegnare compiti Sar alle forze marittime di Triton (sulla base del Regolamento Frontex 35/14) e di Eunavfor Med "Sophia", a condizione che le navi di entrambe le operazioni trasportassero in Italia i migranti salvati.

In realtà, il Parlamento europeo, nella sua Risoluzione del 12 aprile 2016 sulla situazione nel Mediterraneo ha affrontato il problema trattandolo, assieme alla politica comune di asilo ed ai ricollocamenti, nell'ambito del principio di solidarietà stabilito dall'art. 80 del Trattato sul funzionamento dell'Unione, Tfue.

Il Parlamento europeo ha perciò suggerito che siano destinate più risorse ai servizi Sar nazionali "nel contesto di un'operazione umanitaria europea dedicata a trovare, salvare ed assistere migranti in pericolo trasportandoli nel più vicino luogo sicuro".

Navi hot spot non italiane 
Finché non si attiveranno canali di immigrazione legali o corridoi umanitari, il salvataggio in mare dei migranti sarà sempre la fondamentale priorità; anche perché la riduzione dei flussi non potrà venire in tempi brevi da Tripoli, che non accetta interferenze straniere nella lotta ai trafficanti, né è un interlocutore simile alla Turchia.

Il Parlamento europeo, consapevole di questo, ha adottato una policy che presuppone, da parte dei Paesi membri, un impegno in mare non necessariamente collegato al trasporto in Italia delle persone salvate.

Qualche giorno fa, un barcone proveniente dall'Egitto, con circa 300 persone a bordo, è affondato a sud di Creta. Cosa impedisce che sia collocato uno hot spot non italiano sulle rotte che dal Mediterraneo orientale passano attraverso le zone Sar greche e maltesi?

Fabio Caffio è Ufficiale della Marina militare in congedo, esperto di diritto internazionale marittimo.

martedì 7 giugno 2016

Migranti: più investimenti più produzione

Immigrazione
Migranti, risorsa non fardello
Rama Dasi Mariani
05/06/2016
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Il grande afflusso di persone verso le frontiere europee ha innescato un dibattito mediatico e politico sull’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo che vorrebbero fare ingresso nel territorio comunitario.

Sebbene l’atteggiamento solidale o meno di ognuno di noi risponda anche a motivazioni culturali, l’oggettività dei modelli economici può aiutare a far chiarezza sui possibili effetti dell’accoglienza e a scacciare i timori ad essa collegati.

In economia si discute da tempo su quali possano essere le reazioni dei mercati all’arrivo dei lavoratori immigrati. È giusto che queste analisi inizino ad essere divulgate e siano di aiuto alle scelte dei governi.

Questo è ciò per cui un nuovo gruppo di esperti capitanati da Philippe Legrain, chiamato Open Political Economy Network, si sta battendo e a cui il 18 maggio scorso il quotidianoThe Guardian ha dedicato un articolo.

Guadagni dell’immigrazione
Brevemente, l’accettazione dei rifugiati costerebbe all’Europa 69mld di Euro tra il 2015 e il 2020, ma produrrebbe un aumento del Pil di 126,6mld di Euro nello stesso periodo. Questo è il risultato della simulazione fatta dal Fondo monetario internazionale, il quale ipotizza un flusso di persone pari al 2,5% dell’intera popolazione europea. In che modo questo avviene? Vediamo ora in maniera semplice quali sono i meccanismi che condurrebbero a questo guadagno netto.

Innanzitutto, la preoccupazione che gli immigrati possano ridurre il salario o le possibilità di impiego dei lavoratori nativi non trova alcun riscontro nei dati. Al contrario, l’ingresso nel mercato della forza lavoro straniera genera delle possibilità di investimento che, se sfruttate, porta all’incremento del numero totale dei posti, lasciando invariato il tasso di occupazione della popolazione ospitante.

Traducendo le parole dello stesso Legrain, possiamo dire che non esiste un numero predefinito di posti di lavoro. Questo dipende dalla grandezza dell’economia e il ritmo con cui esso aumenta va di pari passo con il tasso di crescita del sistema.

Inoltre, gli immigrati sono maggiormente disposti a svolgere mansioni manuali, spingendo i nativi verso incarichi più qualificati. Quelli che ad esempio richiedono una padronanza linguistica superiore e che corrispondono a salari più alti.

Detto diversamente, immigrati e nativi non competono nello stesso segmento di mercato. In secondo luogo, gli immigrati che vengono accolti da un paese, non solo lavorano, ma spendono anche, sostenendo le domande per consumi delle economie in crisi.

Parlando strettamente di bilanci pubblici, invece, le imposte e i contributi pagati dai lavoratori stranieri in regola sono maggiori della spesa destinata ad essi. Questo perché non conoscono e non beneficiano di tutti i servizi a disposizione della popolazione nativa. Inoltre, il gruppo degli stranieri è caratterizzato da una età media più bassa e il ringiovanimento che apportano aiuta la sostenibilità dei sistemi pensionistici.

Da rifugiati a lavoratori
Per il momento, quindi l’ipotesi che i rifugiati siano un fardello economico per l’Europa è da respingere al mittente. Tuttavia, gli effetti appena descritti si realizzano a delle condizioni. Prima fra tutte è che si lasci entrare gli immigrati nella forza lavoro, trasformando la loro posizione da rifugiati a lavoratori.

Dovrebbe essere concesso di trovare un impiego anche a coloro che sono in attesa di processo della propria domanda di asilo per contribuire così alle spese dello Stato. In parole più semplici, se l’Europa non permette ai rifugiati di lavorare, si condanna da sola a sostenere il costo dell’immigrazione, come una madre che si lamenta di dover stare dietro ad un figlio che lei stessa non lascia crescere.

Più investimenti e più produzione
La seconda condizione per la realizzazione di una crescita derivante dall’immigrazione riguarda un aspetto più tecnico. È importante che le imprese reagiscano all’aumento della forza lavoro effettuando nuovi investimenti. Per chi ha familiarità con i modelli economici è banale che il minor costo del lavoro immigrato dia l’incentivo a progetti imprenditoriali nuovi e più grandi, ma sa anche che questo dipende dal grado di concorrenza nel mercato. Se la competizione tra le imprese non spinge queste ultime ad ampliare la produzione, allora ciò che si realizza è una situazione di bassi salari ed alti profitti.

Legato a questo problema redistributivo vi è quello della domanda. In media, i salari sono una classe di reddito con una propensione al consumo maggiore di quella dei profitti. Questo significa che di ogni euro una parte maggiore viene consumata e una minore risparmiata. Se, perciò, si leva ai lavoratori e si dà alle imprese non si osserva l’effetto espansivo della domanda per consumi auspicato e una parte di produzione può rimanere invenduta.

In conclusione, un disegno istituzionale sbagliato può impedire che un miglioramento economico si realizzi. È giusto, perciò, che i governi prendano coscienza della risorsa che i lavoratori stranieri rappresentano e si adoperino per realizzare le giuste riforme affinché vengano integrati e favoriscano la crescita dell’intero paese che li ospita.

Rama Dasi Mariani è dottoranda di economia politica presso l’Università Sapienza di Roma. Si occupa di economia della migrazione su cui ha pubblicato diversi articoli scientifici. Attualmente sta approfondendo l’impatto dei flussi migratori sul mercato del lavoro italiano (ramadasi.mariani@uniroma1.it).

sabato 4 giugno 2016

ONU: la "intorcinata" politica onusiana

Segretario generale Onu
Nazioni Unite, sentiero rosa per il dopo Ban
Gabriele Rosana
31/05/2016
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Donna, dell’Est Europa e con esperienza nella diplomazia multilaterale. L’identikit del nono Segretario generale dell’Onu sembra portare direttamente a Irina Bokova. Al secondo mandato alla guida della più grande agenzia delle Nazioni Unite, la Direttrice generale dell’Unesco è oggi la favorita alla successione di Ban ki-Moon.

La strada verso Turtle Bay è però disseminata di insidie e di concorrenti che, per la prima volta nella storia, sfilano di fronte agli elettori dell’Assemblea generale (Ag) e alle telecamere della diretta streaming, sul sito delle Nazioni Unite.

Il processo di selezione del nuovo numero uno dell’Onu, infatti, è questa volta improntato alla trasparenza, cercando deliberatamente di uscire dalle segrete stanze del Palazzo di Vetro. dove era stato in precedenza relegato.

Un primo round di audizioni si è tenuto ad aprile; venerdì 3 giugno comincerà il secondo: confermati tutti i precedenti candidati, se ne sono aggiungi altri tre, messi in campo dai rispettivi governi, per un totale di 11. Le interviste per scegliere chi svolgerà il ruolo diplomatico più ambita al mondo saranno trasmesse dalla webtv Onu e lasceranno tracce su Twitter, agli hashtag #UNSGcandidates e #NextSG.

Il contributo femminile nella pace e nella sicurezza internazionale
Secondo l’art. 97 della Carta delle Nazioni Unite, che stabilisce le regole dell’elezione, il Segretario “deve essere nominato dall’Ag, su raccomandazione del Consiglio di sicurezza (Cds)”. Fino ad oggi la selezione è avvenuta in altre sedi, lontane dall’Ag.

Il mutamento è iniziato quando l’Ag, nel 1997, ha adottato una specifica Risoluzione (la 51/241), che invitava a rendere il processo di nomina del vertice dell’Onu il più trasparente possibile e a tenere in considerazione, per la scelta del Segretario generale sia la rotazione fra i blocchi regionali di origine dei candidati, sia l’equilibrio di genere.

Il presidente di turno dell’Ag, il danese Mogens Lykketoft, ha voluto imprimere un’ulteriore sterzata, chiarendo, in una lettera congiunta firmata con il presidente di turno del Cds, le procedure e i termini per la presentazione delle candidature da parte dei Paesi membri. “Sceglieremo la persona migliore per guidare l’Onu - ha detto -. Ma è vero che molti di noi non vedono ragione alcuna perché non sia una donna a ricoprire per la prima volta tale ruolo”.

Sembra quindi giunta l’ora in cui la lettera della Risoluzione 1325(2000) del Cds, sul ruolo e il contributo femminile alla pace e alla sicurezza, diverrà realtà, cominciando ad essere attuata grazie alle decisioni di quella stessa istituzione che l’aveva a suo tempo approvata.

Fino ad oggi, il Cds ha sempre proposto un singolo nome al voto dell’Ag, che ha poi sempre ratificato la scelta. Con un processo selettivo così aperto e partecipato, non è scontato che anche questa volta accada lo stesso. È cioè possibile che al vaglio dei 193 Stati membri dell’Ag venga presentata una rosa di papabili, in competizione tra loro.

Bokova la spunta su Georgieva
La geografia Onu ripartisce il mondo in blocchi regionali, e la prassi opera su questa base, realizzando un informale meccanismo di rotazione fra i diversi blocchi nell’assegnazione dei top jobs. Su questa base, in pochi mettono in dubbio che stavolta sia il turno dell’Europa dell’Est, sino ad oggi rimasta a bocca asciutta.

Studi nell’ex Unione sovietica e perfezionamento al di là dell’Atlantico, capacità manageriali e brillante carriera nell’Unesco (dove ha anche ben gestito spinosi dossier come quello relativo al Muro occidentale di Gerusalemme), la Bokova ha un curriculum che non dovrebbe incontrare particolari veti incrociati.

Dopo aver vinto a febbraio la temibile concorrenza interna di un’altra bulgara, la vicepresidente della Commissione europea Kristalina Georgieva, la Bokova ha ottenuto l’investitura ufficiale da parte del governo di Sofia e potrebbe oggi trovare il favore dei cinque membri permanenti del Cds.

Ma non basta: come la campagna per il seggio non permanente nel Cds ha insegnato all’Italia, la diplomazia onusiana è spesso fatta di contatti informali e si muove sottotraccia, corteggiando anche i Paesi piccoli e i “pesi piuma” per un consenso che, in Ag, attende il responso del pallottoliere più che della bilancia.

Le altre candidature che sfidano la front-runner bulgara presentano anch’esse profili interessanti. A cominciare dalle altre due donne dell’Europa orientale che sono della partita: la croata Vesna Pusić, già ministro degli Esteri e vicepremier nell’ultimo governo di centrosinistra, e la moldava Natalia Snegur-Gherman, diplomatica e politica, figlia del primo presidente di Chisinau.

L’intricata diplomazia onusiana 
Completano l’affollato parterre balcanico/post-sovietico l’ex ministro degli Esteri serbo Vuk Jeremić, l’economista e diplomatico macedone Srgjan Kerim (entrambi già presidenti dell’Ag), l’ex presidente sloveno Danilo Türk, il ministro degli Esteri montenegrino Igor Lukšić (giovane socialdemocratico di tendenza liberal, che tuttavia annovera la Thatcher e Reagan come modelli) e il collega slovacco Miroslav Lajčak (che, con Bratislava pronta ad assumere la presidenza di turno dell’Ue, deve fare i conti con le sortite del premier Fico, sempre più l’Orbán della famiglia eurosocialista).

Ma candidati con chance di successo si trovano anche negli altri gruppi regionali. Un alto profilo che potrebbe dare del filo da torcere alla Bokova, quanto a pregresse esperienze alla guida del proprio Paese e in seguito di un’agenzia Onu (l’Undp), è l’ex premier neozelandese Helen Clark (gruppo Europa occidentale e altri).

L’ex premier portoghese e fino all’anno scorso commissario Onu per i rifugiati António Guterres è l’altro nome in campo in quota all’eterogeneo fronte: l’unico ad avere, ad oggi, ottenuto un pesante endorsement: quello della Francia.

Dopo un Papa e il dio del pallone Lionel Messi, l’Argentina infine prova a metter la propria bandierina anche in cima al Palazzo di Vetro, facendo anch’essa una puntata rosa, il ministro degli Esteri Susana Malcorra.

Gabriele Rosana è giornalista pubblicista, assistente alla comunicazione dello IAI (Twitter: @GabRosana).
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G7. Utilità e prospettive

Economia
G7 quarant'anni dopo: ha ancora senso?
Simone Romano
26/05/2016
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Mentre a Ise-Shima, in Giappone, si riuniscono i capi di Stato e di governo del Gruppo dei 7, meglio conosciuto come G7, formato da Canada, Francia, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, è lecito interrogarsi su quale ruolo possa avere oggi questa formazione in un contesto globale negli ultimi quarant'anni fortemente mutato.

Nato ufficialmente nel 1975 come vertice informale tra i rappresentanti delle sei economie più avanzate del mondo (il Canada sarebbe stato incluso l’anno successivo), sotto la presidenza giapponese il G7 giunge al suo 42esimo incontro.

Economie emergenti e G20
Quando nel 1975 Giscard d'Estaing invitò in Francia i leader di Giappone, Italia, Germania Ovest, Regno Unito e Stati Uniti per un incontro informale in cui discutere le questioni di interesse mondiale, i sei paesi rappresentavano da soli più del 50% del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale. Oggi, tale percentuale è scesa intorno al 35-40%. Questo dato è indicativo di come gli equilibri economici siano mutati radicalmente a livello globale.

Il ridimensionamento delle economie europee e l’ascesa delle economie emergenti e dei paesi in via di sviluppo ha minato in modo decisivo la rappresentatività del Gruppo dei 7. Altri due fattori hanno contribuito in tal senso: l’istituzione del G20 e la scelta di escludere la Russia da quello che era diventato il G8.

Il G6 - divenuto formalmente G7 nel 1976 con l’adesione del Canada - nel 1998 ha incluso tra i suoi membri anche la Russia, trasformandosi in G8. L’ex potenza sovietica, che aveva già iniziato a partecipare come osservatore ai vertici negli anni immediatamente precedenti, ha continuato ad essere membro del G8 fino al 2014, quando le crescenti tensioni dovute all’annessione della Crimea hanno spinto gli altri membri a ritirarsi dal G8 che doveva tenersi a Sochi e a riunirsi nuovamente nella formazione del G7 dopo anni.

Il ritorno al nucleo originario, seppure abbia contribuito a diminuire ulteriormente la rappresentatività del vertice, è visto da molti come un’opportunità per accrescere l’effettività di questi vertici alla luce della maggiore omogeneità tra i componenti del gruppo ristretto.

Il G20, a differenza del G8, non rappresenta un allargamento del G7 ma un vertice parallelo. L’esigenza di includere le più importanti economie emergenti nell’affrontare le questioni legate alle governance dell’economia mondiale nacque alla fine degli anni ’90 a seguito delle crisi economiche in Asia e America Latina.

Il Gruppo dei 20 si riunì per la prima volta nel 1999 come vertice dei ministri delle finanze e dei governatori delle Banche centrali, mostrando da subito buoni risultati. Da allora in avanti, la sua importanza è cresciuta fino ad oscurare completamente il G7, relegandolo a un ruolo da molti percepito come subalterno.

La crisi finanziaria del 2008 ha evidenziato in maniera definitiva il bisogno di una profonda revisione dell’economia mondiale, delle sue strutture e delle istituzioni multilaterali che la governano, ponendo l’accento sulla necessità di trovare soluzioni condivise a livello internazionale in un mondo sempre più interdipendente, soprattutto da un punto di vista economico e finanziario.

Pensare di rispondere alle sfide lasciate in eredità dalla crisi e strutturare le necessarie riforme del sistema finanziario internazionale senza coinvolgere attori come India, Cina o Brasile non era più possibile.

Minore rappresentatività, maggiore efficienza
Il G7 ospitato dal Giappone si riunisce in un momento delicato. Dal punto di vista economico, i primi mesi del 2016, seppure hanno confermato i segnali di ripresa, hanno d’altra parte evidenziato la presenza di sempre maggiori rischi al ribasso.

A livello finanziario, la corsa ribassista dei prezzi delle materie prime continua, colpendo soprattutto i paesi esportatori, e i mercati finanziari sono dominati dall’incertezza e dalla crescente avversione al rischio. La carenza di investimenti e la stagnazione dei consumi sembra ormai essere endemica.

Da un punto di vista geopolitico, le questioni globali come la crisi dei rifugiati, la questione ambientale o il conflitto siriano richiedono soluzioni audaci che per essere effettive devono per forza essere condivise a livello internazionale.

L’urgenza e la complessità delle tematiche che dominano l’agenda di questo vertice offrono ai capi di Stato e di governo l’opportunità di rilanciare il ruolo del G7.La ristrettezza e l’informalità della riunione a sette devono diventare dei punti di forza, non di debolezza. L’omogeneità tra i suoi membri deve essere sfruttata come un vantaggio, permettendo di raggiungere accordi su soluzioni realmente condivise ai problemi che caratterizzano la scena globale.

Se i 7 paesi riusciranno in un contesto del genere a trovare dei punti di accordo, questo servirà poi per proporre le loro soluzioni condivise con maggiore forza e supporto in seno al G20 e nelle altre sedi di discussione multilaterale, aumentando la pervasività delle proposte di un gruppo di paesi, quello occidentale, che vede il suo peso geopolitico diminuire sempre più con il passare del tempo.

Simone Romano è ricercatore dello IAI.
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