Per la traduzione in una lingua diversa dall'Italiano.For translation into a language other than.

Il presente blog è scritto in Italiano, lingua base. Chi desiderasse tradurre in un altra lingua, può avvalersi della opportunità della funzione di "Traduzione", che è riporta nella pagina in fondo al presente blog.

This blog is written in Italian, a language base. Those who wish to translate into another language, may use the opportunity of the function of "Translation", which is reported in the pages.

LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

Cerca nel blog

giovedì 28 maggio 2015

Tecnologia destabilizzante o deterrente?

Innovazione tecnologica 
Uomini e robotica: autonomi entrambi?
Maria Victoria Messeri
17/05/2015
 più piccolopiù grande
Dal 13 al 17 aprile Ginevra ha ospitato la seconda riunione di esperti su uno degli argomenti più discussi del momento: le armi autonome, ovvero i Lethal Autonomous Weapon Systems (Laws). L’evento, organizzato nell’ambito della Convention on Certain Conventional Weapons (Ccw), ha registrato una forte partecipazione diplomatica, di Ong e istituti di ricerca.

Questi quattro giorni, suddivisi per tema, sono stati dedicati alla ricerca di una definizione più chiara dei concetti cardine di un’arma che, a parere degli esperti di taluni Stati, è attualmente allo stadio embrionale. Quattro grandi filoni tematici sono stati messi in luce da diverse prospettive: quella tecnica, giuridica, etica e, infine, le implicazioni per la sicurezza internazionale e regionale.

Gradi di automatizzazione
Da un punto di vista tecnico, il dibattito sulle armi autonome ha cercato di evidenziare la differenza fra “automaticità” e “autonomia”. I termini automation e autonomy sono stati analizzati e distinti: il primo è relativo a un sistema d’arma munito di alcuni componenti operanti in autonomia, ossia un sistema parzialmente autonomo quale il drone; il secondo esaspera tali caratteristiche con un sistema totalmente autonomo, in cui il controllo umano è concettualmente assente e la macchina stessa svolgerebbe funzioni di auto-apprendimento, ri-programmandosi secondo l’ambiente in cui opera.

Il dibattito tra le delegazioni ha cercato di esaminare progressivamente il grado di coinvolgimento umano auspicato nei sistemi autonomi. In relazione ai diversi gradi di autonomy sono stati approfonditi tre concetti chiave.

Il primo concetto, human-in-the-loop, differenzia i droni dalle armi autonome; gli altri due, human-on-the-loope human-out-of-the-loop, propri delle armi “autonome”, differenziano il grado di supervisione umana nello svolgimento delle funzioni del sistema robotico.

On-the-loop permetterebbe l’intervento umano in tempo reale, sostituendosi alle funzioni automatiche del robot qualora fosse necessario, pur consentendo a quest’ultimo di conservare alcune funzioni indipendenti. Out-of-the-loop, invece, leverebbe all’uomo qualsiasi capacità d’intervento sulla programmazione del robot.

Come è intuibile, conservare o meno un certo potere d’intervento da parte dell’uomo su questi sistemi costituisce oggetto di approfondite e controverse discussioni che coinvolgono il concetto stesso e la misura del controllo umano.

Ius in bello ed etica: il dibattito continua
L’introduzione di un’arma dalle caratteristiche così definite pone diverse sfide allo scenario esistente, sia sotto il profilo etico sia sotto quello giuridico. Ad esempio: è giusto affidare decisioni di vita o di morte a una macchina?, e in caso di errore, su chi ricadrebbe la responsabilità? L’attribuzione della responsabilità all’interno della cosiddetta catena di comando risulterebbe più difficoltosa.

L’assenza di una consapevole valutazione dell’uomo solleva perplessità sull’effettiva applicazione dei principi di distinzione, proporzionalità e precauzione - requisiti base dello ius in bello -, incertezze alle quali una verifica di compatibilità con le norme del diritto internazionale potrebbe dare le necessarie risposte.

Se le delegazioni più propense allo sviluppo di questi sistemi d’arma hanno sostenuto che vi sarebbe compatibilità, quelle più critiche, al contrario, hanno invocato che la tutela predisposta dalle regole dei conflitti non potrebbe essere rispettata.

La presunta inidoneità di una macchina ad applicare criteri di tipo etico, quale l’esercizio della forza su un uomo nel rispetto della sua dignità, ha determinato l’assunzione di una diversa gamma di posizioni contrarie allo sviluppo dei Laws.

Tecnologia destabilizzante o deterrente?
Adottando un approccio prettamente ‘realista’ alle relazioni internazionali, la prima implicazione di sicurezza internazionale indica che, non appena uno Stato sviluppa una nuova arma, altri Stati cercano di compensare questo squilibrio strategico, eguagliando o superando il vantaggio acquisito dal primo Stato. Seguendo questa logica, una corsa agli armamenti, una proliferazione orizzontale e verticale, sarebbero conseguenze inevitabili.

Per quanto riguarda le considerazioni di sicurezza regionale potrebbero ravvisarsi due scenari. Nel primo, le armi autonome potrebbero esacerbare i conflitti esistenti perché in fase di sviluppo e progettazione da parte dei paesi del “Nord del Mondo”. Siffatta asimmetria tra i “Due Mondi” potrebbe creare un ‘dilemma della sicurezza’ ed un più facile ricorso ad armi di classe superiore, quali le armi di distruzioni di massa.

Nel secondo caso, viceversa, potrebbe prevalere la teoria della deterrenza: il timore di entrare in conflitto con un avversario tanto più potente, che non rischierebbe di perdere uomini al fronte, aumenterebbe l’incentivo a ricorrere ad altri mezzi di negoziato, relegando la guerra ad ultima risorsa.

Inoltre, al di là dei possibili scenari fra gli Stati finora analizzati, una delle problematiche maggiormente discusse ha riguardato l’impatto di tale arma sugli attori non-statali in caso di appropriazione di tale tecnologia da parte loro e sulle loro capacità di modificare i dati di programmazione altrui, con le immaginabili catastrofiche conseguenze.

Tra le ripercussioni secondarie di un eventuale schieramento dei Laws sul campo di battaglia, vi è il rischio di prolungare i conflitti armati oltre i tempi necessari a neutralizzare il nemico. Sostituire i soldati al fronte con le macchine renderebbe la decisione politica di entrare in guerra, e la sua eventuale estensione nel tempo, meno onerosa.

Le conclusioni raggiunte a Ginevra sulla definizione delle caratteristiche essenziali dei Laws non hanno prodotto consenso tra le delegazioni.

Tuttavia, si è trovata un’intesa riguardo l’importanza di proseguire l’anno prossimo il dibattito sul tema e, nonostante le divergenze sulla tipologia dei prossimi incontri, alcune delegazioni hanno proposto l’adozione di una prassi formale (attraverso il Group of Governmental Experts), mentre altre hanno promosso una continuazione informale, analoga alla suddetta. Il verdetto sulla modalità del prossimo incontro sarà emesso a novembre, al meeting degli Stati contraenti la Ccw.

Maria Victoria Messeri è stata tirocinante presso l'ufficio disarmo delle Nazioni Unite di Ginevra e New York. Dopo la laurea triennale ha conseguito un Master in sicurezza internazionale all'Università di Bristol (Twitter: @mviim).
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3069#sthash.wFWw5aG4.dpuf

LO scenario internazionale è cambiato per la cooperazione

Cooperazione
Nel futuro, meno progetti, più visione
Emilio Ciarlo
20/05/2015
 più piccolopiù grande
Il futuro della cooperazione è oltre l'aiuto. Lo scenario internazionale è cambiato: i paesi partner ci chiedono trasferimento di tecnologia ed esperienze, non più progetti.

Il numero dei paesi rimasti nella trappola della povertà si è dimezzato, i donatori sono aumentati, così come la rilevanza delle rimesse dei migranti o il flusso di investimenti diretti.

In Africa e in Asia si aspettano sostegno per combattere la corruzione endemica, l’inefficienza dei sistemi fiscali e del welfare. Le agenzie dello sviluppo del futuro devono cambiare per adattarsi alle nuove sfide, sono ancora troppo burocratiche, con un approccio top-down che pecca di arroganza nel voler mettere in ordine il caos e la complessità del mondo".

Lontani dal dibattito italiano
Il dibattito tenutosi al workshop su ‘La futura Agenzia dello sviluppo, organizzato dall'importante think tank Odi (Overseas development Institute) di Londra con i responsabili delle istituzioni di cooperazione di mezzo mondo è molto diverso da quello italiano.

Alcune cose sono date per scontate (come la necessità di rispettare gli impegni e mettere i soldi, almeno lo 0,30% del Pil, media Ocse, cui secondo l'ultimo Def noi arriveremo solo nel 2020). Altre sono già metabolizzate o gestite senza diffidenze ideologiche o vecchie resistenze (per esempio il rapporto con i privati); anzi a volte sono rielaborate con una certa spudorata furbizia e pragmaticità.

Altre ancora molto poco frequentate alle nostre latitudini: vale per i lunghi ragionamenti su indicatori e valutazioni o per la ricerca sui criteri di performance dei contributi affidati a banche e fondi multilaterali.

Un minimo comune denominatore
Per altri aspetti, l’impressione è che il nostro Paese potrebbe ritrovarsi poi non così indietro.Per l'Italia il futuro della cooperazione è politico: per questo la recente riforma la incardina nel Ministero degli Esteri; per questo il Documento strategico italiano sulla cooperazione sarà approvato dal Consiglio dei ministri e un Comitato interministeriale permanente aiuterà ad assicurare la coerenza dell'azione complessiva del Governo sul piano internazionale; per questo si prevede che il direttore dell'Agenzia sia nominato dal presidente del Consiglio e che la nostra ‘Banca dello sviluppo’ sia la più' importante istituzione finanziaria pubblica italiana, la Cassa Depositi e Prestiti.

La prospettiva è quella di uscire dalla nicchia specialistica dell’economia dello sviluppo, assumere un mandato più trasversale tra le diverse politiche governative, spingere l’intera azione del Governo verso un approccio più aderente ai principi dello sviluppo sostenibile - dalla Difesa per gli interventi di stabilizzazione al Commercio per l’apertura dei mercati interni, dall’Ambiente all’Interno per la sfida delle migrazioni.

L’accentuazione della “coerenza delle politiche”, il coinvolgimento diretto di Palazzo Chigi, un rappresentante politico per la cooperazione che può sedere in Consiglio dei Ministri, un dibattito che si apre alla geopolitica sono state, dunque, scelte avvedute della riforma.

Disegni astratti e aiuti concreti
Per l’Italia, la cooperazione non è solo “parte integrante e qualificante della politica estera” o astratta solidarietà a distanza. È aiuto concreto e drammatico a uomini, donne e bambini che altrimenti vediamo morire sulle nostre coste, fuggendo da guerre e sottosviluppo.

Stabilizzare il Corno d’Africa, migliorare la condizione delle donne in Mali, sostenere lo sviluppo in Africa occidentale è parte del nostro interesse nazionale, oltre ad essere il mandato che la Costituzione assegna alla politica estera.

L’Italia sarà in prima linea nel plasmare una cooperazione internazionale che sempre più coincida con una forma nuova di “global politics” e per questo dovrà essere protagonista nel costruire una Agenzia per lo sviluppo "fit for the future".

Un’Agenzia che affianchi i profili tecnici tradizionali con “softerskills” di natura più politica e generalista, adatte a gestire partnership, trovare accordi, costruire sinergie e relazioni:capacità che in questi anni si sono formate nelle università, sul campo, nelle istituzioni internazionali.

Un’Agenzia-hub per la circolazione di informazioni e la promozione di collaborazioni con la società civile, profit e no profit, ma che sia incline anche a intercettare, utilizzare e valorizzare le competenze diverse presenti nelle varie Amministrazioni pubbliche.

Un motore per il cambiamento
Un motore di cambiamento, favorevole all’empowerment del privato sociale e imprenditoriale nei Paesi beneficiari, capace di alleanze e cooperazioni triangolari con le Agenzie dello sviluppo dei nuovi donatori, oramai oltre 70 dalla Colombia alla Turchia, che potranno diventare opportunità per ampliare perfino la proiezione internazionale della cooperazione italiana oltre il raggio dei Paesi prioritari.

L’Agenzia italiana per la cooperazione sarà radicata sul terreno, coi suoi venti uffici nei paesi partner e per questo sarà capace di sviluppare una strategia “bottom-up”, partendo dal solido know-how dei nostri esperti, dalla tradizione delle nostre Ong, dalla natura “popolare” e diffusa della cultura italiana di solidarietà internazionale e da un nuovo ruolo della cooperazione territoriale e decentrata.

Tutto sarà possibile se riusciremo a imporre un modello di Agenzia moderna, radicalmente digitale, interattiva, responsabile verso i cittadini, all’avanguardia sia per trasparenza sia per la capacità di valutazione dei progetti e del loro impatto sociale e di sviluppo.

C'è da augurarsi che su tutti questi temi anche in Italia il dibattito maturi e che magari qualcuno dei nostri centri studi, sostenuto da risorse adeguate, possa colmare l'assenza di una riflessione a 360 gradi, seria e approfondita, dedicata all'intero spettro dei temi dello sviluppo che oggi sono i temi della nuova "global politics".

Emilio Ciarlo è consigliere del Viceministro degli esteri; esperto di relazioni internazionali si occupa soprattutto di nuova cooperazione, Europa, Mediterraneo (Twitter: @satricum).
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3075#sthash.g6qeB05j.dpuf

martedì 12 maggio 2015

Dalla Mesopotamia:la distruzione del passato

Rifiuto della storia
La vera guerra di civiltà è contro la memoria
Giuseppe Cucchi
08/05/2015
 più piccolopiù grande
Durante la seconda guerra mondiale, la Repubblica Sociale emise una serie, una bella serie, di francobolli che rappresentavano i monumenti italiani colpiti e totalmente o parzialmente distrutti dai bombardamenti alleati.

"Hostium rabies diruit", lo ha distrutto la rabbia del nemico, indicava la dicitura stampata sotto l'immagine; e mentre guardavi l'Abbazia di Montecassino o la Loggia della Mercanzia di Bologna eri travolto dall'emozione di riscontrare come cose insostituibili se ne fossero andate per sempre e con esse una parte della tua cultura, della tua storia, delle tue radici.

Ma quella era un’operazione propagandistica che sfruttava l’impatto degli importanti “danni collaterali” delle operazioni militari alleate, che non erano certo dirette a distruggere il patrimonio culturale e artistico italiano.

Ora i servizi televisivi girati in Siria ed in Mesopotamia o messi in circolazione dall'efficace macchina mediatica dell'Isis ci rimandano invece le immagini di come quella che fu una delle grandi culle della civiltà venga sconciata da devastazioni mirate, volute e condotte con inaudita ferocia da coloro che, dopo aver colpito l'uomo che non condivide le loro idee, si battono adesso anche contro un passato che non rispecchia il loro credo religioso.

La distruzione del passato
Spariscono così le meraviglie che ci avevano lasciato Sumeri, Accadi, Assiri, Babilonesi e decine e decine di altri popoli, mentre si vanificano duecentocinquanta anni di sforzi e di campagne archeologiche, di pazienti certosini restauri mirati a restituire alla umanità la bellezza del passato.

Si inorridisce alla vista delle stele, dei tori alati, delle statue ellenistiche scaraventate giù dai piedistalli, fatte a pezzi da impietose mazze ferrate, aggredite con le seghe elettriche.

Si trema al pensiero che queste distruzioni si sommano a quelle provocate dalla guerra, altrettanto atroci, per cui Aleppo, sogno cosmopolita levantino con il più bel suk del Medio Oriente, la cittadella su cui trovò rifugio padre Abramo, sulla via che conduceva da Ur dei Caldei alla Palestina, il quartiere armeno, l'imbalsamato e storico Hotel Baron: tutto ormai ridotto ad un cumulo di rovine.

Più o meno la fine che ha fatto il vicino Crack dei Cavalieri, fino a ieri la più impressionante e meglio conservata testimonianza della presenza dei Templari in Terra Santa. E Palmira, l'oasi di Zenobia, la sosta delle carovane del deserto, che fine ha fatto Palmira? È già stata distrutta o lo sarà magari domani, condannata a scontare a colpa di essere stata edificata da mani considerate idolatre?

Vedendo quanto avviene in questo centro della memoria e della civilizzazione si è travolti da una profonda tristezza. È questo ciò che dobbiamo aspettarci dai protagonisti della storia nell'anno 2015?

Un fanatismo arcaico
La tristezza diviene ancora più profonda allorché si considera come sia nostra almeno una parte della responsabilità di questi orrori quotidiani. Come abbiamo fatto a non accorgerci del mostro che stava crescendo lasciandolo libero di prosperare sino al punto di poter disporre, se non di un vero e proprio stato sovrano, perlomeno di una effettiva condizione di controllo su di un ampio territorio che egli ora riempie di vittime immolate come animali sgozzati su antichi altari e di vecchie pietre violentate?

Eppure sappiamo a quali estremi può portare il fanatismo religioso, specie se costruito su basi immutabilmente arcaiche. Ci sono volute centinaia di anni di guerre atroci perché noi stessi potessimo finalmente liberarci dalla tentazione di usare Dio come una bandiera e come la giustificazione delle peggiori atrocità.

Ce la prendevamo in genere più con gli esseri umani che con i monumenti, ma non sono certamente mancate del tutto le distruzioni, almeno nei primi secoli del cristianesimo trionfante.

I templi egizi portano ancora le tracce degli scalpelli degli zeloti che volevano cancellare i falsi dei ed ancora ci si chiede se l'incendio e la distruzione della grande Biblioteca di Alessandria non siano stati dovuti a mani cristiane, intenzionate a purgare il mondo da una scienza impura.

In tempi più recenti, a rinfrescarci la memoria su quanto poteva succedere quando l’arcaismo fondamentalista rimane privo di un efficace controllo, aveva provveduto l'episodio dei Budda di Bamiyan, dinamitati dai talibani in Afghanistan.

Neanche la - fortunatamente parziale - distruzione dell'insostituibile patrimonio librario medioevale di Timbuktu, la mitica città del Sahara dai palazzi e dalle moschee di fango, ci aveva allarmati a sufficienza, forse perché la reazione franco/ciadiana all'occupazione del centro abitato da parte di forze qaidiste era stata tanto rapida ed efficace da impedire che venissero provocati danni maggiori.

Né aveva risvegliato in tempo la nostra coscienza la locuzione Boko Haram, con cui si sono auto definiti gli estremisti islamici della Nigeria del Nord, che sancisce come "la cultura occidentale è proibita".

L’inerzia diviene complicità
Siamo rimasti inerti ed abbiamo ceduto tempo e spazio a quelle forze negative che ora vediamo all'opera, affaccendate a cancellare , a distruggere, a far sparire, come fanno coloro che pretendono di riscrivere la storia, trasformandola in un falso ad usum delphini.

La nostra responsabilità diviene più grave con la constatazione di come, fra gli iconoclasti del ventunesimo secolo, siano numerosi anche figli di questa nostra Europa, che non siamo stati capaci di educare ai valori profondi di una cultura che è anche accettazione del passato, orgoglio delle proprie multiformi radici e rispetto per la bellezza delle opere dell'uomo che sono - in questo caso e oltre ogni retorica - reale riflesso in questo mondo della immagine di Dio.

Lasciato agire indisturbato, questo cancro potrebbe cancellare progressivamente l'aspetto visibile delle nostre radici, trasformando un passato concreto ed una storia tangibile in qualcosa di astratto , fumoso, quasi leggendario.

Già adesso , a distanza di meno di cento anni, abbiamo persone e Stati interi capaci di negare i genocidi del ventesimo secolo. Cosa accadrà della "terra fra i due fiumi" e della influenza che essa ha esercitato sulle culture dei millenni successivi allorché l' ultimo toro alato sarà stato distrutto dalla motosega e l'ultima statua ellenistica sbriciolata in polvere di marmo per fare spazio ad una presunta eternità islamica?

Il tempo è sempre stato un fattore importante dell’azione , forse il più importante. In questo caso il tempo manca, l'urgenza è massima. Più attendiamo e più rovinosa ed irreversibile si farà la distruzione. Ci sono momenti in cui ci si può concedere il lusso di riflettere e di discutere prendendo tempo. Ce ne sono altri invece in cui la tempestività fa premio. Noi stiamo vivendo uno di quelli.

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3056#sthash.IBATni2N.dpuf

Fondo Monetario Internazionale: disagio ed incertezza

Fmi, Bm e G20
La tela lisa della cooperazione internazionale
Fabrizio Saccomanni
04/05/2015
 più piccolopiù grande
Un senso di insoddisfazione e di incertezza si percepiva diffusamente a Washington a metà aprile sia nelle riunioni ufficiali del Fondo monetario internazionale (Fmi), della Banca mondiale (Bm) e del Gruppo dei 20 (G20), sia nei numerosi eventi di contorno organizzati dai vari think tanks operanti nella capitale statunitense.

Insoddisfazione per gli andamenti non proprio brillanti dell'economia mondiale, ancora frenata dalla ‘eredità’ della crisi, da irrisolti squilibri interni ed esterni, da elevato indebitamento pubblico e privato, dal proliferare di conflitti geopolitici.

Incertezza per i dubbi crescenti sulla capacità delle politiche economiche finora perseguite di gestire i numerosi rischi che pesano sulle prospettive di crescita e di sviluppo sostenibile e sulla stabilità monetaria e finanziaria internazionale.

Disagio nei comunicati ufficiali
Questo disagio era percepibile anche tra le righe dei comunicati ufficiali, di solito improntati ad una certo ottimismo di maniera.

Nel comunicato dei ministri del Fmi si faceva esplicito riferimento alla insufficiente crescita del reddito potenziale nel medio temine, sia nei Paesi avanzati (compresi gli Sati Uniti) sia nelle economie emergenti (compresa la Cina), a causa di fattori come l'invecchiamento della popolazione, la bassa crescita della produttività totale e il basso volume di investimenti.

Da qui l'invito ad accompagnare le politiche macroeconomiche di sostegno alla crescita con riforme strutturali e con piani di investimenti pubblici per promuovere l'innovazione tecnologica e il rafforzamento del capitale umano.

Nel comunicato dei ministri e governatori del G20 si esprimeva forte preoccupazione per i rischi di instabilità finanziaria e dei tassi di cambio causati dalle politiche monetarie di "quantitative easing" adottate dai maggiori paesi senza tenere nel debito conto le ripercussioni sulle economie emergenti.

Per contro non si faceva quasi nessun riferimento agli ambiziosi obiettivi di crescita globale annunciati solo pochi mesi fa dalla presidenza australiana del G20 con il Piano d'Azione di Brisbane.

Incertezze sulle strategie da adottare
Ma è dai seminari informali in cui policy-makers ed economisti accademici hanno discusso le sfide dell'attuale congiuntura che sono emersi i maggiori segnali di incertezza sulle strategie da perseguire.

Un seminario pubblico organizzato dall’Fmi presso la George Washington University aveva per tema "Rethinking Macro Policies" e come sottotitolo "Progress or Confusion?".

Nel concludere due giorni di dibattiti cui hanno partecipato i più eminenti economisti del momento (tra cui Summers, Rogoff, Feldstein, Caballero, Shin, De Long), il capo del Dipartimento di Ricerca dell’Fmi Olivier Blanchard ha dovuto ammettere che s’è fatto un gran lavoro di analisi di "nuove" politiche macroeconomiche, ma che non s’è ancora individuato quale possa essere il punto di arrivo finale.

Non vi sono, in altre parole, certezze sulle concrete regole operative da adottare e sull'efficacia di strumenti innovativi come le politiche macroprudenziali per gestire casi di instabilità finanziaria sistemica, le politiche monetarie di "quantitative easing" per combattere i rischi di stagnazione e di deflazione, le politiche fiscali “growth-friendly" per conciliare la riduzione dei debiti pubblici con il sostegno alla crescita e all'occupazione e infine le stesse politiche di riforme strutturali per accrescere il potenziale di crescita delle economie.

Il consiglio era quindi di procedere con cautela, valutando accuratamente le distorsioni e i rischi che possono derivare dalle nuove strategie anticrisi. Non proprio incoraggiante.

Una tela sotto tensione
In questo contesto, la tela della cooperazione internazionale è apparsa sotto forte tensione e a rischio di sfilacciamento. I ‘tessitori’ che operano nell’Fmi, nella Banca mondiale, nel G20, continuano instancabili nello sforzo di ricucire gli strappi, ma le divergenze geopolitiche stanno avendo un impatto potenzialmente dirompente.

Se n’è avuta conferma nei seminari del Peterson Institute for International Economics e nei dibattiti del Re-inventing Bretton Woods Committee.

S’è avvertita sempre di più una netta differenziazione tra le posizioni dei paesi avanzati e delle economie emergenti su molti temi cruciali per la stabilità monetaria e finanziaria internazionale.

Ultimo oggetto di contesa sono da qualche anno le politiche monetarie espansive adottate da Stati Uniti, Giappone e Eurolandia che hanno fatto apprezzare le monete dei paesi emergenti, costringendoli a introdurre controlli sugli afflussi di capitale e a intervenire massicciamente sui mercati dei cambi per limitare le implicazioni negative per le loro esportazioni e i loro sistemi bancari.

In sostanza, i paesi del G7 sono accusati di "allentamento monetario competitivo" dai paesi emergenti e questi a loro volta sono accusati di "manipolazione dei tassi di cambio".

Due filosofie profondamente diverse
Sullo sfondo vi sono due filosofie profondamente diverse, con il G7 ancora favorevole ad un approccio per così dire "liberista", in cui ciascun paese persegue obiettivi nazionali con politiche economiche di impostazione nazionale, lasciando alla flessibilità dei cambi e alla mobilità dei capitali il compito di gestirne le ripercussioni internazionali.

I paesi emergenti, per contro, sono molto più favorevoli ad un approccio "interventista" e chiedono ora a gran voce un coordinamento internazionale delle politiche macroeconomiche per gestire i flussi speculativi di capitale e la volatilità dei tassi di cambio, il che sembra comunque un passo avanti - da verificare, peraltro - rispetto a precedenti rifiuti a "ribilanciare" le loro politiche interne per ridurre gli squilibri globali delle bilance dei pagamenti.

Ha contribuito a creare questo clima di conflittualità anche il persistente rifiuto del Congresso americano di ratificare l'accordo sulla riforma della governante dell’Fmi raggiunto nel 2010 e che avrebbe accresciuto il peso politico e il contributo finanziario dei paesi emergenti e della Cina in particolare.

Al Congresso fioriscono, invece, numerose iniziative volte a introdurre misure di rappresaglia commerciale o valutaria contro i paesi "manipolatori dei cambi" e a ostacolare i negoziati in corso sugli importanti accordi commerciali sul fronte Trans-Pacifico e Trans-Atlantico.

Non deve sorprendere quindi che la Cina porti avanti iniziative concorrenti al di fuori delle sedi tradizionali della cooperazione internazionale, come la creazione della Banca dei Brics o della Asian Infrastructure Investment Bank.

È semmai sorprendente che su quest'ultima proposta vi sia stata una spaccatura all'interno del G7, con gli Stati Uniti contrari ad accettare l'invito cinese a partecipare, accolto invece da Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia.

È tuttavia prematuro concludere che questo episodio sia l'inizio di una nuova assertività europea a livello internazionale. In realtà, nelle riunioni di Washington, gli europei erano quasi esclusivamente esponenti dei governi e delle banche centrali, assai impegnati a spiegare gli ultimi sviluppi della nostra ennesima crisi interna e poco inclini a valorizzare il ruolo potenziale dell’Ue sulla scena globale.

Fabrizio Saccomanni è Economista. Ministro dell’Economia del governo Letta dal 28 aprile 2013 al 22 febbraio 2014. Già Direttore generale della Banca d’Italia.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3052#sthash.xAlGGaga.dpuf

martedì 5 maggio 2015

Verso l'affermazione globale della moneta cinese

Cina e moneta
I perché dell’internazionalizzazione del renminbi
Juan Carlos Martinez Oliva
03/05/2015
 più piccolopiù grande
Il crescente utilizzo del renminbi negli scambi e nei pagamenti internazionali nell’ultimo quinquennio riflette una successione di azioni ben coordinate, tese all’affermazione globale della moneta cinese.

Alla cautela che aveva inizialmente guidato le autorità monetarie cinesi è presto seguita una fase di impetuosa accelerazione del processo. Dopo Hong Kong, sono stati creati nuovi centri off-shore a Singapore e Londra, le piazze di maggior rilievo, ma anche a Bangkok, Doha, Francoforte, Kuala Lumpur, Lussemburgo, Parigi, Seul, Sydney e Toronto.

Una rete in continua espansione di accordi swap sta contribuendo a intensificare l’uso del renminbi (Rmb) come valuta di regolamento dell’interscambio mondiale. Tali accordi delineano chiaramente una mappa degli interessi geopolitici della Cina, che vanno dai paesi asiatici confinanti ai produttori di materie prime energetiche e più in generale includono tutti i paesi strategicamente rilevanti.

Il Rmb è oggi presente nelle riserve valutarie di un vasto e crescente numero di paesi e si profila un suo ingresso nel paniere delle valute che compongono il diritto speciale di prelievo, l’unità di conto del Fondo monetario internazionale, nel prossimo futuro.

Questi sviluppi segnalano una forte e chiara motivazione della Cina nei confronti dell’internazionalizzazione della propria moneta, ponendo le questione delle motivazioni sottostanti uno sforzo così cospicuo.

Le motivazioni sottostanti
Di fronte al problema di quantificare i benefici dell’internazionalizzazione di una moneta la letteratura accademica limita per lo più l’analisi a fattori misurabili quali la riduzione dei costi di transazione e dell’incertezza che discende dalle fluttuazioni della moneta di un paese terzo, nonché ai benefici che discendono dal signoraggio, visto come un prestito senza interesse da parte dei paesi stranieri che detengono la valuta nazionale.

Studi recenti basati sull’esame di tali fattori concludono che, come nel caso del dollaro, la principale valuta internazionale, i benefici finanziari che gli Stati Uniti ne deriverebbero sono di entità al più modesta. Secondo alcuni autori potrebbe addirittura essere auspicabile per l’economia americana un minore ruolo internazionale del dollaro.

Se alla luce di siffatte conclusioni si giungesse a scartare l’internazionalizzazione di una moneta come un’opzione vantaggiosa per il paese che la detiene, rimarrebbe del tutto irrisolta la questione del perché le autorità cinesi pongano l’internazionalizzazione del Rmb tra le proprie priorità.

Considerazioni geopolitiche e di affermazione egemonica possono fornire l’ingrediente mancante per un esame pienamente soddisfacente del processo di internazionalizzazione del Rmb.

Per il suo apporto in termini di realismo e di sofisticazione concettuale, l’analisi dell’interazione tra una valuta internazionale e l’influenza geopolitica di chi la emette e controlla appare di fatto particolarmente rilevante nella spiegazione della volontà cinese di rafforzare il prestigio internazionale del Rmb.

Considerazioni geopolitiche e affermazione egemonica
Si può in generale argomentare che se l’impiego internazionale di una moneta è spinto oltre un certo limite, esso può innescare un circolo virtuoso basato sulla reciproca interazione tra dominanza monetaria e dominanza politica.

Un paese dominante può incentivare l’uso della propria moneta da parte dei paesi subalterni; per contro, emettere una valuta dominante consente di rafforzare il prestigio e l’influenza di un paese consolidandone la posizione rispetto ai paesi subalterni.

Alla luce di tali considerazioni, il processo di internazionalizzazione del Rmb può essere inscritto in una strategia tesa a creare una comunità Est-asiatica con la Cina al proprio centro.

In tale prospettiva, l’ascesa del Rmb sarebbe un importante caposaldo del più vasto disegno strategico e diplomatico per conseguire il sogno asiatico, più volte enunciato dal presidente cinese Xi Jinping, di creare un’Asia per gli asiatici.

In coerenza con la sua grand strategy regionale, la Cina sta oggi cercando di ottenere il supporto e l’amicizia dei Paesi vicini, pur mantenendo posizioni intransigenti su vitali questioni strategiche quali la sovranità territoriale e i diritti e gli interessi marittimi.

Piuttosto che come un processo autonomo, la spinta verso l’internazionalizzazione del Rmb può dunque essere meglio compresa se letta come un elemento funzionale della strategia di potere della Cina per rafforzare il proprio ruolo regionale.

Una grande strategia regionale
In questa prospettiva, la spinta verso l’internazionalizzazione del renminbi, l’istituzione e il finanziamento di istituzioni finanziarie regionali di ampia portata (quali la Asian Infrastructure Investment Bank, Aiib-, la New Development Banke il Silk Road Fund), l’accrescimento del proprio soft power attraverso la capacità di creare infrastrutture e finanziare governi in difficoltà in aree diverse del mondo quali l’Africa e l’America latina, il continuo e incessante rafforzamento delle proprie capacità strategiche e militari, rappresentano elementi strettamente intrecciati di una complessa e articolata agenda cinese.

Pochi anni or sono, l’eminente statista Lee Kuan Yew, padre della moderna Singapore, suggeriva che “i cinesi vorranno condividere questo secolo con gli americani su un piede di parità”.

Mentre gli Stati Uniti appaiono decisamente riluttanti di fronte alla prospettiva di cedere una quota della propria leadership mondiale alla Cina, il recente fallimento diplomatico americano sul terreno della Aiib ha dimostrato come i tempi stiano cambiando: molti Paesi, tra i quali numerosi alleati storici degli Stati Uniti, hanno dato l’impressione di essere meno disposti che in passato a conformarsi a un mondo esclusivamente dominato da Washington, propendendo per un approccio multilaterale ai temi economici globali.

La rapida ascesa del Rmb come valuta internazionale mostra quanto rapidamente possano oggi evolvere le relazioni economiche globali. Se la spinta verso l’internazionalizzazione del Rmb dovesse proseguire al passo dell’ultimo quinquennio, la valuta cinese potrebbe un giorno affiancare il dollaro come moneta di riserva mondiale.

Ma quello che più conta nel breve periodo è che il Rmb ha probabilità molto elevate di divenire la principale valuta regionale nell’Asia orientale, costituendo un veicolo efficiente e dinamico per il commercio internazionale e gli investimenti in quell’area. Piuttosto che come un rischio o una minaccia, un tale sviluppo è da vedersi come un’opportunità desiderabile a livello regionale, e una fonte di stabilità per il sistema monetario globale.

Juan Carlos Martinez Oliva è Direttore, Direzione generale economica, statistica e di ricerca della Banca d’Italia. Le opinioni espresse sono strettamente personali e non coinvolgono l'Istituto di appartenenza.