(Terza parte)
Ten. Cpl. Art. Pe. Sergio
Benedetto Sabetta
Si è
discusso se alla base del sorgere della guerra vi sia il venire meno di un
equilibrio di potenza necessario di per sé in una buona distribuzione della
potenza tra Stati, la guerra diventa quindi una delle modalità di transizione
del potere in cui pressione demografica e incremento tecnologico ne
costituiscono la base (Choucri, North),
sia l’impostazione classica liberale che quella marxista fanno poi riferimento
alla matrice economica la quale, se non può essere individuata come elemento
esclusivo, non può tuttavia essere diminuita, questioni territoriali e commerciali
si intrecciano strettamente diventando facilmente terreno per nazionalismi di
ideologie.
In
psicologia la guerra è il riflesso della lotta che vi è nell’essere umano tra
creazione-conservazione (Eros) e distruzione (Thanatos), ma è anche una forma di
emersione dall’anonimato, di affermazione eroica del sé sulla moltitudine, in
questo la natura crea la selezione che si trasforma in invenzione culturale
nell’organizzazione sociale che la
mantiene quale efficace selezione per i vantaggi che porta al vincitore,
secondo una visione etologica.
Nella
pretesa affermazione di dichiarare la guerra “giusta” o guerra “santa”, la
giustizia umana non deve essere sovrapposta alla pretesa santità, vi possono
essere guerre “sante” in cui la natura umana non rileva alcuna giustizia e si
ricorre pertanto all’imperscrutabile volontà divina che di per sé dichiara
giusta la violenza propria della guerra.
Già nell’età
classica si è teso a limitare l’uso bellico, almeno sul piano morale,
dichiarandolo extrema ratio a cui ricorrere solo per legittima difesa o per
respingere un torto, la quale necessita che sia formalmente dichiarata evitando
aggressioni improvvise e forme di crudeltà inutili secondo la cultura del tempo
(Cicerone), ma è con Grozio che si ha la proceduralizzazione
della guerra mediante la sua ritualizzazione nella dichiarazione, egli
assimilando la guerra ad un processo collega la nozione di guerra “giusta” al
concetto di “pubblica” ossia dichiarata ritualmente dall’autorità riconosciuta,
si ha per tale via il distacco definitivo dal giudizio morale tomistico che
ancora in Francisco de Vitoria
esisteva, mettendo le basi per il futuro diritto bellico internazionale.
La
drammatica esperienza delle due guerre mondiali nel corso del ‘900 ripropone la
necessità di limitare il ricorso all’azione bellica e si tenta pertanto di
rilanciare il concetto di guerra giusta, quale reazione non tanto ad una
generica offesa quanto a precisi obblighi giuridici pubblicamente riconosciuti
in ambito internazionale e pertanto incardinati in precisi soggetti (Kelsen e Walzer).
Una autodifesa, ma anche una
rivendicazione per diritti violati non solo da parte della vittima ma anche di
qualsiasi altro “membro della società internazionale” (Walzer), si tenta pertanto di riportare la violenza bellica
nell’ambito del diritto internazionale, facendo forza su una costituita rete
giuridica fra Stati di cui l’ONU dovrebbe esserne la massima espressione e
garanzia.
Già la IV
Convenzione dell’Aja del 1907, prevede all’art. 4 del Regolamento allegato la
tutela dei prigionieri di guerra, collegando la protezione degli stessi alla
formale “dichiarazione di guerra” con la conseguente reciproca individuazione
dei corpi armati, come codificato dall’art. 1 della III Convenzione dell’Aja
del 1907.
Tuttavia la prassi nata dalle
vicissitudini del ‘900 ha fatto sì che si abbandonasse la concezione della
necessità di una formale dichiarazione di guerra, per passare al concetto più
elastico di “stato di guerra” basato sul semplice compimento di atti ostili, principio
che ha ricevuto formale consacrazione nella II Convenzione di Ginevra del 1949,
nella quale si dichiarano applicabili le disposizioni ivi contenute anche in
assenza di una formale dichiarazione di guerra, principio ripreso dall’art. 22
del codice penale militare di guerra italiano.
L’art. 23
del Regolamento allegato alla IV Convenzione dell’Aja del 1907 vieta
espressamente l’offesa al nemico che “si è arreso a discrezione”, mentre la III
Convenzione di Ginevra del 1949 impone esplicitamente un trattamento umano ai
prigionieri, vietandone sia lo spoglio dei beni personali che l’uso nei loro
confronti di rappresaglie, questa cornice legale ha cercato di imbrigliare la
violenza bellica entro confini ben definiti, ottenendo un minimo di garanzie
inderogabili che tuttavia fanno riferimento ad una lotta fra Stati senza
considerare l’estrema ipotesi di una lotta per la sopravvivenza.
Il
diffondersi nella seconda metà del secolo scorso e agli inizi del nuovo di
conflitti atipici e di organizzazioni non sempre strutturate in termini statali
ha tuttavia talvolta messo in difficoltà l’attuazione di tali principi, anche
se la giurisprudenza nazionale, come nel caso della sentenza n. 28 del 28/10/2013 della 2° Sez. del Tribunale
militare di Roma per i fatti di Cefalonia svoltisi nel settembre 1943, ha
sottolineato la responsabilità individuale per ordini manifestamente criminosi
eseguiti nonostante la loro evidente contrarietà alla legge per una qualsiasi
normale persona, non potendo essere una discriminante il rapporto gerarchico
militare che impone l’obbedienza (Cass. 16/11/1998, n. 12595), e tale
responsabilità si estende all’adesione all’altrui azione criminosa con il
semplice rafforzamento con la volontà di esecuzione a un tale disegno
criminoso.
Nella ricerca del rapporto di
causalità ci si è spinti a considerare colpevoli tutti gli appartenenti ad un
determinato reparto militare per il solo fatto di possedere un forte spirito di
corpo, considerando quasi inevitabile una qualsiasi collaborazione e per tale via
potendo invertire pericolosamente l’onere della prova.
Se per la
teoria “idealistica” è il dubbio e l’ignoranza che crea le premesse per la
guerra, nella teoria “realistica” è nell’anarchia degli Stati che risiede la
causa dei conflitti per cui vi è la necessità di un governo sovranazionale o
almeno di una corte di giustizia, è pur vero che la storia ha dimostrato essere
i governi democratici meno inclini ad aggressioni, ma dove vi è una più forte
politica di potenza maggiore è il rischio del fenomeno della guerra (Bobbio), venendo giustificata la guerra
dal suo stesso buon esito, come dice Zarathustra
“ è la buona guerra che rende santa
qualsiasi causa” (Nietzsche).
Le guerre da
esterne tra Stati si sono sempre più negli ultimi tempi trasformate in guerre
civili entro lo Stato, addirittura in assenza di un potere centrale da
conquistare (Singer), questo rende i
conflitti sempre meno governabili secondo regole internazionali, imprevedibili
sia nel sorgere che nelle sue dinamiche, difficili da distinguere nella loro
ambiguità dalla semplice violenza endemica, con una sempre più ampia
“privatizzazione” in atto, con l’arruolamento di volontari da parte di agenzie
private che agiscono per conto terzi, nuove compagnie di ventura, così da
sfuggire al controllo tanto del diritto internazionale che dell’opinione
pubblica, in grado di impegnarsi per periodi prolungati in conflitti diffusi e
di intensità irregolare.
La guerra diventa sempre più autoreferenziale (Bonante),
inoltre la crescente complessità informatica e interdipendenza di sistemi ha
introdotto la possibilità di distruzioni apparentemente soft ma nella realtà
pesantemente incidenti, attraverso attacchi informatici tesi al blocco di
sistemi produttivi e di servizi con la conseguente creazione di caos e disgregazione
dell’organizzazione sociale, l’evoluzione in atto rende così attualmente sempre
più sfuggente la governabilità giuridica dei conflitti.
La
difficoltà di una formazione tesa a controllare l’attività bellica la si può
osservare nei fallimenti che si hanno avuto nel rivitalizzare le funzioni
dell’ONU quale centro di soluzioni di eventuali crisi, come nel caso
dell’aide-mémorie presentato da Mosca in occasione della 43° Assemblea generale
con il titolo “Verso una sicurezza globale attraverso il rafforzamento del ruolo delle Nazioni
Unite”, in cui si auspicava un maggiore utilizzo di osservatori militari ONU e
delle Forze di pace, meccanismi di consultazioni ufficiali e ufficiosi del
Consiglio di sicurezza, crescente numero di decisioni per “consensus”
dell’Assemblea generale e più ampi poteri da conferire al Segretario generale.
Il tentativo di umanizzare i
conflitti crea anche nuovi mezzi di lotta come l’uso strumentale dei flussi
migratori quale elemento di pressione, dove facilità di diffusione delle
informazioni e progressivo contenimento dei costi di trasporto permette di
spostare rapidamente grosse masse umane, le quali come onde d’urto vengono a
modificare strutture e sentimenti negli Stati investiti.
Preston e Wise nel loro saggio “Storia sociale della guerra” osservano “come la limitazione non può essere mai
assoluta, così anche la totalità di una guerra è un concetto relativo e non assoluto.[ ....] Il conquistatore non desidera
trovare ai suoi piedi un lazzaretto oppresso dalla pestilenza” (22-23,
Mondadori 1973), d’altronde Toynbee nel
suo saggio “Study of history” dimostra essere stata la guerra la causa
immediata del crollo di ogni civiltà del passato.
Una valutazione compensativa alle
affermazioni della scuola “costruttiva”
sui contributi dati dalla guerra all’evoluzione sociale (Mumford ), dove all’opposto si
afferma che sono le limitazioni imposte alla stessa che hanno favorito
il progresso tecnico e sociale (Nef), in
questo due categorie morali si riallacciano indirettamente alle posizioni
esposte traducendosi in considerazioni giuridiche: le “utilitariste” e quelle “assolutiste”,
mentre le prime si concentrano su quello che accadrà le seconde su quello che
si fa.
Nell’utilitarismo si cerca di massimizzare il
bene minimizzando il male, circostanza che conduce alla possibile scelta tra un
male maggiore e un male minore, per tale via si giunge a giustificare possibili
restrizioni considerando gli effetti negativi a lungo termine nonostante i
possibili immediati benefici.
L’assolutismo
viene a porsi come limitazione al ragionamento utilitarista introducendo il
concetto di “soglia” entro la quale è
proibita l’azione dannosa, le restrizioni assolutiste che si risolvono in
divieti morali traslati in atti giuridici vengono da Nagel individuati in due tipi: “restrizioni sulla classe di persone a cui l’aggressione e la violenza
possono essere dirette, e restrizioni sul modo dell’attacco” (108, T. Nagel,
Guerra e massacro, in Questioni mortali, Il Saggiatore 2015), esse rapportano
in funzione della persona verso cui è diretta l’azione aggressiva in termini
adeguati allo scopo, il negare l’umanità della persona, non distinguendola dal
combattente, si pone pertanto oltre l’utilitarismo stesso, si ha quindi un
crimine di guerra.
Nel limitare
in termini assolutisti gli obiettivi legittimi e il carattere dell’ostilità
stessa, si pongono alcuni problemi, il primo
dei quali è la linea di distinzione tra combattenti e non combattenti, il secondo è la formulazione del concetto
di “innocente”.
Nel primo caso la distinzione avviene sulla capacità immediata di
minaccia o nocività fondata sull’uso delle armi, circostanza che allarga il
concetto di combattente a coloro che provvedono a produrre e fornire le armi
stesse.
Il secondo problema viene
quale conseguenza a interpretarsi in senso opposto, come colui che è “dannoso”,
individuando l’innocenza nell’essere innocuo e la colpevolezza nella dannosità.
Si deduce un ulteriore distinzione
tra l’agire per armare il combattente e l’agire per “la sua esistenza in quanto essere umano” (118, Nagel), in questo vi è il tentativo ultimo di limitare moralmente e
quindi giuridicamente l’uso della violenza bellica uscendo dalla sua
ideologizzazione sia laica che religiosa.
Osserva Ritter, “Uomo di Stato nel senso più alto è soltanto colui nel quale la
consapevolezza della sua indiscutibile responsabilità non può essere turbata
dalla volontà di potenza né da un trionfo o da una sconfitta nella lotta per il
potere: responsabilità che riguarda la creazione, la conservazione e il
consolidamento di un ordine sociale autentico e quindi durevole. E’ propria del
pensiero dell’uomo di Stato, perciò, anche la consapevolezza del carattere
eccezionale della situazione di lotta
e quindi dei limiti da imporre alla lotta, il cui superamento conduce alla distruzione di valori morali permanenti
e non più ricostituibili, e quindi alla disumanizzazione degli stessi combattenti”.
L’ ordine deve tendere nel limitare
la lotta, se non a una “società che viene
sentita come vera società morale, non come
mera società imposta”, essendo la giusta ragione di Stato una ragione
morale in cui necessita, accanto alla conoscenza della realtà e alla visione
politica, una precisa consapevolezza della responsabilità morale, così che si
superi “l’insolubile antinomia tra lotta
per il potere e ordine pacifico”
e il potere riceve la sua giustificazione morale (12-13, G. Ritter, Introduzione in I militari e la
politica nella Germania moderna, Vol. 1, G. Einaudi Ed., 1967).
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