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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

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giovedì 30 giugno 2022

TRA GUERRA E PACE La teorizzazione dei conflitti in ambito internazionale

 


(Terza  parte)

Ten. Cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta

 

           

            Si è discusso se alla base del sorgere della guerra vi sia il venire meno di un equilibrio di potenza necessario di per sé in una buona distribuzione della potenza tra Stati, la guerra diventa quindi una delle modalità di transizione del potere in cui pressione demografica e incremento tecnologico ne costituiscono la base (Choucri, North), sia l’impostazione classica liberale che quella marxista fanno poi riferimento alla matrice economica la quale, se non può essere individuata come elemento esclusivo, non può tuttavia essere diminuita, questioni territoriali e commerciali si intrecciano strettamente diventando facilmente terreno per nazionalismi di ideologie.

            In psicologia la guerra è il riflesso della lotta che vi è nell’essere umano tra creazione-conservazione (Eros) e distruzione (Thanatos), ma è anche una forma di emersione dall’anonimato, di affermazione eroica del sé sulla moltitudine, in questo la natura crea la selezione che si trasforma in invenzione culturale nell’organizzazione sociale  che la mantiene quale efficace selezione per i vantaggi che porta al vincitore, secondo una visione  etologica.

            Nella pretesa affermazione di dichiarare la guerra “giusta” o guerra “santa”, la giustizia umana non deve essere sovrapposta alla pretesa santità, vi possono essere guerre “sante” in cui la natura umana non rileva alcuna giustizia e si ricorre pertanto all’imperscrutabile volontà divina che di per sé dichiara giusta la violenza propria della guerra.

            Già nell’età classica si è teso a limitare l’uso bellico, almeno sul piano morale, dichiarandolo extrema ratio a cui ricorrere solo per legittima difesa o per respingere un torto, la quale necessita che sia formalmente dichiarata evitando aggressioni improvvise e forme di crudeltà inutili secondo la cultura del tempo (Cicerone), ma è con Grozio che si ha la proceduralizzazione della guerra mediante la sua ritualizzazione nella dichiarazione, egli assimilando la guerra ad un processo collega la nozione di guerra “giusta” al concetto di “pubblica” ossia dichiarata ritualmente dall’autorità riconosciuta, si ha per tale via il distacco definitivo dal giudizio morale tomistico che ancora in Francisco de Vitoria esisteva, mettendo le basi per il futuro diritto bellico internazionale.

            La drammatica esperienza delle due guerre mondiali nel corso del ‘900 ripropone la necessità di limitare il ricorso all’azione bellica e si tenta pertanto di rilanciare il concetto di guerra giusta, quale reazione non tanto ad una generica offesa quanto a precisi obblighi giuridici pubblicamente riconosciuti in ambito internazionale e pertanto incardinati in precisi soggetti (Kelsen e Walzer).

Una autodifesa, ma anche una rivendicazione per diritti violati non solo da parte della vittima ma anche di qualsiasi altro “membro della società internazionale” (Walzer), si tenta pertanto di riportare la violenza bellica nell’ambito del diritto internazionale, facendo forza su una costituita rete giuridica fra Stati di cui l’ONU dovrebbe esserne la massima espressione e garanzia.

            Già la IV Convenzione dell’Aja del 1907, prevede all’art. 4 del Regolamento allegato la tutela dei prigionieri di guerra, collegando la protezione degli stessi alla formale “dichiarazione di guerra” con la conseguente reciproca individuazione dei corpi armati, come codificato dall’art. 1 della III Convenzione dell’Aja del 1907.

Tuttavia la prassi nata dalle vicissitudini del ‘900 ha fatto sì che si abbandonasse la concezione della necessità di una formale dichiarazione di guerra, per passare al concetto più elastico di “stato di guerra” basato sul semplice compimento di atti ostili, principio che ha ricevuto formale consacrazione nella II Convenzione di Ginevra del 1949, nella quale si dichiarano applicabili le disposizioni ivi contenute anche in assenza di una formale dichiarazione di guerra, principio ripreso dall’art. 22 del codice penale militare di guerra italiano.

            L’art. 23 del Regolamento allegato alla IV Convenzione dell’Aja del 1907 vieta espressamente l’offesa al nemico che “si è arreso a discrezione”, mentre la III Convenzione di Ginevra del 1949 impone esplicitamente un trattamento umano ai prigionieri, vietandone sia lo spoglio dei beni personali che l’uso nei loro confronti di rappresaglie, questa cornice legale ha cercato di imbrigliare la violenza bellica entro confini ben definiti, ottenendo un minimo di garanzie inderogabili che tuttavia fanno riferimento ad una lotta fra Stati senza considerare l’estrema ipotesi di una lotta per la sopravvivenza.

            Il diffondersi nella seconda metà del secolo scorso e agli inizi del nuovo di conflitti atipici e di organizzazioni non sempre strutturate in termini statali ha tuttavia talvolta messo in difficoltà l’attuazione di tali principi, anche se la giurisprudenza nazionale, come nel caso della sentenza n. 28  del 28/10/2013 della 2° Sez. del Tribunale militare di Roma per i fatti di Cefalonia svoltisi nel settembre 1943, ha sottolineato la responsabilità individuale per ordini manifestamente criminosi eseguiti nonostante la loro evidente contrarietà alla legge per una qualsiasi normale persona, non potendo essere una discriminante il rapporto gerarchico militare che impone l’obbedienza (Cass. 16/11/1998, n. 12595), e tale responsabilità si estende all’adesione all’altrui azione criminosa con il semplice rafforzamento con la volontà di esecuzione a un tale disegno criminoso.

Nella ricerca del rapporto di causalità ci si è spinti a considerare colpevoli tutti gli appartenenti ad un determinato reparto militare per il solo fatto di possedere un forte spirito di corpo, considerando quasi inevitabile una qualsiasi collaborazione e per tale via potendo invertire pericolosamente l’onere della prova.

            Se per la teoria “idealistica” è il dubbio e l’ignoranza che crea le premesse per la guerra, nella teoria “realistica” è nell’anarchia degli Stati che risiede la causa dei conflitti per cui vi è la necessità di un governo sovranazionale o almeno di una corte di giustizia, è pur vero che la storia ha dimostrato essere i governi democratici meno inclini ad aggressioni, ma dove vi è una più forte politica di potenza maggiore è il rischio del fenomeno della guerra (Bobbio), venendo giustificata la guerra dal suo stesso buon esito, come dice Zarathustraè la buona guerra che rende santa qualsiasi causa” (Nietzsche).

            Le guerre da esterne tra Stati si sono sempre più negli ultimi tempi trasformate in guerre civili entro lo Stato, addirittura in assenza di un potere centrale da conquistare (Singer), questo rende i conflitti sempre meno governabili secondo regole internazionali, imprevedibili sia nel sorgere che nelle sue dinamiche, difficili da distinguere nella loro ambiguità dalla semplice violenza endemica, con una sempre più ampia “privatizzazione” in atto, con l’arruolamento di volontari da parte di agenzie private che agiscono per conto terzi, nuove compagnie di ventura, così da sfuggire al controllo tanto del diritto internazionale che dell’opinione pubblica, in grado di impegnarsi per periodi prolungati in conflitti diffusi e di intensità irregolare.

La guerra diventa sempre più autoreferenziale (Bonante), inoltre la crescente complessità informatica e interdipendenza di sistemi ha introdotto la possibilità di distruzioni apparentemente soft ma nella realtà pesantemente incidenti, attraverso attacchi informatici tesi al blocco di sistemi produttivi e di servizi con la conseguente creazione di caos e disgregazione dell’organizzazione sociale, l’evoluzione in atto rende così attualmente sempre più sfuggente la governabilità giuridica dei conflitti.

            La difficoltà di una formazione tesa a controllare l’attività bellica la si può osservare nei fallimenti che si hanno avuto nel rivitalizzare le funzioni dell’ONU quale centro di soluzioni di eventuali crisi, come nel caso dell’aide-mémorie presentato da Mosca in occasione della 43° Assemblea generale con il titolo “Verso una sicurezza globale attraverso  il rafforzamento del ruolo delle Nazioni Unite”, in cui si auspicava un maggiore utilizzo di osservatori militari ONU e delle Forze di pace, meccanismi di consultazioni ufficiali e ufficiosi del Consiglio di sicurezza, crescente numero di decisioni per “consensus” dell’Assemblea generale e più ampi poteri da conferire al Segretario generale.

Il tentativo di umanizzare i conflitti crea anche nuovi mezzi di lotta come l’uso strumentale dei flussi migratori quale elemento di pressione, dove facilità di diffusione delle informazioni e progressivo contenimento dei costi di trasporto permette di spostare rapidamente grosse masse umane, le quali come onde d’urto vengono a modificare strutture e sentimenti negli Stati investiti.

            Preston e Wise nel loro saggio “Storia sociale della guerra” osservano “come la limitazione non può essere mai assoluta, così anche la totalità di una guerra è un concetto relativo e non assoluto.[ ....] Il conquistatore non desidera trovare ai suoi piedi un lazzaretto oppresso dalla pestilenza” (22-23, Mondadori 1973), d’altronde Toynbee nel suo saggio “Study of history” dimostra essere stata la guerra la causa immediata del crollo di ogni civiltà del passato.

Una valutazione compensativa alle affermazioni della scuola “costruttiva” sui contributi dati dalla guerra all’evoluzione sociale (Mumford ), dove all’opposto si  afferma che sono le limitazioni imposte alla stessa che hanno favorito il progresso tecnico e sociale (Nef), in questo due categorie morali si riallacciano indirettamente alle posizioni esposte traducendosi in considerazioni giuridiche: le “utilitariste” e quelle “assolutiste”, mentre le prime si concentrano su quello che accadrà le seconde su quello che si fa.

            Nell’utilitarismo si cerca di massimizzare il bene minimizzando il male, circostanza che conduce alla possibile scelta tra un male maggiore e un male minore, per tale via si giunge a giustificare possibili restrizioni considerando gli effetti negativi a lungo termine nonostante i possibili immediati benefici.

L’assolutismo viene a porsi come limitazione al ragionamento utilitarista introducendo il concetto di “soglia” entro la quale è proibita l’azione dannosa, le restrizioni assolutiste che si risolvono in divieti morali traslati in atti giuridici vengono da Nagel  individuati in due tipi: “restrizioni sulla classe di persone a cui l’aggressione e la violenza possono essere dirette, e restrizioni sul modo dell’attacco” (108, T. Nagel, Guerra e massacro, in Questioni mortali, Il Saggiatore 2015), esse rapportano in funzione della persona verso cui è diretta l’azione aggressiva in termini adeguati allo scopo, il negare l’umanità della persona, non distinguendola dal combattente, si pone pertanto oltre l’utilitarismo stesso, si ha quindi un crimine di guerra.

            Nel limitare in termini assolutisti gli obiettivi legittimi e il carattere dell’ostilità stessa, si pongono alcuni problemi, il primo dei quali è la linea di distinzione tra combattenti e non combattenti, il secondo è la formulazione del concetto di “innocente”.

Nel primo caso la distinzione avviene sulla capacità immediata di minaccia o nocività fondata sull’uso delle armi, circostanza che allarga il concetto di combattente a coloro che provvedono a produrre e fornire le armi stesse.

Il secondo problema viene quale conseguenza a interpretarsi in senso opposto, come colui che è “dannoso”, individuando l’innocenza nell’essere innocuo e la colpevolezza nella dannosità.

Si deduce un ulteriore distinzione tra l’agire per armare il combattente e l’agire per “la sua esistenza in quanto essere umano” (118, Nagel), in questo vi è il tentativo ultimo di limitare moralmente e quindi giuridicamente l’uso della violenza bellica uscendo dalla sua ideologizzazione sia laica che religiosa.

            Osserva Ritter, “Uomo di Stato nel senso più alto è soltanto colui nel quale la consapevolezza della sua indiscutibile responsabilità non può essere turbata dalla volontà di potenza né da un trionfo o da una sconfitta nella lotta per il potere: responsabilità che riguarda la creazione, la conservazione e il consolidamento di un ordine sociale autentico e quindi durevole. E’ propria del pensiero dell’uomo di Stato, perciò, anche la consapevolezza del carattere eccezionale della situazione di lotta e quindi dei limiti da imporre alla lotta, il cui superamento conduce  alla distruzione di valori morali permanenti e non più ricostituibili, e quindi alla disumanizzazione degli stessi combattenti”.

L’ ordine deve tendere nel limitare la lotta, se non a una “società che viene sentita come vera società morale, non come mera società imposta”, essendo la giusta ragione di Stato una ragione morale in cui necessita, accanto alla conoscenza della realtà e alla visione politica, una precisa consapevolezza della responsabilità morale, così che si superi “l’insolubile antinomia tra lotta per il potere e ordine pacifico” e il potere riceve la sua giustificazione morale (12-13, G. Ritter, Introduzione in I militari e la politica nella Germania moderna, Vol. 1, G. Einaudi Ed., 1967). 

lunedì 20 giugno 2022

TRA GUERRA E PACE

 


Dal XVII al XXI secolo

Il concetto moderno di guerra nel diritto internazionale

(Parte seconda)

Ten. Cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta

 

                                                                          Indice       

 

·        Premessa

·        Cenni storici

·        Il concetto di guerra giusta nel XX secolo

·        Guerre non convenzionali

·        Considerazioni finali.

 

PREMESSA

            Nel nuovo concetto di guerra rientra anche, seppure indirettamente, l’attuale pandemia, la quale nel sconvolgere gli equilibri accelera le dinamiche in atto, diventando da evento naturale un’arma, come nell’assedio di Caffa in Crimea da parte dei tartari che causarono la “peste nera” in Europa o la pandemia nel IV secolo d.C. nell’Impero romano portato dalle legioni che tornavano dall’Oriente che indebolirono il tessuto sociale fondato sulle città, trasferendo il baricentro nelle campagne e favorendo indirettamente le tribù germaniche le quali vivevano disperse in villaggi su territori semi abitati.

            Indirettamente la guerra diventa quindi anche una guerra ideologica fondata sulla comunicazione, dove sanità ed economia si intrecciano strettamente con i fatti più strettamente bellici.

 

CENNI STORICI

Un aforisma accademico inglese recita “La guerra ha fatto lo Stato, e lo Stato fa la guerra”. Esso appare paradossale all’uomo occidentale, ormai abituato a istituzioni benevole e molto attente al concetto di pace, così divenute dopo un lungo e travagliato processo storico.

            Uno dei risultati più evidenti della nascita degli Stati moderni nel XVII secolo fu la codifica della guerra. Dopo i massacri delle guerre di religione il formalismo giuridico, nello sforzo di disciplinare l’uso della forza sul piano internazionale, introdusse il concetto di “bellum utrimque justum”, tale fu il risultato della ricerca di una base legale alternativa su cui fondare le relazioni tra Stati.

            Una valutazione lasciata alle Cancellerie di Stati sovrani relativamente alla legittimità delle pretese proprie e altrui, ma che non impediva il riconoscimento delle pretese legittime degli altri Stati in lotta, con l’introduzione, quindi, della differenziazione tra nemico “formalmente giusto” e nemico “criminale o pirata”. Ciò significò che gli Stati divenissero entità estranee a valutazioni morali ma dedite esclusivamente al proprio interesse, cioè quello Stato sovrano amorale anticipato da Machiavelli e inteso come “macchina da guerra”-

            Nel venire meno di una stabile autorità spirituale superiore, che potesse essere arbitro sulla legittimità o meno di uno scontro e potesse imporre delle regole di limitazione alla violenza della guerra, la possibilità di un riconoscimento reciproco prima dello scontro ne introduceva un fattore di limitatezza, come le procedure di trattativa, le regole sui prigionieri o, più in generale, il mantenimento dei propri diritti di dignità.

            La rivoluzione francese reintroduce un elemento che inasprisce lo scontro, delegittimando gli avversari, prototipo di quello che accadrà in alcuni casi del XIX secolo, come la Comune, ma ancor più nel ‘900, l’ideologia, che nella sua sacralizzazione riporterà la Storia alla ferocia delle guerre di religione.

            Le campagne napoleoniche ne saranno un anticipo, nella ferocia delle devastazioni, che raggiungeranno il culmine nella campagna di Spagna, così ben ritratta dal Goya.

            Lo “justus hostis” nega la possibilità dell’annientamento di un nemico che domani potrà essere alleato, viene pertanto meno la “justa causa” teologica per iniziare una guerra, non essendovi autorità morali superiori a cui riferirsi.

            Con il Congresso di Vienna ( 1815), dopo gli orrori delle guerre napoleoniche, si creò un sistema europeo, che riuscì ad evitare conflitti per un cinquantennio.

            Su questa linea la Convenzione internazionale dell’Aja diede vita ad una Corte internazionale di arbitrato e tentò di porre un limite agli armamenti, a cui seguì una seconda Convenzione nel 1907, ma la terza programmata per il 1915 venne annullata dalla Grande Guerra.

IL CONCETTO DI GUERRA GIUSTA NEL XX SECOLO

            Nel XX secolo all’ideologia quale causa di conflitti, si aggiunge la crescente potenza della tecnologia e l’intervento nei conflitti europei di una potenza industriale di matrice europea, ma esterna al continente, che viene a dissolvere lo “jus publicum europeum”, affiancandosi involontariamente all’ideologia dissolutrice della “nuova Russia socialista”.

            Causa ultima di un ritorno alla giusta causa del “bellum justum” è la stessa Europa, in cui il continuo rilancio verso una guerra totale, tesa ad una vittoria totale, vedasi il caso della guerra sottomarina totale tedesca del 1917, porta alla dissoluzione etica dello “jus pubblicum europeum”.

            Nasce l’idea di Wilson  della dottrina del “bellum justum”, conseguenza ultima della guerra totale e della sua demonizzazione del nemico, circostanza aggravata dall’essere il mondo in quella fase storica eurocentrica. Anche il proposito di legare il territorio alla nazionalità quale metro per la formazione dei nuovi confini statali, fu solo un espediente per raggiungere fini che oggi definiremmo geopolitici e di cui fece le spese l’ Italia.

            Tuttavia la teoria del “bellum justum” presuppone l’esistenza di una autorità morale superiore che funga da giudice, nonché di una serie di norme che nel regolare i rapporti permettano di dichiarare giusto l’intervento per reprimere una loro violazione.

            La concezione universalistica wilsoniana fa sì che coloro che violino le norme diventino banditi, fuorilegge, pirati e come tali trattati.

            Vi è pertanto la necessità di creare un organo superiore che amministri e regoli i rapporti fondamentali tra Stati, non essendovi più l’autorità morale del pontefice romano propria della repubblica cristiana in cui Imperatori, principi e comuni si riconoscevano.

            La Società delle Nazioni e l’ONU sono il prodotto dell’originale concezione cosmopolita wilsoniana, a cui si aggiunge, sempre in termini universalistici, per tutto il ‘900, l’autorità che si arroga l’URSS in campo socialista, quale casa madre primigenia. Dopo il 1945 si passò da cinquanta ad oltre centocinquanta Stati indipendenti, molti dei quali attraverso insurrezioni e guerre con successive ambizioni belliche, un risultato non molto brillante nel controllo dei conflitti.

            La violenza e l’ampiezza del conflitto, che la moderna tecnica permette, fa sì che la trasformazione da conflitto inter-statale a lotta per l’esistenza, dà voce alle più estreme teorie nazionaliste, etniche e di lotta sociale.

            Tutti i fantasmi che si erano formati nell’Ottocento emergono, rafforzandosi a vicenda, giustificando per tale via la teoria wilsoniana, quale tentativo di riportare gli Stati ad una convivenza regolata giuridicamente.

            La richiesta all’art. 227 del Trattato di pace di processare il Kaiser ed alcuni altri esponenti politici e militari tedeschi quali criminali di guerra, sebbene non abbia avuto seguito, pone le basi per i successivi processi ai criminali di guerra della II Guerra Mondiale e delle guerre balcaniche e medio-orientali a cavallo tra XX e XXI secolo.

            Scelle sottolinea che in un sistema quale quello della Società delle Nazioni la guerra non ha più spazio giuridico, perché se giusta non è più guerra ma solo operazione di polizia internazionale, se ingiusta è solo un crimine e come tale deve essere trattato.

            Giustamente osserva Schmitt che la coerenza di un sistema teorico giuridico non è determinata da una sola idea, bensì dal collocare adeguatamente un concetto entro un sistema di concetti.

            Nasce tuttavia il problema dello “Stato terzo”, ossia di colui che non aderendo alla Società delle Nazioni non rinuncia all’autonomia del proprio giudizio sulla guerra intrapresa, né potrebbe essere giudicato con i parametri di una organizzazione internazionale a cui non aderire.

            Churchill  avvertiva la pericolosità di un Tribunale dei vincitori, composto e diretto dai vincitori, e ne aveva espresso le perplessità, anche giuridiche, con l’osservazione che nella prossima guerra si poteva essere dall’altra parte!

            Considerata di per sé giusta una guerra di legittima difesa, circostanza che porta ad una netta distinzione dalle guerre giuste e dalle guerre sante, Walzer ammette tra le guerre giuste oltre all’autodifesa la rivendicazione di un proprio diritto violato. Resta tuttavia il problema dell’esistere o meno del diritto violato, che può talvolta essere dubbio, senza che tuttavia possa esservi un riconoscimento da una autorità etica superiore universalmente riconosciuta.

GUERRE NON CONVENZIONALI

            Altre forme di guerra sono le guerre civili, dove il nemico perde umanità acquisendo aspetti demoniaci e con essi i diritti, non vi sono più i limiti delle relazioni tra Stati ed i rischi crescono con il crescere delle forme autoritarie di governo, dove gli esseri sono mezzi e non fini.

            Le aumentate relazioni economiche diminuiscono il pericolo delle crisi militari, senza tuttavia eliminarlo, non potendo escludere la sempre possibile “politica di potenza”.

            La stessa “intensità” della guerra varia con l’introduzione delle nuove tecnologie, dove può esservi e consumarsi un attacco strisciante, difficilmente individuabile come una classica guerra, l’opinione pubblica attraverso i nuovi mezzi di comunicazione di massa risulta essere facilmente manipolabile, come i sistemi di controllo degli Stati avanzati risultano possedere una propria fragilità paralizzante e tale da destrutturare gli stessi.

            Gli attacchi risultano difficilmente identificabili, in una riedizione di guerra asimmetrica, tutti i possibili vecchi parametri risultano insufficienti se non svuotati, né organizzazioni sovranazionali sono in grado di produrre un qualsiasi giudizio.

            Come si manifestano guerre condotte per interposta persona da gruppi privati assoldati per l’occasione, secondo una riedizione moderna delle compagnie di ventura del XIV e XV secolo. Tale evoluzione annulla il significato dell’aforisma citato all’inizio, in quanto, mentre un tempo non esisteva uno Stato senza un esercito, oggi, come nel caso dei mongoli nel Medio Evo, esistono eserciti senza Stato ( almeno ufficialmente) e Stati “autoproclamati”.

            Il venire meno della divisione del mondo in due blocchi ed il contemporaneo accrescersi di accordi multilaterali che hanno dato vita a nuove organizzazioni sovranazionali, hanno permesso di consacrare definitivamente la sacralizzazione della guerra.

            L’autorità etica medievale del pontefice romano è rinata, trasferendosi nella superpotenza rimasta al termine della Guerra fredda che,  nume tutelare per peso economico, tecnologico e morale delle organizzazioni internazionali, determina la scomunica degli Stati definiti “canaglia”, a cui può pertanto non applicarsi lo “jus bellum” del “nemico giusto”.

CONSIDERAZIONI FINALI

            La conseguenza ultima di questo processo del ‘900, iniziato con la Grande Guerra, è la perdita della “proceduralizzazione” della guerra, ossia di quegli atti amministrativi di politica internazionale che, nel confermare l’esistenza di un reciproco riconoscimento, permettevano di incanalare laicamente la violenza bellica.

            La violenza della Grande Guerra, la sua estensione nello spazio e nel tempo, costrinsero a sacralizzare il sacrificio, identificando i caduti con il corpo mistico della Nazione, ma la Nazione non è sempre coincidente con lo Stato, neppure in relazione con i nuovi Stati voluti da Wilson.

            Questo condusse a distinguere tra “giusti” e “ingiusti”, tra coloro che perseguendo il bene adempivano ad una volontà superiore e coloro che lo negavano, la guerra da “giusta” si sacralizzava in una guerra dai caratteri “santi”; così che l’aspetto eucaristico che la Nazione e i suoi alleati vivevano attraverso la guerra demonizzava il nemico, tanto che una volta sconfitto questi doveva fare opera di contrizione e scontare i suoi peccati per una possibile futura redenzione.

            D’altronde è pur vero che il violare sistematico delle regole procedurali internazionali relative alla guerra, come la violazione improvvisa dei patti senza previa denuncia o l’aggressione senza formale dichiarazione, legittimano la visione sacrale della guerra “giusta” e la demonizzazione del nemico.

            Si può quindi concludere con le parole di Hillgruber, “In questo modo Roosvelt ottenne la possibilità di realizzare i suoi obiettivi, che avevano una portata globale quanto quelli di Hitler. Egli aspirava né più né meno che ad un ruolo- guida mondiale indiretto per gli USA. Tale ruolo, tuttavia, fondato com’era su principi liberal-democratici, lasciava agli altri Stati, grandi o piccoli che fossero, uno spazio di manovra autonomo relativamente grande. E al contrario della rigida determinazione di Hitler, ancorato ad assiomi ideologico-razziali ,(….), il ruolo- guida americano era suscettibile di applicazioni e adattamenti a situazioni e congetture nuove e impreviste” ( 93, Hillgruber A.,Storia della 2^ guerra mondiale,Economica Laterza, 1994).

            Con tali presupposti si pone la domanda di J. Keegan : la guerra potrà mai finire?

 

BIBLIOGRAFIA

·        Bonanate Luigi, La guerra, Editori Laterza, 2011;

·        Bonanate Luigi, Prima lezione di relazioni internazionali, Ed. Laterza, 2010;

·        Schmitt Carl, Il concetto discriminatorio di guerra, Editori Laterza, 2008;

·        Keegan John, La guerra e il nostro tempo, Mondadori, 2002;

·        Renan Ernest, Che cos’è una nazione, Archinto, 1994.

venerdì 10 giugno 2022

TRA GUERRA E PACE

 

(Prima parte)

Le relazioni internazionali nelle teorie del Novecento

Ten cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta

            “ Nel momento in cui una comunità non sa più ragionare con il senso della storia, non sarà la storia a sparire ma quella comunità” ( R. Ferrari Zumbini, Il grande giudice. Il Tempo e il destino dell’Occidente, Luiss University Press, Roma 2019, p.319)

Premessa

            La guerra nell’Europa Orientale sulle pianure sarmatiche dell’Ucraina ha posto nuovamente all’attenzione la centralità dei rapporti internazionali, oltre alla semplice e mitizzata globalizzazione economica.

            La pandemia ha fatto riemergere il tempo delle chiusure, premessa per future guerre, di ci molti non ne vedevano l’ombra presi dal racconto consolatorio della “fine della storia” in un eterno felice presente.

            Hans Blumenberg parla di un “tempo della vita” e di un “tempo del mondo” ch si comprimono nell’assolutizzazione del leader, fino a distruggere pericolosamente “l’istituzionalità del tempo storico”, comprimendo gli accadimenti prevedibili o sperati del futuro nel tempo attuale.

            “il diavolo sa che gli resta poco tempo” (Apocalisse di Giovanni – 12,12), tuttavia, come ci ricorda Carl Schmitt, “Tutti coloro che vanno al potere, buoni o cattivi, entrano in una gabbia”, di relazioni buone  o cattive, intelligenti o stupide, che li condizioneranno.

NOTA

·        AA.VV. , La fine della pace, Editoriale, Limes, 3/2022.

 

 

Le relazioni internazionali

 

            Occorre preliminarmente distinguere tra politica “estera” o “internazionale”, nella prima l’elemento centrale è lo Stato il quale come soggetto autonomo calcola le mosse e sceglie i mezzi, nella seconda l’attenzione è concentrata sulle relazioni che intercorrono tra Stati o con le Organizzazioni internazionali-

A sua volta il rapporto tra politica interna e politica estera è stato impostato su tre possibili modelli: nel primo la politica estera dipende dalla politica interna, nel secondo vi è un’inversione nei rapporti in cui è la politica estera che condiziona la politica interna attraverso l’esigenza propria di una politica di potenza, nel terzo vi è una quale autonomia tra la politica estera e quella interna, restando inalterati i tre pilastri internazionali su cui poggiano i rapporti della politica di potenza, della politica di equilibrio, della guerra, in quella che R. Aron  definisce una “continua alternativa tra guerra e pace”. (Pace e guerra fra le nazioni, Comunità, 1970).

            Se la concezione “idealista” propria del sistema  accademico inglese ritiene sufficiente l’adozione di idonei strumenti per favorire la cooperazione tra Stati, la concezione “marxista” prevede una conflittualità permanente dovuta al sistema economico imperialista, che conduce a tre surplus: di popolazione, di beni e di capitali, per cui necessita una “esportazione” con una combinazione economico-militare, il passaggio dalla fase concorrenziale a quella monopolistica determina il nascere di conflitti sul mercato mondiale per il suo controllo.

            Verso la metà del Novecento si consolida una prospettiva “realistica” la quale si fonda su sei assunti di base:

·        Gli Stati sono gli attori unitari e autonomi della politica internazionale;

·        Nel sistema internazionale in mancanza di un potere centrale domina l’anarchia;

·        La necessità per ogni Stato di agire ai fini di un accrescersi della potenza per una sua sicurezza crea un senso di minaccia per gli altri Stati;

·         Solo l’equilibrio di potenza può fornire un minimo di sicurezza in politica internazionale;

·        Istituzioni e organizzazioni internazionali hanno una scarsa rilevanza nelle relazioni tra Stati;

·        Il potere politico-militare prevale sul potere economico.

Partendo da questi presupposti Morgenthau teorizza che i rapporti tra singole comunità statali si fondano in una perenne lotta per il potere, come del resto all’interno delle singole comunità, conseguentemente i due concetti su cui si deve fondare una teoria internazionale sono per l’autore “l’interesse nazionale” (national power), come potere, e “ l’equilibrio di potenza” (balace of power), quale stabilizzatore tra Stati, vi è quindi un intreccio tra “interesse nazionale” e “potenza nazionale”.

L’interesse nazionale risulta a sua volta il combinato di fattori necessari e variabili, i primi si manifestano nella volontà di protezione del territorio, delle istituzioni e della popolazione, quale aspetto di continuità di qualsiasi politica estera, i secondi si riferiscono agli aspetti contingenti di ogni politica estera, quali il tipo di regime politico o la natura delle relazioni diplomatiche.

Analogamente la potenza nazionale risulta quale combinazione di elementi quantitativi e qualitativi, permanenti o contingenti, come le risorse naturali, le istituzioni, le potenzialità militari e industriali.

Nella struttura anarchica che risulta dallo stato latente di guerra tra Stati, in cui ad una aspirazione di potenza si contrappone il timore di essere sopraffatti, ai singoli Stati non restano che tre alternative: mantenere la propria potenza, farne solo dimostrazione o aumentarla.

A queste tre prospettive corrispondono la conservazione dello status quo, l’affermazione del prestigio oppure l’espansione imperialistica, ne consegue che il sistema internazionale si trova in equilibrio precario tra un potenziale “stato di guerra” e la ricerca di meccanismi che limitino l’uso della forza.

Nel limitare la conflittualità permanente e in presenza della continua ricerca di un aumento di potenza, il sistema internazionale non può che ricorrere alle tecniche diplomatiche, o ad una limitazione della potenza mediante un sistema di equilibrio, il quale può essere ottenuto con l’indebolimento del più forte mediante una politica del “divide et impera”, o all’opposto rafforzando il più debole territorialmente e con aiuti militari, creando coalizioni e alleanze, pertanto secondo Morgenthau scarsa è l’efficacia delle istituzioni internazionali, dell’opinione pubblica o del diritto internazionale.

La visione unitaria dello Stato quale decisore viene meno in Snyder il quale punta a valutare le scelte dei singoli funzionari e dei politici, nonché la “percezione degli eventi” da essi posseduta, il processo di formazione delle decisioni viene quindi scomposto in tre livelli: la sfera di competenza, il livello della comunicazione e dell’informazione, la dimensione della motivazione.

Gli stimoli che agiscono sugli attori delle decisioni provengono dalla società, dall’interno degli apparati pubblici e dall’azione degli altri Stati, si possono quindi individuare tre condizionamenti sulla scelta di politica estera: le richieste all’interno della società, le modalità del processo decisionale e le circostanze esterne a cui la decisione costituisce una reazione.

Contrapposto all’approccio decisionale di Snyder si è sviluppato l’approccio sistemico di Kaplan, per questi perché possa un sistema essere in equilibrio vi devono essere almeno cinque potenze, inoltre l’attore nazionale deve seguire le seguenti regole:

·        Incrementare le proprie risorse, cercando comunque di trattare anziché combattere;

·        Combattere se impedito di rafforzarsi;

·        Non eliminare un attore essenziale;

·        Opporsi a qualsiasi coalizione o singolo attore che possa assumere una posizione dominante;

·        Opporsi a qualsiasi attore che tenda ad unirsi in un’organizzazione sovranazionale;

·        Se sconfitto o in difficoltà permettere all’attore nazionale di rientrare nel sistema, comunque in caso di impossibilità sostituirlo con un nuovo attore.

In un sistema in equilibrio le alleanze sono specifiche, di breve durata e incentrate sull’utile e non sull’ideologia, l’interesse particolare di ciascun Stato tutela l’equilibrio come la concorrenza economica garantisce l’efficienza nell’uso delle risorse. La dimensione fortemente ideologica delle alleanze porta a costituire interessi permanenti e non mutevoli, dando luogo a un sistema bipolare fortemente in contrasto, con tensioni che si scaricano tendenzialmente in conflitti periferici.

Sulle orme di Kaplan, Waltz sostiene che la continuità è attribuibile al “sistema internazionale”nel suo complesso che condiziona i singoli attori nazionali, il sistema internazionale è caratterizzato dal “principio ordinatore”, che a differenza degli Stati non è la gerarchia ma l’anarchia, nonché dalla “distribuzione di potenza” quale differenza di potere tra Stati.

Alla teoria della “dipendenza” di matrice marxista incentrata in un rapporto tra centri imperiali e periferie, si affianca la teoria della “interdipendenza” nella quale emerge la crescente compenetrazione fra le diverse economie nazionali, circostanza che rende inopportuno l’uso della forza militare invertendo il rapporto tra potere politico-militare e potere economico a favore di quest’ultimo, emerge pertanto prepotente il continuo ricorso alla negoziazione e alle pressioni economiche (Wallerstein).

Allison sostituisce il modello dello “Stato come attore razionale” con il modello dello “Stato come decision-maker”, in cui si considera lo Stato quale complesso formato da un insieme di funzionari governativi, per cui vi è un processo di “accomodamento” tra gli stessi, ciascuno fornito di proprie percezioni, opinioni e interessi. Viene in tal modo a ribaltarsi il concetto unitario di Stato nel “calcolo” degli interessi strategici, vi è quindi una complessa interazione tra i vari interessi governativi e la burocrazia, dove quest’ultima rappresenta la continuità amministrativa anche in contrasto con il personale politico.

Un ulteriore perfezionamento del modello è dovuto a Brecher che introduce quale variabile indipendente la “percezione della crisi”, quale risultato del grado di informazione e della consapevolezza per i decisori (decision-makers)      degli stimoli esterni a cui si è sottoposti.

Tre sono le varabili percettive indipendenti ma tra loro collegate: la minaccia, il tempo a disposizione limitato e la più elevata probabilità di guerra.

In una prima fase (t1) avviene l’evento scatenante o il mutamento ambientale che preparano la crisi internazionale; minacce, tempo e probabilità di guerra, forniscono gli elementi per la “consapevolezza di essere in crisi” in un tempo (t2); nel successivo passaggio vi è una raccolta di informazioni e consultazioni per elaborare delle valide strategie di risposta, il tutto in un tempo più o meno ristretto (t3); infine vi è la decisione strategica con la sua attuazione nel tempo (t4).

Ulteriori elementi completano il modello, quali in tema di informazione il rapporto diretto tra rigidità concettuale del decisore e crescita della tensione, o nelle prestazioni dei gruppi decisionali e consultivi più è lungo il periodo di tempo che si ha a disposizione per prendere una decisione maggiore è il conflitto interno al gruppo, come maggiore è la tensione più ristretto è il gruppo che decide, anche sulle scelte la pressione temporale determina una minore correttezza nella valutazione delle conseguenze.

Lowi distingue tra situazioni “di crisi”, legate a minacce militari, e situazioni “normali”, in questa ultima ipotesi vi è un’estensione alla politica estera della frammentazione e pluralità della politica interna, mentre in caso “di crisi” la decisione viene presa da un gruppo ristretto senza vincoli particolari.

Tuttavia in presenza del protrarsi del confronto in situazione “normale” si procede solitamente alla “drammatizzazione” dei problemi (overselling) al fine di costringere, mediante un artificiale stato di emergenza, ad una decisione.

Zimmermann perfeziona il modello introducendo due criteri atti a orientare le scelte, il primo relativo alla percezione che l’impatto investa tutti o solo una parte dei cittadini, il secondo se la questione di politica estera riguardi esclusivamente aspetti materiali o investa anche i valori della comunità nazionale, il combinato dei due criteri fa sì che nell’ipotesi in esame si ritenga che vi sia una asimmetria nella perdita o guadagno fra i cittadini.

Le scelte di politica estera verranno effettuate da una élite coesa in presenza del conflitto sociale, nell’ipotesi contraria che il danno riguardi tutti i cittadini vi sarà un’ampia discussione con un processo decisionale di tipo distributivo, il quale si accentrerà nuovamente in presenza di una “crisi”di tipo “ideologico” che coinvolga i valori, dove l’élite agirà con un ampio consenso popolare.

Negli anni ottanta del ‘900 si distinguono due teorie: la “neorealista” e la “neocostituzionale”.

Nella prima emerge l’opera di Waltz che individua nel sistema internazionale tre caratteristiche distintive: l’anarchia degli Stati derivanti dalla necessità di sopravvivere, una distribuzione asimmetrica dei poteri tra gli Stati, l’azione egoistica degli Stati che va dalla propria conservazione al potere universale, ne deriva che solo l’azione concertata tra Stati può portare ad un equilibrio che può essere multipolare o bipolare, secondo una forte analogia con la teoria microeconomica dell’equilibrio generale, in cui ognuno degli attori cerca il massimo del proprio utile.

L’unica differenza risiede nell’esaltazione della concorrenza in campo economico, mentre nei rapporti internazionali la competizione deve risultare limitata dalla presenza di un numero ristretto di grandi potenze, in quanto l’efficienza risiede nell’equilibrio a differenza della riduzione dei prezzi.

A fronte della concezione degli Stati come attori unitari nel sistema internazionale propria della scuola “neorealista”, vi è la concezione “neoistituzionale” che interpreta gli Stati ed i regimi costitutivi come un insieme di principi, regole, norme e procedure decisionali che condizionano le scelte interne ed esterne.

 Krasner ritiene, quindi, di potersi superare un comportamento basato esclusivamente su interessi a breve termine, prevalendo dei doveri generali, tanto che se il cambiamento delle regole e norme conduce a cambiamenti di regime, le scelte vengono a mutare essendo diversi i doveri a cui riferirsi, Young a riguardo osserva che le modalità di costituzione degli Stati (spontaneo, negoziale, impositivo) vengono a modificarne la percezione e quindi ad influire nel loro comportamento.

Vi è nell’analisi dei rapporti internazionali una doppia prospettiva, una quantitativa ed una qualitativa, la prima si rifà ad una raccolta di dati empirici e ad una loro analisi in termini matematici (teoria dei giochi), la seconda si concentra sul valore dei singoli dati e sulle modalità della loro concatenazione, interviene in questo l’aspetto umanistico della storia, del pensiero culturale di cui sono portatori, delle tensioni economiche e sociali (Bull).

Dobbiamo considerare che il comportamento umano è impostato su una matematica intuitiva, fondata su una “razionalità evolutiva” che tende a concentrarsi su alcuni aspetti ritenuti fondamentali, non vi è per istinto una logica matematica puramente razionale, questa deve essere espressamente voluta con uno sforzo materiale e mentale, prendendo tempo, applicata ai casi che si ritengono estremamente rilevanti quali possono essere determinati rapporti internazionali (Artstein).

 

Bibliografia

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