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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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venerdì 31 marzo 2017

Energia: nuove prospettive

La riunione del 10 aprile
Ministri a Roma: diamo energia al G7
Nicolò Sartori
28/03/2017
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La riunione dei ministri dell’Energia dei Paesi del G7, a Roma il 10 aprile, rappresenta un’opportunità per la presidenza di turno italiana per inserire nell’agenda dei Grandi del mondo alcuni temi chiave in materia di energia e clima.

L’Italia, infatti, è sì un grande importatore, fortemente dipendente dalle forniture estere di idrocarburi, ma è anche uno dei Paesi meglio posizionati per cogliere le opportunità e affrontare le sfide della transizione energetica attualmente in corso. Energia e clima saranno anche al centro delle discussioni tra i Capi di Stato al vertice di Taormina il 26-27 maggio e a seguire i ministri dell’ambiente si riuniranno l’11-12 giugno a Bologna per la ministeriale Ambiente per approfondire i temi legati al clima e all’Agenda 2030.

Non si tratterà tuttavia di un’impresa facile: le incognite legate alle posizioni della presidenza Donald Trump sul clima, in particolare, rischiano di produrre un accordo al ribasso.

Salvate l’Accordo di Parigi
Da più fonti, anche basate nella stessa Washington, appare abbastanza evidente che nella nuova Amministrazione americana regni ancora uno stato di incertezza su come approcciarsi, in ambito internazionale, ai temi dell’energia e del clima. Quel che è certo, è che difficilmente la Casa Bianca si presenterà ambiziosa e propositiva sul dossier cambiamento climatico e politiche di decarbonizzazione.

E allora, in queste condizioni, riaffermare l’impegno nei confronti dell’Accordo di Parigi da parte del blocco G7 rappresenta l’obiettivo primario per la presidenza italiana, che vorrebbe evitare un'eventuale scissione tra i Grandi su un tema di questa portata.

Per rendere il boccone Parigi più appetibile (o, perlomeno, non indigesto) alla Casa Bianca, sarà necessario sottolineare le potenzialità economiche e occupazionali legate al processo di decarbonizzazione. Quello green è effettivamente un settore che può fare da volano alle balbettanti economie dei Paesi G7, che altrimenti rischiano di perdere la sfida dell’innovazione tecnologica lanciata dalla Cina, e di trovarsi alle spalle di Pechino nell’affrontare una transizione energetica ormai incontrovertibile.

L’Africa, alla quale la presidenza italiana dedica particolare attenzione, è un banco di prova fondamentale in questo senso. Il continente, infatti, non soltanto necessita degli sforzi della comunità internazionale per garantire un accesso universale all’energia sostenibile, ma è anche un mercato di sbocco eccezionale per l’industria low-carbon dei Paesi G7.

Sicurezza, minimo comune denominatore
Come nel 2014, quello della sicurezza degli approvvigionamenti energetici sarà un tema prioritario della ministeriale Energia per cementare l’intesa tra i membri del gruppo. Proprio con la sospensione della partecipazione della Russia in seguito ai fatti in Crimea, il format ha perso un importante interlocutore energetico, che tuttavia rimane un fornitore chiave per quattro dei sette Paesi seduti al tavolo: Germania, Italia, Francia e Giappone.

Le questioni controverse in seno al G7, ad ogni modo, non mancano. A partire dall’approccio nei confronti di Mosca della nuova Amministrazione americana, che potrebbe rivelarsi meno intransigente rispetto al passato anche in materia energetica. Questo potrebbe avere implicazioni sia sulla realizzazione del gasdotto Nord Stream 2 (contro il quale si era chiaramente schierata la presidenza Obama), ma anche sul futuro del Corridoio Sud (a supporto del quale Washington, invece, in passato ha speso parecchio capitale politico nella regione).

Sicuramente si parlerà di gas naturale liquefatto (Lng), e soprattutto del rafforzamento della cooperazione tra i due Paesi produttori del gruppo - Stati Uniti e Canada - e gli altri membri. L’intenzione di Trump di spingere sullo sviluppo delle risorse energetiche nazionali implica inevitabilmente la necessità di trovare mercati di sbocco sicuri per le proprie esportazioni.

Lo stesso vale per il Canada, le cui ambizioni di diventare un esportatore globale di Lng sono state frustrate dal crollo dei prezzi del gas naturale e - giocoforza - degli investimenti internazionali. I Paesi europei e il Giappone, qualora i segnali di prezzo siano favorevoli, hanno tutto l’interesse a farsi trovare in prima fila.

Altri temi includono l’integrazione delle fonti rinnovabili nel sistema energetico, un rinnovato impulso all’efficienza energetica, ricerca e innovazione, un’attenzione particolare all’occupazione nel settore dell’energia e alla mobilità sostenibile.

Il Mediterraneo grande assente
Nonostante il focus sull’Africa sia un ottimo elemento introdotto nell’agenda del G7, dalla presidenza italiana ci si sarebbe potuta aspettare maggiore attenzione nei confronti del Mediterraneo. Se è vero che i paesi del Maghreb fanno ovviamente parte del continente africano, appare chiaro che l’attenzione della ministeriale sarà proiettata principalmente sulla regione sub-sahariana.

Questa scelta potrebbe rivelarsi miope, poiché il Mediterraneo non è soltanto un’area chiave per la sicurezza degli approvvigionamenti energetici (in primo luogo dell’Italia), ma è anche un’area dove l’eventuale fallimento della transizione energetica e dell'adattamento ai cambiamenti climatici determinerebbe l’acuirsi di turbolenze sociali e politiche, e in ultima istanza della minaccia alla sicurezza dell’area europea nel suo intero. E mentre le presenze russa e cinese si fanno sempre più significative nel bacino, appare strano che un G7 a guida italiana non si faccia promotore di iniziative specifiche legate al futuro dell'energia e del clima nell’area.

Passando dalla dimensione regionale mediterranea a una prospettiva più globale, un tema che andrebbe probabilmente affrontato con maggiore risolutezza dal G7 è quello della governance multilaterale delle politiche energetiche e climatiche. Come dimostrato da tutte le proiezioni e gli scenari futuri, la domanda energetica dei Paesi industrializzati è destinata a rimanere costante e declinare se si vogliono raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi mentre le loro emissioni di CO2 rappresenteranno una percentuale sempre minore del totale globale.

Alla luce di queste dinamiche, appare quantomai necessario, all’interno del gruppo G7, allargare la riflessione su come includere altri attori chiave nei processi di governance globale, pena il rischio di fallimento delle politiche energetiche e climatiche globali, ma anche la perdita di rilevanza dei Paesi G7 su questi temi.

Nicolò Sartori è responsabile di ricerca e coordinatore del Programma Energia dello IAI.

venerdì 24 marzo 2017

La Guida del Mondo

Economia e governance
G7: verso Taormina e oltre, una roadmap
Simone Romano
24/03/2017
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La riunione dei capi di Stato e di governo dei Grandi, programmata per il 26 maggio a Taormina, sarà il punto culminante del G7 sotto presidenza italiana.

Gli spunti di interesse che essa racchiude non sono pochi, sia da un punto vista politico che economico: il Vertice sarà il primo evento di questa portata a cui parteciperà il presidente Usa Donald Trump - e segnerà pure l’esordio di Angela May e del nuovo presidente francese, oltre che di Paolo Gentiloni - e potrebbe essere l’ultimo cui prenderà parte Angela Merkel, attesa alle elezioni di settembre dopo dodici anni di governo.

Inoltre, per quella data, sarà stato formalmente avviato il processo che porterà alla fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, Ue.

A questi sommovimenti politici si somma una situazione economica che richiede azioni decise che non possono più essere rimandate. L’ultima parte del 2016 e l’inizio del 2017 hanno fornito alcuni segnali positivi, confermando la ripresa in atto in diverse economie mondiali. Tuttavia, a quasi dieci anni dallo scoppio della crisi finanziaria globale, la crescita permane fragile e le previsioni sul futuro non sono delle più rosee.

Questo si riflette su un livello di consumi e investimenti ancora insoddisfacente, che non aiuta alla risoluzione di problemi che rischiano di divenire ormai strutturali in alcune delle economie più mature, come una crescita sempre più anemica della produttività o un elevato tasso di disoccupazione.

Nonostante tutto ciò, la riunione del gruppo dei Sette sotto presidenza italiana non sta ricevendo la dovuta attenzione. La conferenza internazionale organizzata a Roma dallo IAI per il 27-28 marzo,che rappresenta il punto culminante del progetto di ricerca sul ruolo del G7 guidato dall’Istituto e svolto in collaborazione con i più importanti centri di ricerca dei sette Paesi membri, vuole invertire questa tendenza.

Sarà un occasione per individuarequelli che dovrebbero essere i temi e le iniziative specifiche su cui i leader dei Sette dovrebbero concentrarsi nel prossimo Vertice, cercando di massimizzare l’impatto di queste riunioni risultate troppo spesso poco efficaci in passato.

Necessità di coordinare di più le politiche macroeconomiche
Dalla grande recessione del 2009 ad oggi l’onere dello stimolo dell’attività economica nei Paesi membri è ricaduto interamente sulla politica monetaria, limitando al minimo lo spazio di manovra delle Banche centrali nell’eventualità dell’occorrenza di un nuovo shock negativo e rischiando di creare squilibri e bolle.

Considerando che negli ultimi anni lo spazio di manovra fiscale in alcuni dei Paesi più sviluppati è andato crescendo e che i fattori che caratterizzano la presente congiuntura economica massimizzano l’efficienza delle misure espansive di tipo fiscale, sembra sempre più opportuno un ricorso a queste ultime.

Inoltre, è necessario che le riforme strutturali di cui molti Paesi hanno bisogno vengano completate al più presto. C’è bisogno dunque di un policy mix più equilibrato a livello interno che utilizzi tutti gli strumenti a disposizione e permetta di sfruttare le sinergie positive tra essi.

È asupicabile però che il coordinamento delle politiche economiche non rimanga solo a livello interno ma che abbia anche una dimensione internazionale. Coordinare le strategie macroeconomiche tra le principali economie mondiali permetterebbe di sfruttare al meglio i reciproci effetti di spillover positivi e minimizzare gli effetti destabilizzanti.

Un esempio di azione specifica sulla quale i Sette potrebbero accordarsi è la lotta ai paradisi fiscali e alla gara al ribasso nell’imposizione fiscale, perseguibile solo con un approccio condiviso a livello internazionale. Ciò permetterebbe di recuperare risorse ingenti per l’erario delle economie più avanzate che potrebbero essere destinate alla lotta della crescente disuguaglianza che mina sempre più la stabilità economica e politica dei Paesi più sviluppati.

Governare la globalizzazione per resistere al protezionismo
La vittoria di Trump e del “leave” al referendum britannico sono solo due dei segnali più eclatanti di un crescente malcontento verso la globalizzazione diffusosi nella classe media delle economie più mature. Questo ha alimentato ulteriormente una spinta protezionistica già diffusasi dopo la crisi del 2009.

Occorre che il G7, nonostante le posizioni americane, respinga con energia ogni tipo di tentazione protezionistica e crei le basi non per rifiutare o cancellare un processo ormai irreversibile come la globalizzazione, ma per governarla e migliorarla.

È vero infatti che la crescente apertura dei mercati internazionali registratasi negli ultimi 60 anni ha comportato enormi vantaggi a livello globale, ma questi vantaggi, oltre a non essere ben comunicati, sono stati distribuiti in maniera iniqua, non preoccupandosi di tutelare le classi più colpite da questi processi di globalizzazione.

In tal senso la ratifica di accordi internazionali di nuova generazione, quale quello già firmato tra Ue e Canada o quello in fase avanzata di negoziazione tra Ue e Giappone, può risultare decisiva dato che tali accordi non mirano solo a favorire i flussi commerciali, ma anche ad assicurare alti livelli di standard qualitativi e a formare un base regolamentare che contribuisca a governare il processo di globalizzazione.

Stabilizzare la regolamentazione per garantire la stabilità finanziaria
A ciò però è necessario che si affianchi uno sforzo dei singoli Stati nell’attuare politiche redistributive e di sostegno attivo all’occupazione e alla ricollocazione che vadano a eliminare le cause del malcontento.

I Paesi del G7 dovrebbero impegnarsi per completare il processo di riforma della regolamentazione finanziaria iniziato dopo la crisi del 2009. È opportuno però che il quadro normativo internazionale venga al più presto stabilizzato, dando così maggiore stabilità ed evitando incertezza, in modo da facilitare l’erogazione di credito al settore reale.

A questo tipo di sforzo va aggiunta la necessità di trovare un accordo in merito a una strategia internazionale efficace di gestione dei flussi finanziari internazionali, con l’obiettivo di orientare i mercati finanziari globali verso una maggiore stabilità monetaria e finanziaria.

Simone Romano è ricercatore dello IAI.

martedì 21 marzo 2017

Le turbolenze in Europa


La rielezione di Tusk
Ue: isolamento governo conservatore polacco
Luigi Cino
15/03/2017
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Il 9 marzo il Consiglio europeo ha rieletto alla propria presidenza, per un secondo mandato di due anni e mezzo, il polacco Donald Tusk con 27 voti favorevoli e il solo voto contrario proprio del governo polacco.

Che aveva proposto un candidato alternativo, il diplomatico polacco ed ex vice-presidente del Parlamento europeo Jacek Saryusz-Wolski, membro dello stesso partito di Tusk (Piattaforma Civica) e del Partito popolare europeo dai quali è stato allontanato per avere accettato la candidatura proposta dai conservatori di “Diritto e Giustizia” (PiS) che guidano il governo polacco con la prima ministra Beata Szydło e hanno anche la presidenza della Repubblica polacca con Andrzej Duda.

Il partito di destra PiS, che in seno al Parlamento europeo fa capo al gruppo dei Conservatori e riformisti europei (Ecr), ha vinto le elezioni dell’autunno 2015, aprendo diverse dispute con l’Europa su questioni come lo stato di diritto, il diritto all’aborto, la libertà di informazione e su temi ambientali.

Guidato dal suo leader Jarosław Kaczyński, fratello dell’ex presidente della Repubblica polacca morto nell’incidente aereo di Smolensk (Russia) nell’aprile 2010, il PiS ha aperto una stagione di rapporti altalenanti con l’Unione europea, Ue che hanno portato il Paese ad avvicinarsi all’Unione su questioni riguardanti la difesa e la Brexit, ma ad allontanarsi dai valori europei dello stato di diritto rischiando sanzioni da parte dell’Unione.

Le riforme contestate
Sin dalla vittoria elettorale del 2015, i conservatori sono stati protagonisti dell’avanzamento di alcune dibattute proposte legislative che hanno riattivato il tessuto sociale polacco e la società civile, schieratasi fortemente contro con grandi manifestazioni nella capitale polacca.

Nel gennaio 2016 arriva il primo monito da parte della Commissione europea, preoccupata perché lo stato di diritto nel Paese si sarebbe trovato in un “pericolo sistemico” se fosse stata adottata la proposta di modifica del funzionamento della Corte costituzionale presentata dal governo, che avrebbe reso necessaria una maggioranza molto più ampia per bloccare un provvedimento governativo.

Tale misura, insieme a un maggiore peso dell’esecutivo nella scelta dei giudici costituzionali, avrebbe messo a rischio l’indipendenza dei giudici, che sarebbero stati sottoposti al potere esecutivo, e avrebbe reso quasi impossibile un effettivo controllo costituzionale delle leggi del governo, che avrebbe avuto molta mano libera.

Ovviamente, la Corte costituzionale ha bocciato tale provvedimento. Ma come risposta il Governo polacco ha rifiutato la pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta ufficiale, aprendo de facto una crisi istituzionale nel Paese. A ciò si aggiunge una proposta di legge per la riforma del settore dell’informazione, che prevede una limitazione per i giornalisti di accedere ai lavori parlamentari.

Al monito della Commissione di imporre sanzioni al Paese che mette a rischio la sua democrazia, la Polonia ha trovato un alleato nel primo ministro ungherese Viktor Orban, anch’egli noto per le sue propensioni alla concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo.

Dispute sullo stato di diritto
Le gigantesche manifestazioni svoltesi nelle piazze del centro di Varsavia hanno spinto il Parlamento a respingere le leggi, in particolare quella che prevedeva il ricorso all’aborto solo in caso di pericolo di vita della donna, contro la quale le donne polacche hanno fortemente manifestato nel “lunedì nero” dell’ottobre 2016.

Anche la Commissione europea per la Democrazia tramite il Diritto, meglio conosciuta come Commissione di Venezia, facente capo al Consiglio d’Europa, ha condannato il governo polacco con un parere nell’ottobre 2016. Ma, per la prima volta nei 25 anni di attività della Commissione, un governo non ha presentato nessuna dichiarazione in risposta alla condanna.

La Commissione, che ha favorito le transizioni democratiche nei paesi dell’ex blocco sovietico tramite pareri e supporto dal punto di vista giuridico-costituzionale, aveva ricevuto una richiesta di parere da parte dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.

Come previsto dal modus operandi della Commissione, questa aveva fatto una visita nel Paese, cui aveva partecipato anche il presidente Gianni Buquicchio, il quale in una recente comunicazione del gennaio 2017 si dichiara “preoccupato del peggioramento della situazione all’interno della Corte costituzionale della Polonia”.

Squilibri asimmetrici
Il governo polacco continua a respingere le varie condanne da parte delle varie istituzioni internazionali. Ma non sempre trova l’appoggio dei suoi alleati Ungheria e Repubblica Ceca, che hanno votato a favore della rielezione di Tusk.

Invece, su questioni come la difesa comune europea, la Polonia si sta riavvicinando alla Germania, spesso vista come un nemico e accusata di ‘germanizzare’l’Europa. Inizialmente contrario all’Europa a più velocità, il governo polacco potrebbe ora appoggiare tale proposta di Parigi e Berlino, che difficilmente potrebbero andare avanti se un Paese come la Polonia opponesse resistenza.

Se l’elezione di Trump e la Brexit hanno riavvicinato la Polonia all’Unione - in quanto essa ha timore di trovarsi sola di fronte alla Russia e teme per la grande comunità di polacchi che oggi lavora nel Regno Unito e invia cospicue rimesse in patria -, il Paese rimane ancora isolato nel contesto europeo a causa delle politiche perseguite dal governo conservatore.

Il rischio è che la Polonia approfitti di un’Europa a più velocità, cercando sostegno per quanto riguarda la difesa comune ma rifiutandosi, come già successo, di sottoscrivere politiche di burden sharing come la ricollocazione dei rifugiati nei Paesi europei.

Luigi Cino, dottorando presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

lunedì 20 marzo 2017

Mediterraneo ed Immigrazione

Italia, Nato e Mediterraneo
Crisi migratoria e Libia, l’anello mancante 
Alessandro Marrone
13/03/2017
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“Ognuno lavora con i mattoni che ha” sosteneva De Gasperi, guardando pragmaticamente agli elementi su cui poteva contare nelle sue politiche al governo del Paese. L’Italia che negli ultimi anni ha affrontato una crisi migratoria senza precedenti, con oltre 500.000 tra profughi e migranti sbarcati sulle sue coste nel 2014-2016, deve applicare lo stesso approccio al nesso tra sicurezza interna ed esterna.

Il flusso migratorio seguito alle rivolte del 2011 nei Paesi arabi ha dimensioni e complessità ben superiori a precedenti esperienze dell’Italia, pure significative, quali negli Anni ‘90 la massiccia immigrazione dai Balcani occidentali all’epoca attraversati da conflitti, crisi e instabilità.

La gestione di un fenomeno del genere implica ovviamente diversi aspetti, tra cui quello di sicurezza ha una dimensione sia interna sia esterna per quanto riguarda il controllo dei confini italiani - che sono anche confini Ue -, il contrasto ai trafficanti di esseri umani e le crisi nei Paesi di origine o transito di migranti e profughi.

Libia: il partenariato non funziona senza uno Stato
Un’adeguata gestione dei flussi migratori sulla rotta che attraversa il Mediterraneo centrale necessita di partenariati con i Paesi del Nord Africa, e non a caso è cresciuto l’attivismo dell’Italia - ma anche della Germania - in Tunisia, Egitto e Libia. Tuttavia, mentre i primi due Stati sono in grado di controllare, pur con diversi problemi, i propri territori e confini, nel terzo l’autorità statale si è disgregata dopo che l’intervento occidentale del 2011 ha contribuito al rovesciamento del regime di Gheddafi senza però lavorare alla successiva stabilizzazione del Paese.

In un certo senso, gli errori commessi all’epoca sul fronte della sicurezza esterna, in particolare dai fautori dell’intervento militare a Parigi, Londra e Washington, hanno avuto ricadute negative e di lungo termine non solo in Libia, ma sulla sicurezza interna dell’Italia e dell’intera Unione europea, Ue messa in crisi anche dalla pressione migratoria senza precedenti cui è sottoposta.

Italia ed Ue hanno cercato e cercano di affrontare la crisi migratoria con diverse politiche e risultati discutibili. Non sembra però ancora esserci in Europa la consapevolezza e la volontà politica di riconoscere appieno il nesso tra sicurezza interna ed esterna e di affrontare quindi la stabilizzazione della Libia come un passo necessario anche per uscire dall’emergenza nella gestione dei flussi migratori.

Il paragone con la missione multinazionale Alba condotta esattamente 20 anni fa dall’Italia in Albania, per stabilizzare il Paese balcanico in preda ad una profonda crisi e fermare così il flusso migratorio verso la Puglia, risulta fuorviante, viste le ovvie differenze tra la situazione albanese dell’epoca e quella libica attuale. Tuttavia è altrettanto fuorviante pensare che per gestire il flusso di migranti dalla Libia basti limitarsi a formare la marina e la guardia costiera di un Paese che non ha uno Stato, oppure siglare accordi con il governo di Tripoli che non controlla metà del territorio libico.

La Nato e le crisi a Sud dell’Europa
Serve quindi una riflessione ulteriore sulla dimensione di sicurezza esterna della crisi migratoria, e sul contributo maggiore che la politica estera e di difesa italiana può dare, lavorando appunto con i mattoni a disposizione a livello nazionale, europeo e transatlantico - tema trattato anche dalla conferenza IAI del 14 marzo.

In particolare, la Nato negli ultimi anni ha posto maggiore attenzione al vicinato meridionale, soprattutto in chiave di contrasto allo Stato Islamico e al terrorismo internazionale islamista, di sostegno a Paesi partner quali Tunisia e Giordania e di contributo alla sicurezza marittima del Mediterraneo con il lancio dell’operazione Sea Guardian. La recente decisione di costituire a Napoli un “hub” per il Sud che supporti le attività di intelligence e di contrasto al terrorismo, nonché i partenariati con i Paesi del Nord Africa e Medio Oriente, va in questa direzione.

La lotta al terrorismo, oggi tra le priorità dell’amministrazione Trump, non deve però causare ulteriore entropia nella regione del Mediterraneo, ma piuttosto essere parte di un complessivo sforzo politico, diplomatico e militare, per stabilizzare quest’area - obiettivo sancito nell’ultimo vertice Nato con l’impegno a proiettare stabilità nel vicinato meridionale dell’Alleanza. Uno sforzo che impari dagli errori del 2011, che sia condotto in cooperazione con l’Ue e che sia basato su un dialogo strategico sia all’interno che all’esterno della Nato.

Sul versante interno, è necessario affrontare la situazione paradossale per cui due Paesi alleati come Francia e Italia sostengono in Libia, direttamente o indirettamente, i due fronti contrapposti di Haftar e al-Serraj. Sul versante esterno, i partenariati bilaterali e multilaterali con i Paesi del Nord Africa e Medio Oriente, inclusi il Mediterranean Dialogue e l’Istanbul Cooperation Initiative, potrebbero essere utilizzati anche per un contribuire ad una convergenza di politiche rispetto alle crisi in corso - a partire proprio da quella libica.

Si tratta di un compito arduo, sul quale pesano negativamente anche le incertezze quanto alla posizione di Stati Uniti e Turchia. Ma è un compito che va tentato perché ne va della sicurezza e stabilità dell’Italia e dell’Ue, ed in ultima analisi della stessa Nato, che accuserebbero non poco di un eventuale altro mezzo milione di migranti in transito dallo Stato fallito libico alle coste italiane nel prossimo triennio.

Alessandro Marrone, Responsabile di Ricerca Programma Sicurezza e Difesa; Twitter @Alessandro__Ma.

venerdì 17 marzo 2017

Una Alleanza irrequieta

Burden-sharing
Nato: la solita e sbagliata lite tra alleati
Giuseppe Cucchi
10/03/2017
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Già Rudyard Kipling parlava di "fardello", ma per lui il “burden” era quello del britannico (o altro europeo) “costretto” dalla storia ad impegnare i suoi figli migliori oltremare per provvedere al buon governo di popoli “per metà diavoli e per metà bambini”.

Finito il tempo di Kipling, più recentemente, i presidenti degli Stati Uniti, ultimo anche Donald Trump, hanno invocato un "burdensharing", la necessità di suddividere equamente fra tutti i membri dell'Alleanza Atlantica il fardello della difesa comune. Un diverso concetto di fardello, che condivide però con Kipling l’idea di una missione destinata a fare prevalere il bene sul male.

Le percentuali del Pil
Ciò che gli Usa lamentano è il fatto che la percentuale del prodotto interno lordo (Pil) che gli altri alleati destinano alle spese di difesa non sia mai stata neanche prossima al livello delle risorse che essi stanziano.

Nel tempo sono esistite alcune eccezioni. In primo luogo quella della Francia e del Regno Unito, i cui bilanci per la difesa sono sempre stati più alti della media europea, sia per la volontà di finanziare una componente territoriale capace di sostenere ambizioni oltremare, sia per mantenere in essere una componente nucleare che, vista la sua esiguità numerica, è obbligata per ragioni di credibilità dissuasiva a sostenere un livello tecnologico molto avanzato e costoso.

In secondo luogo, almeno sino a pochi anni or sono, facevano eccezione la Grecia e la Turchia, ma più per reciproca diffidenza di vicini storicamente ostili che per motivi Nato.

Per tutti gli altri alleati valeva la regola molto pragmatica di fare il massimo reso possibile dalla situazione politica interna nonché dalle oscillazioni economiche di ciascun Paese. Nei periodi di più tesa contrapposizione fra i due blocchi, la media degli stanziamenti per la difesa si è quantificata così fra il 2 ed il 2,5 per cento del Pil.

Il calcolo del “burdensharing”che ne derivava non soddisfaceva ovviamente gli Stati Uniti che non perdevano occasione per ritornare con insistenza sull'argomento tutte le volte in cui avevano la possibilità di farlo.I loro rimproveri erano però basati su parametri essenzialmente economici, che da un lato non erano che parzialmente attendibili, mentre dall'altro non tenevano conto di elementi degni di nota che avrebbero invece dovuto essere presi in considerazione.

Il gioco del metti e leva
La scarsa attendibilità dei dati dipendeva infatti dall'interesse che ciascun Paese aveva a gonfiare i propri stanziamenti ogni volta che essi venivano calcolati in ambito internazionale, salvo poi minimizzarli quando venivano presentati a parlamenti nazionali particolarmente inclini a considerare prioritarie altre spese rispetto a quelle destinate alla difesa.

A ciò si aggiunge il fatto che ciascun Paese utilizza proprie regole di contabilità e ha in bilancio numerosi stanziamenti “dual use” che possono essere aggiunti o meno al bilancio della difesa a seconda delle circostanze.

Nel caso italiano, ciò si è tradotto in alcuni anni in una differenza dello 0,6 per cento del Pil (cioè in sostanza di circa il 30 per cento del totale della spesa per la difesa) fra i dati che circolavano in sede Alleanza e quelli che venivano invece resi noti in ambito nazionale.

Per non parlare poi di quanto destinato ai Carabinieri, di volta in volta considerato, a seconda delle opportunità, come spesa destinata principalmente a esigenze di polizia o viceversa a quelle di difesa.

Gli Stati Uniti d’altro canto preferiscono ignorare quanto sia diversa la situazione di una grande potenza, con ambizioni di massimo livello, interessi globali e una presenza militare da mantenere credibile sin nel più remoto angolo del mondo, da quella di potenze medie o piccole interessate soltanto alla sicurezza di un'area ben determinata.

È questo un errore che gli Usa stanno ripetendo anche oggi allorché, con un certo livello di schizofrenia, accrescono in termini macroscopici il loro bilancio della difesa al dichiarato scopo di " rendere di nuovo grande l'America" mentre nel contempo invitano gli alleati a un maggiore "burdensharing", dando per scontato che anche gli altri Paesi condividano senza riserve questo loro obiettivo. Un punto su cui si potrebbe discutere a lungo ma che purtroppo non viene mai sollevato né in ambito multilaterale né, tantomeno, in quelli bilaterali.

Basi e costi e altri oneri
Infine, nel parlare di fardelli, si dovrebbero mettere sul piatto della bilancia anche altri elementi, a volte difficilmente cifrabili, come a esempio il fatto che il territorio coinvolto in caso di scoppio delle ostilità con l'Urss era essenzialmente quello europeo.

In tempi di Mad (Mutual Assured Destruction), ciò era bilanciato almeno in parte dalla garanzia nucleare americana. Non è più così adesso, nel momento in cui contrasti fra Nato e Russia, sul tipo di quello in corso nell'area ucraina, appaiono destinati a mantenere caratteristiche di un conflitto addirittura più ibrido che convenzionale.

Ci sono poi Paesi europei che hanno sempre sopportato l'onere derivante dalla presenza sul loro territorio di forze americane schierate in basi Nato, di cui l'ospitante mantiene la sovranità, ma che le opinioni pubbliche nazionali tendono a considerare come basi statunitensi. Né questo deve sorprendere, visto che anche l'alleato transatlantico tende spesso a considerarle come tali, costringendo a volte il padrone di casa a reazioni decise o ad interdirne, almeno parzialmente, l'uso nonostante le pressioni statunitensi.

In altri tempi il fenomeno dello stazionamento in Europa di forze statunitensi aveva dimensioni macroscopiche, soprattutto per la Germania. Ma dopo la fine della guerra fredda la presenza permanente americana si è ridotta in tutti i Paesi europei, salvo l'Italia.

Si tratta del lato negativo di quella che per anni è stata evidenziata come la nostra "rendita di posizione strategica”, cioè il fatto che il nostro Paese, collocato al centro del Mediterraneo, permette agevolmentedi raggiungere parecchie potenziali aree di instabilità, come il Nord Africa, il Medio Oriente, i Balcani.

Oggi la presenza americana in Italia ha più o meno le dimensioni di quella che gli Usa mantengono nella Corea del Sud, nonostante le ben diverse condizioni strategiche. Si tratta di un onere che non è mai stato efficacemente evidenziato né tantomeno è entrato in linea di conto ai fini di una corretta suddivisione del fardello.

Parimenti dimenticate, anche grazie all'assurda regola della Nato secondo cui "costs lie where they fall" (in una traduzione libera: i costi sono sopportati da chi vi incorre), sono anche le spese in cui l'Italia è incorsa ospitando, nei due conflitti Nato più recenti, la guerra del Kosovo e quella di Libia, le forze aeronavali della Alleanza.

Costi cui si sono poi aggiunti anche quelli della ripulitura dell'Adriatico dalle bombe scaricate nelle "jettison zones" dagli aerei che ritornavano carichi da missioni per qualche motivo non completate. Si è trattato in questo caso di una operazione cui la Nato ha infine contribuito, ma solo dopo ripetute sollecitazioni.

Ma in fin dei conti…
Ciò detto, non bisogna dimenticare che, anche se gli americani hanno torto nell'insistere su una formula di compartecipazione del tutto inadeguata, essi hanno tuttavia ragione quando sostengono che per lo più i loro alleati spendono troppo poco per la difesa e la sicurezza comune.

Di fronte ad una insicurezza nazionale ed internazionale crescente e ad un aumentato costo degli strumenti di sicurezza e difesa, primo fra tutti il personale, gli europei hanno per lo più reagito diminuendo costantemente, per più di 25 anni, le risorse destinate al settore. Quos jupiter perdere vult, dementat prius.

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.

mercoledì 8 marzo 2017

Europa: idee e proposte

l Libro Bianco di Juncker
Solo scenari per il futuro dell’Europa?
Ferdinando Nelli Feroci
06/03/2017
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C’era molta attesa per il Libro Bianco che la Commissione europea aveva promesso di pubblicare come proprio contributo al dibattito sul futuro dell’Europa nella prospettiva delle celebrazioni del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma.

Ma chi si aspettava dall’Esecutivo europeo idee o proposte originali e innovative è probabilmente rimasto deluso dal documento presentato qualche giorno fa dal presidente Jean-Claude Juncker al Parlamento europeo.

Lo stesso Juncker d’altronde ha chiarito nella sua introduzione che il Libro Bianco si propone esclusivamente l’obiettivo di aprire la prima fase di un dibattito, che dovrebbe iniziare il 25 marzo e arrivare alle prime conclusioni al Consiglio europeo di fine anno.

Consapevole delle incertezze derivanti da un ciclo elettorale che coinvolgerà nel 2017 alcuni fra i maggiori Paesi membri, e consapevole che allo stato attuale permangono divergenze significative fra i Governi nazionali sulle misure da adottare per rilanciare il progetto comune europeo, il presidente della Commissione ha preferito mantenere un profilo basso e rimanere sostanzialmente all’ascolto.

Obiettivo: stimolare la discussione
Si è quindi limitato a proporre alcuni scenari alternativi sul futuro dell’Europa, senza fare scelte, con l’intenzione dichiarata di stimolare una discussione a vari livelli in vista di decisioni che dovranno essere assunte essenzialmente dai Governi nazionali.

Il Libro Bianco si divide in due parti. Nella prima parte più analitica (sicuramente la più convincente anche se scarsamente originale) si individuano elementi di forza ed elementi di debolezza del progetto europeo. E si attira l’attenzione sulle sfide che l’Unione europea, Ue dovrà fronteggiare nel futuro prossimo: un peso specifico che si va riducendo rispetto al resto del mondo in termini di popolazione e reddito prodotto; un contesto internazionale instabile e l’emergere di potenze ostili alla stessa idea di un’Europa unita; i dubbi crescenti sui vantaggi del multilateralismo e della liberalizzazione del commercio internazionale.

Ma anche gli effetti persistenti della crisi economica e finanziaria sui livelli d’indebitamento e sulla situazione dell’occupazione in un contesto di ripresa modesta e per di più distribuita in maniera disomogenea fra i Paesi membri; un utilizzo crescente delle nuove tecnologie dell’informazione e della digitalizzazione destinate a incidere profondamente sui sistemi di produzione e sui livelli di occupazione; la pressione di flussi migratori ormai diventati un fenomeno strutturale; la minaccia del terrorismo internazionale; e infine la questione del sostegno popolare, della legittimazione democratica e del divario da colmare tra aspettative e capacità di produrre risultati.

Una analisi che porta a concludere che sarebbe illusorio pensare che i singoli Stati membri possano ragionevolmente fare fronte a sfide di questa portata. E che solo un’Europa unita, solidale, efficace e sostenuta dai suoi cittadini potrà competere ad armi pari sulla scena globale.

Cinque scenari fra cui scegliere
Ma a fronte di questa analisi realistica, e a tratti impietosa, della situazione in cui si trova il progetto europeo, delle sue debolezze, e della complessità delle sfide che attendono l’Europa, il Libro Bianco si limita ad individuare cinque scenari sostanzialmente alternativi, ma anche combinabili fra loro, cinque possibili percorsi da seguire per uscire dalla poli-crisi attuale, lasciando ai Governi nazionali la responsabilità di scegliere.

Il primo scenario equivale di fatto alla prosecuzione dello ‘status quo’. L’Unione prosegue con la sua velocità di crociera attuale, a piccoli passi, continuando con l’attuazione della agenda già approvata, in un contesto nel quale la velocità dei processi decisionali dipende in larga misura dalla capacità di superare le differenze di posizione fra i Governi nazionali.

Il secondo scenario, decisamente regressivo rispetto alla situazione attuale, è quello in cui si decide di concentrarsi esclusivamente sul completamento del mercato interno; in cui si riduce in misura sostanziale la regolamentazione a livello europeo; in cui eventuali nuove forme di collaborazione vengono realizzate con accordi bilaterali fra Paesi membri.

Il terzo scenario è quello delle integrazioni differenziate, nel quale coalizioni di Paesi, “willing and able” decidono di procedere con formule più avanzate di cooperazione su specifiche politiche, salvaguardando peraltro la possibilità per gli altri di unirsi al progetto in una fase successiva. Fra i settori per i quali sperimentare questa integrazione differenziata, il Libro Bianco individua la difesa, la sicurezza interna, la tassazione e alcuni aspetti di legislazione nel campo sociale.

Il quarto scenario è quello che prevede di fare di più e meglio a 27, ma in un numero ridotto di settori (commercio internazionale, ricerca e innovazione, politiche migratorie, controllo delle frontiere esterne, difesa), restituendo contestualmente agli Stati membri altre aree di competenza, rinazionalizzando cioè varie politiche comuni, sulla base di una interpretazione rigorosa del criterio della sussidiarietà.

Ed infine secondo il quinto scenario i 27 decidono di procedere insieme su tutti i fronti, condividendo sovranità, risorse e processi decisionali in un disegno complessivo di rilancio del progetto comune. Uno scenario ideale per il quale l’unico limite sarebbe quello della legittimità democratica e del sostegno popolare (per non parlare della questione decisiva, ma irrisolta, della determinazione politica dei protagonisti del relativo processo decisionale).

Contributi settoriali in fieri
Infine il documento della Commissione anticipa la presentazione nei prossimi mesi di contributi settoriali più articolati sulla dimensione sociale, sul completamento della governance dell’Unione economica e monetaria, sulla gestione della globalizzazione, sul futuro della difesa europea e sul futuro del bilancio dell’Unione.

È vero che la Commissione alla vigilia della presentazione del Libro Bianco si era premurata di circoscrivere le aspettative anticipando la natura interlocutoria del documento. Ma resta il fatto che il testo proposto appare complessivamente deludente e poco coraggioso.

Chi si aspettava legittimamente un contributo (magari originale e innovativo) di idee e di proposte da parte della Commissione, alla vigilia dell’importante appuntamento del 25 marzo, ha dovuto constatare che l’Esecutivo dell’Unione, nelle problematiche circostanze attuali, si limita a sottoporre agli Stati membri degli scenari alternativi, per di più definiti in termini assai generici e talora contradditori.

Con l’effetto di confermare l’opinione prevalente sulla scarsa capacità di leadership di Juncker e della sua squadra, e sulla tendenza della Commissione a configurarsi più come una sorta di segretariato del Consiglio europeo, che come istituzione cui spetta la responsabilità dell’iniziativa politica. C’è da sperare che almeno i contributi annunciati per i prossimi mesi sulle varie politiche settoriali contraddicano questa impressione e contengano proposte operative su cui lavorare concretamente.

Ora più che mai la responsabilità sembra essere nelle mani dei Governi nazionali, o più realisticamente di quelli che hanno o avranno maggiore capacità di leadership. E questa constatazione non è certamente incoraggiante per chi si era illuso che l’istituzione comune, e sovranazionale per eccellenza, avesse ancora una responsabilità primaria nel guidare il progetto europeo.

Ma è anche una constatazione preoccupante se si guarda alle difficoltà per i Governi nazionali (divisi fra loro e in difficoltà di fronte ad opinioni pubbliche nazionali sempre meno convinte della validità del progetto europeo) di individuare quel (minimo) comune denominatore in grado di far recuperare alla costruzione europea il necessario sostegno popolare e la capacità di avanzare nonostante le difficoltà.

Ferdinando Nelli Feroci è presidente dello IAI.

martedì 7 marzo 2017

Difesa Europa: cardine del futuro UE

Eu60 Re-founding Europe
Difesa europea: da Monnet ai giorni nostri
Cosimo Risi, Alfredo Rizzo
01/03/2017
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La politica europea di difesa a volte affiora in superficie, a volte scorre sottoterra fino a fare perdere le tracce. In coincidenza non casuale con il recesso del Regno Unito, sta riprendendo tono per divenire un punto attorno a cui rilanciare l’Unione europea, Ue.

E d’altronde certe dichiarazioni del presidente statunitense Donald Trump, corrette solo in parte dal suo vice Mike Pence, lasciano intendere che Washington sarà meno propensa a prendersi cura delle esigenze europee e chiederà un diverso burden sharing in seno alla Nato.

All’origine fu Jean Monnet
Jean Monnet fu tra i primi a delineare concretamente il processo di costruzione della difesa europea. Dopo la guerra - pensava -, l’Europa dovrà riordinarsi attorno a forme di cooperazione multilaterale e cedere una fetta di sovranità in materia di difesa per trovare uno spazio nello scenario dominato dalle grandi potenze Usa e Urss.

L’esigenza si accentua quando gli Stati Uniti cominciano a spingere per il riarmo della Germania Ovest al fine di contenere l’espansionismo sovietico in Europa. Il riarmo tedesco sarebbe possibile ponendo la nuova Wermacht sotto la direzione strategica europea.

La Francia non è pronta ad accettarlo. Monnet propugna allora “un’azione dinamica che trasformi la situazione tedesca e orienti lo spirito dei tedeschi, a non cercare un regolamento storico sui dati attuali”. Di qui il Trattato Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio, 1951) ed il conseguente progetto Ced (Comunità europea di difesa).

La Ced cade, il tema s’inabissa
La Ced cade all’Assemblea francese sulle convergenti riserve della destra gollista e della sinistra socialista e comunista. Nel 1954 il tema della difesa europea s’inabissa per lasciare spazio ad altre forme di cooperazione.

L’Europa, conquistata alla logica dei blocchi contrapposti, si adagia nel quadro Nato ed affida le chiavi della difesa agli Stati Uniti. L’Ueo (Unione europea occidentale, 1954) allarga la vecchia Unione dell’Europa occidentale a Germania e Italia, le potenze sconfitte.

Il quadro Ueo è intergovernativo, non consente evoluzioni significative se non quella d’inserire la Germania Ovest in un meccanismo di sicurezza per ritrovare “the full authority of a sovereign State”. Il deterrente nucleare resta nelle mani degli Stati Uniti, Francia e Regno Unito si dotano di un arsenale decisamente più modesto.

Nei primi Anni Novanta il collasso dell’Unione Sovietica e l’ascesa al potere del tedesco Helmut Kohl e del francese Francois Mitterrand, nonché l’unificazione della Germania, valorizzano l’Unione politica europea. L’ultima campagna condotta dagli Stati Uniti, esistendo ancora l’Unione Sovietica, è la prima Guerra del Golfo contro l’Iraq.

Poi lo scenario muta, la fine della guerra fredda pone nuove sfide all’Europa. La Comunità si trasforma in Unione con il Trattato di Maastricht (1993), che disciplina il complesso della proiezione internazionale attorno ai pilastri della politica estera e di sicurezza (Pesc) e della politica di difesa (Pesd). Ambedue i capitoli preferiscono l’approccio intergovernativo al classico metodo comunitario. La Pesc si avvia subito, la Pesd è rinviata ad un futuro remoto: si realizzerà, se e quando, a termine.

Il lascito di Maastricht
Un progetto significativo è la creazione dell’Agenzia europea della Difesa (Eda), grazie alla quale dovrebbero incontrarsi industria e apparato militare. Resta il nodo politico di fondo: il rapporto con la Nato e con gli Usa. In seno all’Unione si fronteggiano gli atlantisti e gli europeisti. Il metodo intergovernativo che regola la materia consente ai primi di bloccare il dibattito nei confronti di tutti.

Il lascito di Maastricht è comunque determinante. La cooperazione in materia di politica estera è codificata nel Trattato. La difesa rimane sostanzialmente riferita all’Ueo, in seno alla quale viene congegnato il modello di peacekeeping europeo con le missioni cosiddette di Petersberg. E così, nel 1999, i capi di Stato e di governo presenti al vertice di Washington accettano la possibilità per l’Ue “to take decisions and approve military action where the Alliance as a whole is not engaged”.

La formula è ambigua e riceve conferma dalla prassi dei successivi accordi Berlin plus, riconducibili a una particolare categoria di accordi internazionali attraverso i quali certe missioni sotto l’egida Nato possono essere assunte dall’Ue (ad esempio, missione Concordia in Fyrom).

Il rilancio dell’Ue parte dalla Difesa 
Il Trattato di Lisbona (2009) interviene sulla materia con un approccio organico, sancisce la scomparsa dell’Ueo a favore di modelli di peacekeepinge peacebulding propri dell’Unione. Le norme in materia di sicurezza e difesa comune (Psdc) sono inserite nel capitolo sulla politica estera e riconducibili all’onnicomprensivo concetto dell’azione esterna dell’Unione. Tale azione si sviluppa secondo un modello di “competenze attribuite” e mediante il concreto esercizio di attività da parte dell’Unione al posto degli Stati membri.

La Psdc potrà condurre ad una vera e propria difesa comune solo quando “il Consiglio europeo, deliberando all’unanimità, avrà così deciso” (art. 42 Tue). Le cooperazioni strutturate permanenti dovrebbero divenire le piste principali verso la difesa integrata. La sfida riguarda l’emancipazione dal modello configurato attraverso la Nato, ma senza che ciò comporti il definitivo declino dell’Alleanza.

Il dibattito oggi a Bruxelles riguarda i profili giuridici e politici della difesa. Sul piano giuridico, sono da chiarire la soggettività dell’Unione in tale ambito e il quadro delle regole derivanti dal diritto internazionale. Sul piano politico, lo svantaggio di rinunciare a quote di sovranità va soppesato con il vantaggio d’imputare la difesa all’Unione in quanto tale.

La difesa incrocia sia, ovviamente, la proiezione esterna dell’Unione sia la politica domestica. Fronteggiare certe minacce alla sicurezza richiede adeguate capacità di analisi, prevenzione, reazione. Lo strumento militare integrato risponde alla domanda di sicurezza delle popolazioni europee e alla lettera del Trattato. Sicurezza e difesa sono elementi complementari. Con questa didattica istituzionale l’Europa può continuarea scrivere il libro della storia, altrimenti si consegna all’archivio delle buone intenzioni.

Cosimo Risi insegna Relazioni internazionali; Alfredo Rizzo è visiting lecturer di Diritto dell’Unione europea.