(Prima parte)
Le relazioni internazionali nelle teorie del Novecento
Ten cpl. Art. Pe. Sergio
Benedetto Sabetta
“ Nel momento in cui una comunità non sa più
ragionare con il senso della storia, non sarà la storia a sparire ma quella
comunità” ( R. Ferrari Zumbini, Il grande giudice. Il Tempo e il destino
dell’Occidente, Luiss University Press, Roma 2019, p.319)
Premessa
La guerra
nell’Europa Orientale sulle pianure sarmatiche dell’Ucraina ha posto nuovamente
all’attenzione la centralità dei rapporti internazionali, oltre alla semplice e
mitizzata globalizzazione economica.
La pandemia
ha fatto riemergere il tempo delle chiusure, premessa per future guerre, di ci
molti non ne vedevano l’ombra presi dal racconto consolatorio della “fine della
storia” in un eterno felice presente.
Hans Blumenberg parla di un “tempo della
vita” e di un “tempo del mondo” ch si comprimono nell’assolutizzazione del
leader, fino a distruggere pericolosamente “l’istituzionalità del tempo
storico”, comprimendo gli accadimenti prevedibili o sperati del futuro nel
tempo attuale.
“il diavolo
sa che gli resta poco tempo” (Apocalisse di Giovanni – 12,12), tuttavia, come
ci ricorda Carl Schmitt, “Tutti coloro che vanno al potere, buoni o cattivi,
entrano in una gabbia”, di relazioni buone
o cattive, intelligenti o stupide, che li condizioneranno.
NOTA
·
AA.VV.
, La fine della pace, Editoriale, Limes, 3/2022.
Le relazioni internazionali
Occorre
preliminarmente distinguere tra politica “estera” o “internazionale”, nella
prima l’elemento centrale è lo Stato il quale come soggetto autonomo calcola le
mosse e sceglie i mezzi, nella seconda l’attenzione è concentrata sulle
relazioni che intercorrono tra Stati o con le Organizzazioni internazionali-
A sua volta il rapporto tra politica
interna e politica estera è stato impostato su tre possibili modelli: nel primo
la politica estera dipende dalla politica interna, nel secondo vi è un’inversione nei rapporti in cui è la politica estera
che condiziona la politica interna attraverso l’esigenza propria di una
politica di potenza, nel terzo vi è
una quale autonomia tra la politica estera e quella interna, restando inalterati
i tre pilastri internazionali su cui
poggiano i rapporti della politica di
potenza, della politica di equilibrio, della guerra, in quella che R. Aron definisce una “continua alternativa tra guerra e pace”. (Pace e guerra fra le
nazioni, Comunità, 1970).
Se la
concezione “idealista” propria del sistema
accademico inglese ritiene sufficiente l’adozione di idonei strumenti
per favorire la cooperazione tra Stati, la concezione “marxista” prevede una
conflittualità permanente dovuta al sistema economico imperialista, che conduce
a tre surplus: di popolazione, di beni e di capitali, per
cui necessita una “esportazione” con una combinazione economico-militare, il
passaggio dalla fase concorrenziale a quella monopolistica determina il nascere
di conflitti sul mercato mondiale per il suo controllo.
Verso la
metà del Novecento si consolida una prospettiva “realistica” la quale si fonda
su sei assunti di base:
·
Gli
Stati sono gli attori unitari e autonomi della politica internazionale;
·
Nel
sistema internazionale in mancanza di un potere centrale domina l’anarchia;
·
La
necessità per ogni Stato di agire ai fini di un accrescersi della potenza per
una sua sicurezza crea un senso di minaccia per gli altri Stati;
·
Solo l’equilibrio di potenza può fornire un
minimo di sicurezza in politica internazionale;
·
Istituzioni
e organizzazioni internazionali hanno una scarsa rilevanza nelle relazioni tra
Stati;
·
Il
potere politico-militare prevale sul potere economico.
Partendo da questi presupposti Morgenthau teorizza che i rapporti tra singole
comunità statali si fondano in una perenne lotta per il potere, come del resto
all’interno delle singole comunità, conseguentemente i due concetti su cui si
deve fondare una teoria internazionale sono per l’autore “l’interesse
nazionale” (national power), come
potere, e “ l’equilibrio di potenza” (balace
of power), quale stabilizzatore tra Stati, vi è quindi un intreccio tra
“interesse nazionale” e “potenza nazionale”.
L’interesse nazionale risulta a sua
volta il combinato di fattori necessari e
variabili, i primi si manifestano nella volontà di protezione del territorio,
delle istituzioni e della popolazione, quale aspetto di continuità di qualsiasi
politica estera, i secondi si
riferiscono agli aspetti contingenti di ogni politica estera, quali il tipo di
regime politico o la natura delle relazioni diplomatiche.
Analogamente la potenza nazionale
risulta quale combinazione di elementi quantitativi e qualitativi, permanenti o
contingenti, come le risorse naturali, le istituzioni, le potenzialità militari
e industriali.
Nella struttura anarchica che risulta
dallo stato latente di guerra tra Stati, in cui ad una aspirazione di potenza
si contrappone il timore di essere sopraffatti, ai singoli Stati non restano
che tre alternative: mantenere la
propria potenza, farne solo dimostrazione o aumentarla.
A queste tre prospettive
corrispondono la conservazione dello status quo, l’affermazione del prestigio
oppure l’espansione imperialistica, ne consegue che il sistema internazionale
si trova in equilibrio precario tra un potenziale “stato di guerra” e la
ricerca di meccanismi che limitino l’uso della forza.
Nel limitare la conflittualità
permanente e in presenza della continua ricerca di un aumento di potenza, il
sistema internazionale non può che ricorrere alle tecniche diplomatiche, o ad
una limitazione della potenza mediante un sistema di equilibrio, il quale può
essere ottenuto con l’indebolimento del più forte mediante una politica del “divide et impera”, o all’opposto
rafforzando il più debole territorialmente e con aiuti militari, creando
coalizioni e alleanze, pertanto secondo Morgenthau
scarsa è l’efficacia delle
istituzioni internazionali, dell’opinione pubblica o del diritto
internazionale.
La visione unitaria dello Stato quale
decisore viene meno in Snyder il
quale punta a valutare le scelte dei singoli funzionari e dei politici, nonché
la “percezione degli eventi” da essi posseduta, il processo di formazione delle
decisioni viene quindi scomposto in tre
livelli: la sfera di competenza, il livello della comunicazione e
dell’informazione, la dimensione della motivazione.
Gli stimoli che agiscono sugli attori
delle decisioni provengono dalla società, dall’interno degli apparati pubblici
e dall’azione degli altri Stati, si possono quindi individuare tre condizionamenti sulla scelta di politica
estera: le richieste all’interno della società, le modalità del processo
decisionale e le circostanze esterne a cui la decisione costituisce una
reazione.
Contrapposto all’approccio decisionale di Snyder
si è sviluppato l’approccio sistemico
di Kaplan, per questi perché possa un
sistema essere in equilibrio vi devono essere almeno cinque potenze, inoltre
l’attore nazionale deve seguire le seguenti regole:
·
Incrementare
le proprie risorse, cercando comunque di trattare anziché combattere;
·
Combattere
se impedito di rafforzarsi;
·
Non
eliminare un attore essenziale;
·
Opporsi
a qualsiasi coalizione o singolo attore che possa assumere una posizione
dominante;
·
Opporsi
a qualsiasi attore che tenda ad unirsi in un’organizzazione sovranazionale;
·
Se
sconfitto o in difficoltà permettere all’attore nazionale di rientrare nel
sistema, comunque in caso di impossibilità sostituirlo con un nuovo attore.
In un sistema in equilibrio le
alleanze sono specifiche, di breve durata e incentrate sull’utile e non
sull’ideologia, l’interesse particolare di ciascun Stato tutela l’equilibrio
come la concorrenza economica garantisce l’efficienza nell’uso delle risorse. La
dimensione fortemente ideologica delle alleanze porta a costituire interessi permanenti
e non mutevoli, dando luogo a un sistema bipolare fortemente in contrasto, con
tensioni che si scaricano tendenzialmente in conflitti periferici.
Sulle orme di Kaplan, Waltz sostiene che la continuità è attribuibile al “sistema
internazionale”nel suo complesso che condiziona i singoli attori nazionali, il
sistema internazionale è caratterizzato dal “principio ordinatore”, che a
differenza degli Stati non è la gerarchia ma l’anarchia, nonché dalla
“distribuzione di potenza” quale differenza di potere tra Stati.
Alla teoria della “dipendenza” di matrice marxista incentrata in un
rapporto tra centri imperiali e periferie, si affianca la teoria della “interdipendenza” nella quale emerge la crescente
compenetrazione fra le diverse economie nazionali, circostanza che rende
inopportuno l’uso della forza militare invertendo il rapporto tra potere
politico-militare e potere economico a favore di quest’ultimo, emerge pertanto
prepotente il continuo ricorso alla negoziazione e alle pressioni economiche (Wallerstein).
Allison sostituisce
il modello dello “Stato come attore razionale” con il modello dello “Stato come
decision-maker”, in cui si considera lo Stato quale complesso formato da un
insieme di funzionari governativi, per cui vi è un processo di “accomodamento”
tra gli stessi, ciascuno fornito di proprie percezioni, opinioni e interessi. Viene
in tal modo a ribaltarsi il concetto unitario di Stato nel “calcolo” degli interessi
strategici, vi è quindi una complessa interazione tra i vari interessi
governativi e la burocrazia, dove quest’ultima rappresenta la continuità
amministrativa anche in contrasto con il personale politico.
Un ulteriore perfezionamento del
modello è dovuto a Brecher che
introduce quale variabile indipendente la “percezione della crisi”, quale
risultato del grado di informazione e della consapevolezza per i decisori (decision-makers) degli stimoli esterni a cui si è sottoposti.
Tre sono le varabili percettive
indipendenti ma tra loro collegate: la minaccia,
il tempo a disposizione limitato e la
più elevata probabilità di guerra.
In una prima fase (t1) avviene
l’evento scatenante o il mutamento ambientale che preparano la crisi
internazionale; minacce, tempo e probabilità di guerra, forniscono gli elementi
per la “consapevolezza di essere in crisi” in un tempo (t2); nel successivo
passaggio vi è una raccolta di informazioni e consultazioni per elaborare delle
valide strategie di risposta, il tutto in un tempo più o meno ristretto (t3);
infine vi è la decisione strategica con la sua attuazione nel tempo (t4).
Ulteriori elementi completano il
modello, quali in tema di informazione il rapporto diretto tra rigidità
concettuale del decisore e crescita della tensione, o nelle prestazioni dei
gruppi decisionali e consultivi più è lungo il periodo di tempo che si ha a
disposizione per prendere una decisione maggiore è il conflitto interno al
gruppo, come maggiore è la tensione più ristretto è il gruppo che decide, anche
sulle scelte la pressione temporale determina una minore correttezza nella
valutazione delle conseguenze.
Lowi distingue
tra situazioni “di crisi”, legate a minacce militari, e situazioni “normali”,
in questa ultima ipotesi vi è un’estensione alla politica estera della
frammentazione e pluralità della politica interna, mentre in caso “di crisi” la
decisione viene presa da un gruppo ristretto senza vincoli particolari.
Tuttavia in presenza del protrarsi
del confronto in situazione “normale” si procede solitamente alla
“drammatizzazione” dei problemi (overselling) al fine di costringere, mediante
un artificiale stato di emergenza, ad una decisione.
Zimmermann perfeziona
il modello introducendo due criteri
atti a orientare le scelte, il primo
relativo alla percezione che l’impatto investa tutti o solo una parte dei
cittadini, il secondo se la questione
di politica estera riguardi esclusivamente aspetti materiali o investa anche i
valori della comunità nazionale, il combinato dei due criteri fa sì che
nell’ipotesi in esame si ritenga che vi sia una asimmetria nella perdita o
guadagno fra i cittadini.
Le scelte di politica estera verranno
effettuate da una élite coesa in presenza del conflitto sociale, nell’ipotesi
contraria che il danno riguardi tutti i cittadini vi sarà un’ampia discussione
con un processo decisionale di tipo distributivo, il quale si accentrerà
nuovamente in presenza di una “crisi”di tipo “ideologico” che coinvolga i
valori, dove l’élite agirà con un ampio consenso popolare.
Negli anni ottanta del ‘900 si
distinguono due teorie: la “neorealista” e la “neocostituzionale”.
Nella prima emerge l’opera di Waltz che individua nel sistema
internazionale tre caratteristiche
distintive: l’anarchia degli Stati derivanti dalla necessità di sopravvivere,
una distribuzione asimmetrica dei poteri tra gli Stati, l’azione egoistica
degli Stati che va dalla propria conservazione al potere universale, ne deriva
che solo l’azione concertata tra Stati può portare ad un equilibrio che può
essere multipolare o bipolare, secondo una forte analogia con la teoria
microeconomica dell’equilibrio generale, in cui ognuno degli attori cerca il
massimo del proprio utile.
L’unica differenza risiede
nell’esaltazione della concorrenza in campo economico, mentre nei rapporti
internazionali la competizione deve risultare limitata dalla presenza di un
numero ristretto di grandi potenze, in quanto l’efficienza risiede
nell’equilibrio a differenza della riduzione dei prezzi.
A fronte della concezione degli Stati
come attori unitari nel sistema internazionale propria della scuola
“neorealista”, vi è la concezione “neoistituzionale” che interpreta gli Stati
ed i regimi costitutivi come un insieme di principi, regole, norme e procedure
decisionali che condizionano le scelte interne ed esterne.
Krasner ritiene,
quindi, di potersi superare un comportamento basato esclusivamente su interessi
a breve termine, prevalendo dei doveri generali, tanto che se il cambiamento
delle regole e norme conduce a cambiamenti di regime, le scelte vengono a
mutare essendo diversi i doveri a cui riferirsi, Young a riguardo osserva che le modalità di costituzione degli
Stati (spontaneo, negoziale, impositivo) vengono a modificarne la percezione e
quindi ad influire nel loro comportamento.
Vi è nell’analisi dei rapporti
internazionali una doppia prospettiva,
una quantitativa ed una qualitativa, la prima si rifà ad una raccolta di dati
empirici e ad una loro analisi in termini matematici (teoria dei giochi), la seconda si concentra sul valore dei singoli
dati e sulle modalità della loro concatenazione, interviene in questo l’aspetto
umanistico della storia, del pensiero culturale di cui sono portatori, delle
tensioni economiche e sociali (Bull).
Dobbiamo considerare che il
comportamento umano è impostato su una matematica intuitiva, fondata su una
“razionalità evolutiva” che tende a concentrarsi su alcuni aspetti ritenuti
fondamentali, non vi è per istinto una logica matematica puramente razionale,
questa deve essere espressamente voluta con uno sforzo materiale e mentale,
prendendo tempo, applicata ai casi che si ritengono estremamente rilevanti quali
possono essere determinati rapporti internazionali (Artstein).
Bibliografia
·
Aron
R., Pace e guerra fra le nazioni, Comunità, 1970;
·
Aron
R., La politica, la guerra, la storia, Il Mulino, 1992;
·
Attina
F., La politica internazionale contemporanea, Angeli, 1989;
·
Bonante
L. – Santoro C. M. (a cura di), Teoria e analisi nelle relazioni
internazionali, Il Mulino, 1986;
·
Pasquino
G. (a cura di), Manuale di scienza politica, Il Mulino, 1986;
·
Panebianco
A., Relazioni internazionali, Jaco Book, 1992;
·
Bonante
L. (a cura di), Studi internazionali, Edizioni della Fondazione Agnelli, 1990;
·
Waltz
K. N., Teoria della politica internazionale, Il Mulino, 1987;
·
Deutsch
K. W., Le relazioni internazionali, Il Mulino, 1970;
·
Gilpin
R., Politica ed economia delle relazioni internazionali, Il Mulino, 1990;
·
Papisca
A. – Masci M., Le relazioni internazionali nell’era dell’interdipendenza e dei
diritti umani, CEDAM, 1991.
Nessun commento:
Posta un commento