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venerdì 10 giugno 2022

TRA GUERRA E PACE

 

(Prima parte)

Le relazioni internazionali nelle teorie del Novecento

Ten cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta

            “ Nel momento in cui una comunità non sa più ragionare con il senso della storia, non sarà la storia a sparire ma quella comunità” ( R. Ferrari Zumbini, Il grande giudice. Il Tempo e il destino dell’Occidente, Luiss University Press, Roma 2019, p.319)

Premessa

            La guerra nell’Europa Orientale sulle pianure sarmatiche dell’Ucraina ha posto nuovamente all’attenzione la centralità dei rapporti internazionali, oltre alla semplice e mitizzata globalizzazione economica.

            La pandemia ha fatto riemergere il tempo delle chiusure, premessa per future guerre, di ci molti non ne vedevano l’ombra presi dal racconto consolatorio della “fine della storia” in un eterno felice presente.

            Hans Blumenberg parla di un “tempo della vita” e di un “tempo del mondo” ch si comprimono nell’assolutizzazione del leader, fino a distruggere pericolosamente “l’istituzionalità del tempo storico”, comprimendo gli accadimenti prevedibili o sperati del futuro nel tempo attuale.

            “il diavolo sa che gli resta poco tempo” (Apocalisse di Giovanni – 12,12), tuttavia, come ci ricorda Carl Schmitt, “Tutti coloro che vanno al potere, buoni o cattivi, entrano in una gabbia”, di relazioni buone  o cattive, intelligenti o stupide, che li condizioneranno.

NOTA

·        AA.VV. , La fine della pace, Editoriale, Limes, 3/2022.

 

 

Le relazioni internazionali

 

            Occorre preliminarmente distinguere tra politica “estera” o “internazionale”, nella prima l’elemento centrale è lo Stato il quale come soggetto autonomo calcola le mosse e sceglie i mezzi, nella seconda l’attenzione è concentrata sulle relazioni che intercorrono tra Stati o con le Organizzazioni internazionali-

A sua volta il rapporto tra politica interna e politica estera è stato impostato su tre possibili modelli: nel primo la politica estera dipende dalla politica interna, nel secondo vi è un’inversione nei rapporti in cui è la politica estera che condiziona la politica interna attraverso l’esigenza propria di una politica di potenza, nel terzo vi è una quale autonomia tra la politica estera e quella interna, restando inalterati i tre pilastri internazionali su cui poggiano i rapporti della politica di potenza, della politica di equilibrio, della guerra, in quella che R. Aron  definisce una “continua alternativa tra guerra e pace”. (Pace e guerra fra le nazioni, Comunità, 1970).

            Se la concezione “idealista” propria del sistema  accademico inglese ritiene sufficiente l’adozione di idonei strumenti per favorire la cooperazione tra Stati, la concezione “marxista” prevede una conflittualità permanente dovuta al sistema economico imperialista, che conduce a tre surplus: di popolazione, di beni e di capitali, per cui necessita una “esportazione” con una combinazione economico-militare, il passaggio dalla fase concorrenziale a quella monopolistica determina il nascere di conflitti sul mercato mondiale per il suo controllo.

            Verso la metà del Novecento si consolida una prospettiva “realistica” la quale si fonda su sei assunti di base:

·        Gli Stati sono gli attori unitari e autonomi della politica internazionale;

·        Nel sistema internazionale in mancanza di un potere centrale domina l’anarchia;

·        La necessità per ogni Stato di agire ai fini di un accrescersi della potenza per una sua sicurezza crea un senso di minaccia per gli altri Stati;

·         Solo l’equilibrio di potenza può fornire un minimo di sicurezza in politica internazionale;

·        Istituzioni e organizzazioni internazionali hanno una scarsa rilevanza nelle relazioni tra Stati;

·        Il potere politico-militare prevale sul potere economico.

Partendo da questi presupposti Morgenthau teorizza che i rapporti tra singole comunità statali si fondano in una perenne lotta per il potere, come del resto all’interno delle singole comunità, conseguentemente i due concetti su cui si deve fondare una teoria internazionale sono per l’autore “l’interesse nazionale” (national power), come potere, e “ l’equilibrio di potenza” (balace of power), quale stabilizzatore tra Stati, vi è quindi un intreccio tra “interesse nazionale” e “potenza nazionale”.

L’interesse nazionale risulta a sua volta il combinato di fattori necessari e variabili, i primi si manifestano nella volontà di protezione del territorio, delle istituzioni e della popolazione, quale aspetto di continuità di qualsiasi politica estera, i secondi si riferiscono agli aspetti contingenti di ogni politica estera, quali il tipo di regime politico o la natura delle relazioni diplomatiche.

Analogamente la potenza nazionale risulta quale combinazione di elementi quantitativi e qualitativi, permanenti o contingenti, come le risorse naturali, le istituzioni, le potenzialità militari e industriali.

Nella struttura anarchica che risulta dallo stato latente di guerra tra Stati, in cui ad una aspirazione di potenza si contrappone il timore di essere sopraffatti, ai singoli Stati non restano che tre alternative: mantenere la propria potenza, farne solo dimostrazione o aumentarla.

A queste tre prospettive corrispondono la conservazione dello status quo, l’affermazione del prestigio oppure l’espansione imperialistica, ne consegue che il sistema internazionale si trova in equilibrio precario tra un potenziale “stato di guerra” e la ricerca di meccanismi che limitino l’uso della forza.

Nel limitare la conflittualità permanente e in presenza della continua ricerca di un aumento di potenza, il sistema internazionale non può che ricorrere alle tecniche diplomatiche, o ad una limitazione della potenza mediante un sistema di equilibrio, il quale può essere ottenuto con l’indebolimento del più forte mediante una politica del “divide et impera”, o all’opposto rafforzando il più debole territorialmente e con aiuti militari, creando coalizioni e alleanze, pertanto secondo Morgenthau scarsa è l’efficacia delle istituzioni internazionali, dell’opinione pubblica o del diritto internazionale.

La visione unitaria dello Stato quale decisore viene meno in Snyder il quale punta a valutare le scelte dei singoli funzionari e dei politici, nonché la “percezione degli eventi” da essi posseduta, il processo di formazione delle decisioni viene quindi scomposto in tre livelli: la sfera di competenza, il livello della comunicazione e dell’informazione, la dimensione della motivazione.

Gli stimoli che agiscono sugli attori delle decisioni provengono dalla società, dall’interno degli apparati pubblici e dall’azione degli altri Stati, si possono quindi individuare tre condizionamenti sulla scelta di politica estera: le richieste all’interno della società, le modalità del processo decisionale e le circostanze esterne a cui la decisione costituisce una reazione.

Contrapposto all’approccio decisionale di Snyder si è sviluppato l’approccio sistemico di Kaplan, per questi perché possa un sistema essere in equilibrio vi devono essere almeno cinque potenze, inoltre l’attore nazionale deve seguire le seguenti regole:

·        Incrementare le proprie risorse, cercando comunque di trattare anziché combattere;

·        Combattere se impedito di rafforzarsi;

·        Non eliminare un attore essenziale;

·        Opporsi a qualsiasi coalizione o singolo attore che possa assumere una posizione dominante;

·        Opporsi a qualsiasi attore che tenda ad unirsi in un’organizzazione sovranazionale;

·        Se sconfitto o in difficoltà permettere all’attore nazionale di rientrare nel sistema, comunque in caso di impossibilità sostituirlo con un nuovo attore.

In un sistema in equilibrio le alleanze sono specifiche, di breve durata e incentrate sull’utile e non sull’ideologia, l’interesse particolare di ciascun Stato tutela l’equilibrio come la concorrenza economica garantisce l’efficienza nell’uso delle risorse. La dimensione fortemente ideologica delle alleanze porta a costituire interessi permanenti e non mutevoli, dando luogo a un sistema bipolare fortemente in contrasto, con tensioni che si scaricano tendenzialmente in conflitti periferici.

Sulle orme di Kaplan, Waltz sostiene che la continuità è attribuibile al “sistema internazionale”nel suo complesso che condiziona i singoli attori nazionali, il sistema internazionale è caratterizzato dal “principio ordinatore”, che a differenza degli Stati non è la gerarchia ma l’anarchia, nonché dalla “distribuzione di potenza” quale differenza di potere tra Stati.

Alla teoria della “dipendenza” di matrice marxista incentrata in un rapporto tra centri imperiali e periferie, si affianca la teoria della “interdipendenza” nella quale emerge la crescente compenetrazione fra le diverse economie nazionali, circostanza che rende inopportuno l’uso della forza militare invertendo il rapporto tra potere politico-militare e potere economico a favore di quest’ultimo, emerge pertanto prepotente il continuo ricorso alla negoziazione e alle pressioni economiche (Wallerstein).

Allison sostituisce il modello dello “Stato come attore razionale” con il modello dello “Stato come decision-maker”, in cui si considera lo Stato quale complesso formato da un insieme di funzionari governativi, per cui vi è un processo di “accomodamento” tra gli stessi, ciascuno fornito di proprie percezioni, opinioni e interessi. Viene in tal modo a ribaltarsi il concetto unitario di Stato nel “calcolo” degli interessi strategici, vi è quindi una complessa interazione tra i vari interessi governativi e la burocrazia, dove quest’ultima rappresenta la continuità amministrativa anche in contrasto con il personale politico.

Un ulteriore perfezionamento del modello è dovuto a Brecher che introduce quale variabile indipendente la “percezione della crisi”, quale risultato del grado di informazione e della consapevolezza per i decisori (decision-makers)      degli stimoli esterni a cui si è sottoposti.

Tre sono le varabili percettive indipendenti ma tra loro collegate: la minaccia, il tempo a disposizione limitato e la più elevata probabilità di guerra.

In una prima fase (t1) avviene l’evento scatenante o il mutamento ambientale che preparano la crisi internazionale; minacce, tempo e probabilità di guerra, forniscono gli elementi per la “consapevolezza di essere in crisi” in un tempo (t2); nel successivo passaggio vi è una raccolta di informazioni e consultazioni per elaborare delle valide strategie di risposta, il tutto in un tempo più o meno ristretto (t3); infine vi è la decisione strategica con la sua attuazione nel tempo (t4).

Ulteriori elementi completano il modello, quali in tema di informazione il rapporto diretto tra rigidità concettuale del decisore e crescita della tensione, o nelle prestazioni dei gruppi decisionali e consultivi più è lungo il periodo di tempo che si ha a disposizione per prendere una decisione maggiore è il conflitto interno al gruppo, come maggiore è la tensione più ristretto è il gruppo che decide, anche sulle scelte la pressione temporale determina una minore correttezza nella valutazione delle conseguenze.

Lowi distingue tra situazioni “di crisi”, legate a minacce militari, e situazioni “normali”, in questa ultima ipotesi vi è un’estensione alla politica estera della frammentazione e pluralità della politica interna, mentre in caso “di crisi” la decisione viene presa da un gruppo ristretto senza vincoli particolari.

Tuttavia in presenza del protrarsi del confronto in situazione “normale” si procede solitamente alla “drammatizzazione” dei problemi (overselling) al fine di costringere, mediante un artificiale stato di emergenza, ad una decisione.

Zimmermann perfeziona il modello introducendo due criteri atti a orientare le scelte, il primo relativo alla percezione che l’impatto investa tutti o solo una parte dei cittadini, il secondo se la questione di politica estera riguardi esclusivamente aspetti materiali o investa anche i valori della comunità nazionale, il combinato dei due criteri fa sì che nell’ipotesi in esame si ritenga che vi sia una asimmetria nella perdita o guadagno fra i cittadini.

Le scelte di politica estera verranno effettuate da una élite coesa in presenza del conflitto sociale, nell’ipotesi contraria che il danno riguardi tutti i cittadini vi sarà un’ampia discussione con un processo decisionale di tipo distributivo, il quale si accentrerà nuovamente in presenza di una “crisi”di tipo “ideologico” che coinvolga i valori, dove l’élite agirà con un ampio consenso popolare.

Negli anni ottanta del ‘900 si distinguono due teorie: la “neorealista” e la “neocostituzionale”.

Nella prima emerge l’opera di Waltz che individua nel sistema internazionale tre caratteristiche distintive: l’anarchia degli Stati derivanti dalla necessità di sopravvivere, una distribuzione asimmetrica dei poteri tra gli Stati, l’azione egoistica degli Stati che va dalla propria conservazione al potere universale, ne deriva che solo l’azione concertata tra Stati può portare ad un equilibrio che può essere multipolare o bipolare, secondo una forte analogia con la teoria microeconomica dell’equilibrio generale, in cui ognuno degli attori cerca il massimo del proprio utile.

L’unica differenza risiede nell’esaltazione della concorrenza in campo economico, mentre nei rapporti internazionali la competizione deve risultare limitata dalla presenza di un numero ristretto di grandi potenze, in quanto l’efficienza risiede nell’equilibrio a differenza della riduzione dei prezzi.

A fronte della concezione degli Stati come attori unitari nel sistema internazionale propria della scuola “neorealista”, vi è la concezione “neoistituzionale” che interpreta gli Stati ed i regimi costitutivi come un insieme di principi, regole, norme e procedure decisionali che condizionano le scelte interne ed esterne.

 Krasner ritiene, quindi, di potersi superare un comportamento basato esclusivamente su interessi a breve termine, prevalendo dei doveri generali, tanto che se il cambiamento delle regole e norme conduce a cambiamenti di regime, le scelte vengono a mutare essendo diversi i doveri a cui riferirsi, Young a riguardo osserva che le modalità di costituzione degli Stati (spontaneo, negoziale, impositivo) vengono a modificarne la percezione e quindi ad influire nel loro comportamento.

Vi è nell’analisi dei rapporti internazionali una doppia prospettiva, una quantitativa ed una qualitativa, la prima si rifà ad una raccolta di dati empirici e ad una loro analisi in termini matematici (teoria dei giochi), la seconda si concentra sul valore dei singoli dati e sulle modalità della loro concatenazione, interviene in questo l’aspetto umanistico della storia, del pensiero culturale di cui sono portatori, delle tensioni economiche e sociali (Bull).

Dobbiamo considerare che il comportamento umano è impostato su una matematica intuitiva, fondata su una “razionalità evolutiva” che tende a concentrarsi su alcuni aspetti ritenuti fondamentali, non vi è per istinto una logica matematica puramente razionale, questa deve essere espressamente voluta con uno sforzo materiale e mentale, prendendo tempo, applicata ai casi che si ritengono estremamente rilevanti quali possono essere determinati rapporti internazionali (Artstein).

 

Bibliografia

·        Aron R., Pace e guerra fra le nazioni, Comunità, 1970;

·        Aron R., La politica, la guerra, la storia, Il Mulino, 1992;

·        Attina F., La politica internazionale contemporanea, Angeli, 1989;

·        Bonante L. – Santoro C. M. (a cura di), Teoria e analisi nelle relazioni internazionali, Il Mulino, 1986;

·        Pasquino G. (a cura di), Manuale di scienza politica, Il Mulino, 1986;

·        Panebianco A., Relazioni internazionali, Jaco Book, 1992;

·        Bonante L. (a cura di), Studi internazionali, Edizioni della Fondazione Agnelli, 1990;

·        Waltz K. N., Teoria della politica internazionale, Il Mulino, 1987;

·        Deutsch K. W., Le relazioni internazionali, Il Mulino, 1970;

·        Gilpin R., Politica ed economia delle relazioni internazionali, Il Mulino, 1990;

·        Papisca A. – Masci M., Le relazioni internazionali nell’era dell’interdipendenza e dei diritti umani, CEDAM, 1991.

           

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