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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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giovedì 24 marzo 2016

Immigrazione: ancora avanti senza una strategia

Immigrazione
Turchia: il partner difficile e obbligato
Riccardo Perissich
22/03/2016
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I gufi hanno di nuovo avuto torto e il Consiglio Europeo dell’ultima ora ha trovato l’accordo. Continueranno a gufare.

L’accordo fra gli europei è fragile e anche quello con la Turchia è precario. È anche per certi versi imbarazzante perché interviene a fronte di una evidente involuzione autoritaria del paese e in un momento in cui la popolarità del presidente Racep Tayyep Erdogan in Europa è ai minimi storici.

Ne consegue l’indignazione per un’Europa che ha “venduto l’anima” dei negoziatori da salotto che amano guardare il mondo con lo stesso realismo di quelli che ripetono a tavolino la battaglia di Waterloo sperando che Grouchy arrivi prima di Blucher.

Soldi, visti e processo di adesione
Nell’accordo ci sono vari elementi. Abbiamo promesso alla Turchia molti soldi: tre miliardi più altri tre. Sono molti, ma il Paese deve far fronte a due milioni e mezzo di rifugiati; un disastro umanitario che per quanto possibile non vorremmo trasferire da noi.

Abbiamo anche promesso di accelerare l’eliminazione dei visti per i turchi che si recano nella zona Schengen. Chi protesta dimentica che è un processo in atto da molto tempo e richiede che la Turchia soddisfi un certo numero di condizioni già enunciate; alcune comportano modifiche legislative.

Certo, è legittimo il dubbio che l’aver posto la scadenza di giugno conduca gli europei a essere troppo tolleranti, o la Turchia a non soddisfare alcune condizioni e poi usare il mancato compimento del processo come pretesto per non rispettare gli impegni presi. Vedremo.

La decisione di riaprire un capitolo del negoziato d’adesione è psicologicamente la più contestata perché può essere interpretata dalla nostra opinione pubblica come un via libera definitivo.

L’adesione della Turchia all’Unione europea, Ue, è una saga che dura da mezzo secolo e assomiglia sempre più a una commedia di Pirandello. La verità e che nessuno, né ad Ankara né a Bruxelles crede più che l’adesione sia possibile e in fondo nemmeno desiderabile.

L’Europa ha capito che non è in grado di assorbire un Paese con quelle caratteristiche e che la nostra possibilità di influenzare l’evoluzione del paese è limitata. La Turchia ha invece preso una strada di cui non conosciamo lo sbocco, ma che la porta nella migliore delle ipotesi a essere vicina all’Europa, ma non all’interno di essa; anche i turchi a noi più vicini lo sanno, anche se non vogliono ammetterlo.

È una finzione cui nessuno vuole rinunciare: noi, nell’illusione di aiutare un’opposizione kemalista che sembra incapace di esistere per conto suo, Erdogan perché vuole dimostrare al Paese di non aver del tutto tradito la visione di Ataturk.

Gestione dei flussi e dei respingimenti
Resta la parte più importante dell’accordo: la gestione dei flussi, delle riammissioni e dei respingimenti. Sarà, anche ammesso che tutti lavorino in buona fede, straordinariamente difficile. La Turchia dovrà contrastare filiere di criminalità organizzata che hanno all’evidenza vaste complicità all’interno del paese.

Noi dovremo essere capaci di aiutare massicciamente la Grecia; compito reso oggettivamente più arduo dalla decisione, presa in ottemperanza al diritto internazionale, di valutare i respingimenti su base individuale.

È precario anche l’accordo fra europei. Le decisioni più importanti, superamento di Dublino, gestione comune delle frontiere e programmi di ricollocamento, comportano grandi difficoltà e necessitano cessioni di sovranità. Ci vorrà una forte leadership soprattutto da parte di Germania e Italia, i due paesi più impegnati e, per ragioni diverse, più esposti.

Dovremo anche essere preparati a spiegare ai paesi recalcitranti che rifiutare la solidarietà comune comporta dei costi. Non bisogna peraltro dimenticare che, anche se l’Ue facesse pienamente la sua parte, la gestione dell’accoglienza resterebbe un problema nazionale e addirittura locale con problemi logistici e organizzativi non indifferenti.

Non sono impressionanti solo i numeri, ma anche le implicazioni per l’ordine pubblico, le caratteristiche sociali e culturali dei nuovi arrivati. Non possiamo illuderci che la macropolitica risolva problemi che invece richiedono un’accorta microgestione.

In Italia, un’opinione pubblica schizofrenica deve essere educata alla realtà. Non possiamo essere il Paese che fino a ieri voleva la Turchia nell’Ue subito e che ora la considera alla stregua di uno stato canaglia.

Non possiamo essere la nazione dove i sondaggi indicano un consenso maggioritario all’uscita da Schengen, quando siamo quello che ha finora accolto proporzionalmente il minor numero di migranti e rifugiati e per cui la chiusura delle frontiere sarebbe una misura a dir poco masochista.

Un accordo di interessi
L’accordo con la Turchia non è una promessa di matrimonio, ma riflette la consapevolezza di due attori in difficoltà che hanno bisogno l’uno dell’altro. Noi perché lì è la chiave per cominciare ad affrontare la crisi dei rifugiati. Loro perché il paese è sempre più isolato sul piano internazionale.

Resta il fatto che l’Europa è stata lasciata sola a gestire un problema che ha dimensioni planetarie. Dall’America in preda alla sua involuzione populista. Dalle Nazioni Unite che sembrano interessarsi alla questione solo per ricordarci i nostri obblighi umanitari. Sono lezioni di cui dobbiamo tenere conto.

Gli europei amano usare, spesso a sproposito, la parola crisi usandola per vicende che sono invece solo difficoltà superabili. Questa volta invece di crisi si tratta e addirittura esistenziale: non è affatto detto che la supereremo e ancor meno che arriveremo al traguardo tutti insieme.

Confortano due fatti di cui sembrano essere pienamente consapevoli le classi dirigenti al potere. Il fenomeno non è arrestabile con la costruzione di muri. I costi, politici ed economici, della fine di Schengen sarebbero giganteschi. Per chi crede ancora nella forza della ragione non è poco, anche se non sarà facile: per ogni populista xenofobo c’è anche un buonista che grida “avanti, c’è posto per tutti”.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.
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venerdì 18 marzo 2016

Petrolio: Un nodo difficile

Economia e affari internazionali
Crollo dei prezzi del petrolio, un problema di tutti
Marco Magnani
09/03/2016
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L’andamento dei prezzi delle materie prime - dal petrolio al gas naturale, dai minerali ai prodotti agricoli - è sempre stata una variabile macroeconomica con conseguenze abbastanza semplici da decifrare.

Per le economie industrializzate che importano materie prime - Europa, Giappone e Stati Uniti - il rialzo dei prezzi è generalmente un fatto negativo mentre il calo è positivo.

I periodi di prezzi bassi delle materie prime hanno spesso coinciso con fasi di espansione delle economie avanzate, come negli anni '60 e '90, e il mercato delle commodity si è quasi sempre mosso in controtendenza rispetto alle borse.

Come spiegare allora il quadro macroeconomico di questi mesi, caratterizzato contemporaneamente da materie prime al collasso, crescita economica anemica e mercati finanziari in crisi?

Economia globale e aumento della complessità
In un mondo “semplice”, prezzi bassi delle commodity avvantaggiano le economie industrializzate che le importano e prezzi alti favoriscono le economie emergenti che le producono ed esportano.

L’impennata del prezzo del greggio durante i due shock petroliferi degli anni ’70 ha prodotto inflazione e recessione nei paesi industrializzati, mentre i paesi produttori accumulavano surplus commerciali e riserve in valuta, aumentando il proprio peso politico internazionale.

Al contrario, a fine anni ’80 e nel corso degli anni ’90, la caduta dei prezzi delle commodity ha contribuito a un lungo periodo di crescita dei paesi industrializzati e ha causato seri problemi ad alcuni produttori di petrolio, come Messico, Indonesia e Russia, e di materie agricole, come Brasile e Argentina.

Nel mondo complesso di oggi, con economie molto interdipendenti, l’impatto della volatilità delle commodity è più articolato che in passato. Il paradigma tradizionale fatica a spiegare la situazione attuale.

La caduta verticale dei prezzi delle commodity, iniziata poco più di quattro anni fa dopo il picco del 2011, è fonte d’instabilità per i paesi emergenti, ma presenta rischi anche per Europa e Stati Uniti.

Attraverso diversi canali: 1) crollo di consumi, investimenti e importazioni dei paesi emergenti, che ha effetti negativi sulla domanda aggregata di quelli industrializzati; 2) “spiazzamento” di alcuni settori delle economie industriali; 3) possibilità di deflazione e d’instabilità finanziaria; 4) instabilità sociale e politica dei Paesi emergenti, con conseguenze negative per il resto del mondo.

Calo della domanda e spiazzamento degli investimenti
Le economie di molti paesi produttori di petrolio, gas e altri minerali sono in seria difficoltà a causa del crollo dei prezzi. Il Venezuela è sull’orlo della bancarotta, la Russia ha difficoltà a finanziare il deficit pubblico, Brasile e Sud Africa sono in grave affanno.

La prima conseguenza è la caduta in questi paesi di consumi e investimenti, che si traduce in minori importazioni dai paesi industrializzati. La domanda aggregata di questi ultimi è ridimensionata, con influenza negativa su tassi di crescita, occupazione e profitti delle imprese.

Le economie dei Paesi industrializzati sono influenzate negativamente anche per un altro motivo. Esemplare è il caso del petrolio, il cui prezzo è passato nel giro di due anni da oltre 110 dollari il barile ai circa 30 attuali. Il crollo ha spiazzato interi settori delle economie industrializzate.

L’estrazione di shale gas negli Stati Uniti è oggi meno competitiva. Il prezzo del petrolio basso è inoltre un forte disincentivo agli investimenti nella green economy. Più in generale, sono penalizzate le attività e lo sviluppo di tecnologie di estrazione, raffinazione e trattamento di materie prime, che spesso fanno capo a gruppi americani ed europei. Un discorso analogo vale per gli investimenti nel settore agricolo.

Rischio di deflazione e d’instabilità finanziaria
Storicamente l’andamento dei prezzi di materie prime agricole ed energia non è il centro dell’attenzione delle Banche Centrali. Infatti, la dinamica dei loro prezzi - salvo quello del petrolio che è trasferito sul prezzo della benzina - non incide in modo radicale sugli indici dei prezzi al consumo, che misurano l’inflazione.

Il costo del lavoro è, in questo senso, una variabile molto più pesante. Oggi tuttavia la grande paura di Fed e Banca centrale europea non è l’inflazione bensì la deflazione. Un prezzo delle commodity troppo basso è insidioso perché aumenta le aspettative di prezzi costanti o decrescenti da parte di famiglie e imprese, che quindi rallentano le decisioni di consumo e d’investimento.

Un secondo aspetto da considerare è il rischio d’instabilità finanziaria che può derivare dalle difficoltà economiche dei Paesi emergenti e che avrebbe ripercussioni internazionali. Nel caso della Russia ad esempio, il già fragile sistema bancario rischia di essere travolto da crisi economica e indebolimento del rublo. Com’è noto, stabilità dei prezzi e dei mercati finanziari sono obiettivi fondamentali delle Banche Centrali.

La spia di allarme dei mercati
Ai rischi economici si aggiungono quelli d’instabilità politica. Nel 2011 il picco dei prezzi delle materie prime, in particolare di quelle alimentari, è stato all'origine dei movimenti di protesta sfociati nella Primavera araba.

L’attuale livello dei prezzi delle commodity rende difficile ad alcuni paesi, le cui entrate sono drasticamente ridimensionate, mantenere il consenso sociale e la stabilità politica. Anche grandi produttori di petrolio come l’Arabia Saudita, nonostante le importanti riserve valutarie accumulate, potrebbero presto avere difficoltà.

In certi casi le minori risorse possono addirittura ridurre la capacità di contenere il terrorismo, come per Nigeria, Algeria e gran parte del Medio-Oriente. Le ripercussioni negative sulle economie dei paesi industrializzati sono evidenti.

Il nervosismo dei mercati finanziari nei primi mesi dell’anno riflette la complessità e l’incertezza che l’economia mondiale sta attraversando. Il mondo industrializzato non è ancora completamente uscito dalla grave crisi iniziata nel 2008 e la fragile crescita degli ultimi tempi è dovuta in gran parte agli interventi espansivi delle Banche Centrali, che non potranno continuare a lungo.

Le economie della Cina e degli altri BRICs hanno rallentato. Le incertezze politiche all’orizzonte - futuro di Ue ed eurozona, elezioni presidenziali negli Stati Uniti, instabilità in Medio Oriente - sono molteplici.

In questo difficile contesto i prezzi delle commodity sono in una fase di collasso che, anziché avvantaggiare i paesi industrializzati, costituisce per loro una fonte di ulteriori rischi e incertezze.

Marco Magnani è docente di Monetary & Financial Economics alla LUISS, Senior Research Fellow a Harvard Kennedy School e non-resident fellow dello IAI. Ha pubblicato i saggi economici Sette Anni di Vacche Sobrie (UTET, 2014), Creating Economic Growth (PalgraveMacmillan, 2015), Terra e Buoi dei Paesi Tuoi, UTET, 2016 (www.magnanimarco.com, twitter @marcomagnan1).
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mercoledì 9 marzo 2016

Alla ricerca di una strategia

Immigrazione
Integrare i migranti nelle società europee: coesione sociale o stratificazione?
Angela Paparusso
07/03/2016
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Mentre la fortificazione delle frontiere esterne d’Europa traballa - come sta accadendo al confine tra Grecia e Macedonia - sotto i colpi dei migranti che cercano protezione in Europa, l’emergenza dei concitati fatti di questi giorni ha offuscato per l’ennesima volta il dibattito su come integrare i migranti una volta accolti in Europa.

Eppure la questione è tutt’altro che secondaria, visto che ad oggi l’approccio prevalente resta quello della ‘convergenza verso l’integrazione civica’. Una linea politica, avviata nei paesi nord-europei negli anni Novanta, progressivamente replicata da quattordici paesi europei tra cui Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, e più recentemente l’Italia.

In altre parole, per risiedere in Europa, gli immigrati devono dimostrare, attraverso dei test, la conoscenza di lingua, cultura, valori e regole del paese di residenza, al fine di ottenerne il permesso di soggiorno o la cittadinanza. Regola che vale per tutti i migranti di lungo periodo, inclusi i rifugiati, ma non per i cosiddetti migranti qualificati.

Anche l’Italia,con i suoi cinque milioni di migranti regolari residenti, non è stata esente da questa svolta culturalista. Dal 2007, anno in cui Giuliano Amato, Ministro dell’Interno durante il Governo Prodi promuove la ‘Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione’, diversi atti governativi hanno promosso l’importanza della conoscenza della lingua, della storia e dei principi costituzionali italiani come prerequisito per un’inclusione degli immigrati.

È il caso del Pacchetto Sicurezza, approvato dal Governo Berlusconi nel luglio 2009, del ‘Piano per l’integrazione nella sicurezza. Identità e incontro’ del 2010 e del ‘Patto per l’integrazione’ entrato in vigore nel marzo 2012.

Tutte misure caratterizzate dal richiamo alla centralità dell’apprendimento della lingua italiana, dell’educazione civica e della conoscenza delle regole sociali, politiche ed economiche che regolano la società italiana.

Il sistema è, in teoria, estremamente stringente:attraverso un sistema di crediti, gli immigrati sono obbligati a firmare, entro 8 giorni dal loro ingresso regolare in Italia, un contratto di integrazione con cui si impegnano a dimostrare, entro due o tre anni, le competenze raggiunte.

Una preparazione insufficiente o la mancata frequentazione dei corsi implica il diniego del permesso di soggiorno e quindi l’espulsione dal territorio italiano.

Nella pratica, tuttavia, ad oggi, è ancora prematuro e difficile - soprattutto a causa della discrezionalità con cui tali misure vengono implementate - valutarne l’efficacia per il processo di integrazione.

Proprio questo scollamento tra politiche e prassi, suggerisce alcune riflessioni. La prima è che per la prima volta, l’integrazione civica è riuscita a conciliare il centro-sinistra - tradizionalmente abbastanza inclusivo nei confronti dell’immigrazione e più incline ad una equiparazione dei diritti socio-economici fra cittadini stranieri e cittadini italiani - e il centro-destra, storicamente più attento alla funzionalità mercato del lavoro e all’inserimento degli stranieri in quei settori economici che gli italiani generalmente rifiutano.

Entrambi hanno posto al centro del processo di integrazione degli immigrati degli elementi culturali, allineando l’azione e il dibattito politico italiano alla tendenza europea.

Tuttavia, è evidente che, sebbene la conoscenza della lingua, della cultura e delle regole del paese di residenza rappresenti un indiscusso strumento di integrazione economica e di mobilità sociale, queste politiche di integrazione civica, tanto in Europa quanto in Italia, denunciano chiaramente un approccio restrittivo rispetto all’immigrazione, che nei fatti si declina o con misure che contribuiscono a dissuadere e selezionare gli ingressi e a stratificare la popolazione immigrata, o con un rallentamento dei processi di integrazione. Ciò avviene nella misura in cui le politiche di integrazione civica prevedono un trattamento differenziato per gli immigrati cosiddetti desiderati, ai quali non viene richiesta nessuna prova della conoscenza della lingua e della cultura del paese in cui risiedono, e gli immigrati non desiderati o i rifugiati, ai quali invece vengono imposti gravosi corsi e test di integrazione.

Inoltre, faccenda non del tutto secondaria, la logica del controllo, che sembra permeare non solo la politica delle frontiere e dell’immigrazione, ma anche quella dell’integrazione, può alimentare episodi di insofferenza e violenza,sia tra gruppi immigrati, sia tra questi ultimi e la popolazione autoctona.

Siamo quindi così sicuri che la convergenza verso l’integrazione civica sia auspicabile per la coesione sociale delle società europee?

Angela Paparusso è Ph.D. candidate in Demografia all’Università di Roma “La Sapienza” dove si occupa di politiche di integrazione degli immigrati in Europa. Ha studiato a Rostock presso il Max Planck Institute per la Ricerca Demografica e all’Università Autonoma di Barcellona, dove ha conseguito lo “European Master in Demography” (angela.paparusso@uniroma.it).
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domenica 6 marzo 2016

Non state Actors. Informazioni Difesa

Articolo Pubblicato sul sitio:

Nota:

segnalo a tutti il breve resoconto sui Non-State Actors, argomento di attualità – se si guarda alle crisi mediorientali - che ha aperto il recente convegno della NATO Foundation svoltosi a Roma  la scorsa settimana.

Grazie per l’attenzione,

Tenente Colonnello Mario RENNA
Capo Sezione Mezzi di Informazione
Stato Maggiore della Difesa
Ufficio Pubblica Informazione
ROMA - 06 46912818