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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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giovedì 26 gennaio 2017

Europa: resistere o sparire

Trump, Putin, Erdogan e gli altri
Europa sotto assedio
Cesare Merlini
19/01/2017
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La cosiddetta “inaugurazione” della presidenza di Donald Trump corona un inizio di 2017 segnato dall’inedito scenario di un’Europa accerchiata da nemici del suo processo di unificazione. Alcuni sono motivati da calcoli geopolitici, altri dal cambiamento fine a se stesso. Tutti sono prodotto di democrazie elettorali variamente illiberali e usano retoriche nazionaliste variamente nostalgiche.

Un Vladimir Putin che vuol “riportare la Russia alla passata grandezza”, dopo una breve fase di apertura all’Occidente (dall’Occidente forse non verificata adeguatamente), considera adesso avversaria un’Unione Europea, Ue, che gli applica sanzioni economiche comuni a seguito della sua presa della Crimea e che costituisce un modello permanente di convivenza liberaldemocratica per i paesi interposti, come l’Ucraina, o per quel che rimane della stessa opposizione interna russa.

Recep Tayyip Erdogan, detto “il sultano” per il suo ispirarsi alla potenza ottomana del passato, pur non avendo formalmente abbandonato l’ipotesi di adesione all’Ue, sposta ormai apertamente il suo paese nella direzione opposta dell’incompatibilità con essa, mentre si unisce allo “zar” moscovita in un imprevisto matrimonio di interessi a prezzo di qualche voltafaccia.

Nominalmente nemico di tutti, l’Isis-Daesh, che vorrebbe far rinascere il Califfato, vede nelle azioni terroristiche in Europa una rivincita di immagine a fronte delle ritirate territoriali in Iraq e in Siria. Ne risultano così ostacolate a casa nostra sia l’integrazione delle minoranze musulmane nelle società riceventi sia l’integrazione fra stati in termini di libertà di movimento in seno all’Unione (non a caso argomento dominante nella propaganda per la Brexit).

Più lontani un Xi Jinping, autoeletto padre del “grande ringiovanimento del popolo cinese”, o un Nerendra Modi, leader del movimento hindu ispirato a grandezze passate, che non ha valutato negativamente il voto con cui la maggioranza dei cittadini dell’ex-potenza colonizzatrice britannica ha scelto di staccarsi dal vecchio continente.

Ma la differenza la fanno gli Usa
Quanto sopra non è però tutto così nuovo: basti ricordare la dura avversione di Mosca nei confronti delle nascenti comunità europee ai tempi dell’impero sovietico. La vera novità è oggi il mutamento degli atteggiamenti americani verso l’Europa, mutamento al quale l’accesso di Trump alla Casa Bianca con lo slogan “make America greatagain” sembra destinato a dare il carattere di una svolta tanto storicamente drammatica quanto politicamente incerta.

In verità, già subito dopo l’esito imprevisto del voto dell’8 novembre un piccolo ma significativo segnale lo aveva dato l’incontro del President-elect con il non meno inatteso vincitore del Brexit, Nigel Farage. Difficile non vedere dietro il gesto la mano del generale Michael Flynn, prontamente nominato da The Donald suo Consigliere per la sicurezza nazionale (per intenderci, quel che Henry Kissinger fu per Nixon e Zbignew Brzezinski per Carter).

In dicembre Heinz Christian Strache, leader del potente partito austriaco di estrema destra antieuropea (che ha mancato di poco la conquista della presidenza della repubblica), dopo aver firmato un accordo di cooperazione con il quasi partito unico di Putin, ha lasciato trapelare di aver incontrato Flynn alla Trump Tower, dove non molto tempo dopo sarà vista entrare la leader del Front National francese.

Alla vigilia di Natale poi, il rappresentante di Washington presso l’Ue, Anthony Gardner, figlio di un noto ambasciatore a Roma e convinto sostenitore di un’Europa unita partner degli Stati Uniti, ha ricevuto una lettera in cui lo si informava che dal 20 gennaio 2017, data del passaggio di poteri presidenziali, lui avrebbe cessato dalle sue funzioni. E ciò contro la prassi che ad ogni cambio di amministrazione vede gli ambasciatori uscenti invitati a rimanere in carica fino alla venuta del successore, cioè dopo la designazione, il gradimento della sede ospitante e l’approvazione del Congresso – un processo che può richiedere mesi.

Di nuovo non sono necessarie facoltà divinatorie per immaginare l’origine del messaggio all’amb. Gardner, origine diplomaticamente definita come “inner circle” del presidente eletto. Del quale circolo intimo fa parte anche un personaggio come Stephen Bannon, che da capo di Breitbart News, noto sito populista di estrema destra, è stato promosso a “capo stratega” della Casa Bianca. Il rappresentante di Breitbart a Roma (un ex-prete, amico dei nemici di Papa Francesco, in passato distintosi come difensore del prelato-guida dei Legionari di Cristo dall’accusa di pedofilia, poi dimostratasi drammaticamente fondata) ha raccontato al New York Times che Bannon va oltre le sue stesse preferenze nella velenosa avversione contro l’unificazione dell’Europa secolarista e calabrache dinnanzi ai “fascisti islamici” (1).

Prepararsi ad un futuro difficile
È bene avere presenti questi retroscena quando ci si interroga sulle recenti pubbliche prese di posizione del nuovo Presidente circa il divorzio britannico dall’Ue - un buon esempio che sarà seguito da altri - o circa il dubbio valore residuo dell’Alleanza atlantica nel contesto attuale.

Si dirà che le audizioni ai posti chiave della nuova amministrazione, attualmente in corso presso il Senato di Washington, denotano molte discordanze dalle prese di posizione di Trump e dei suoi. E ciò è senz’altro vero, tanto che in molti si interrogano su quale sarà la politica estera risultante da questi vettori così poco concordanti.

Ma le contraddizioni riguardano principalmente i rapporti con la Russia di Putin, “opportunità” per gli uni e “minaccia” per gli altri, o il futuro della Nato, “superata” per gli uni e “vitale” per gli altri, più che l’integrazione europea.

Potrebbe essere indicativo in proposito un documento sulla politica da seguire in materia di sicurezza europea, appena pubblicato dalla storica fondazione dei conservatori americani, la Heritage Foundation. In esso, se da una parte si insiste sui rischi che ancora presenta l’orso russo per gli Stati Uniti e sulla connessa necessità di un’alleanza con l’Europa, dall’altra si plaude all’uscita della Gran Bretagna dalle istituzioni europee e si sollecita “un ripensamento dello sconsiderato sostegno all’Ue sovranazionale” finora praticato(2).

Ora, la carovana dell’Ue accerchiata da molteplici tribù ostili non mette i carri in circolo come si faceva nei film western. Al contrario, alcuni di quelli che hanno le redini in mano o di quelli che siedono sulle panche sotto i teloni bianchi mandano segnali si simpatia agli assalitori. Così l’ungherese Viktor Orbàn punta ad essere il primo leader europeo ricevuto dal neo presidente e Marine Le Pen contempla un “nuovo mondo” guidato dal trio formato da Trump, Putin e sé stessa.

E se il leader polacco Jaroslaw Kaczyński vede con preoccupazione le simpatie per Mosca crescere a Washington, è pur vero che le sue preferenze quanto a stile di governo lo avvicinano a chi guida le due grandi potenze da cui dipende la sicurezza del suo paese. Simpatie che da noi sono apertamente condivise da un Salvini e più ambiguamente da esponenti della destra o di quel movimento composito (per usare un eufemismo) che è Cinque Stelle.

Tutto ciò aiuta a capire come la battaglia politica attualmente in corso in Europa fra (veri) democratici e populisti coincida di fatto con quella fra chi vuole salvaguardare e sviluppare ciò che si è realizzato in fatto di integrazione europea e chi vuole il ritorno alle sovranità nazionali, identitarie, protezionistiche e nostalgiche di grandezze passate talvolta poco chiare.

(1) “Brietbart’s Man in Rome”, The New York Times, Jan 10, 2017. (2) “Recommitting the Unites States to European Security and Prosperity”, The Heritage Foundation, Issue Brief #4646, Jan 12, 2017.

Cesare Merlini è Presidente del Comitato dei Garanti dello IAI.

mercoledì 25 gennaio 2017

Energia: le nuove prospettive

Energia
Il futuro del carbone nell’era Trump
Enrico Mariutti
13/01/2017
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A lungo il carbone ha svolto un ruolo preminente nel comparto elettrico statunitense. Abbondante ed economico, ha rappresentato per decenni un’opzione ideale tanto sotto il profilo economico quanto sotto quello strategico, soddisfacendo, attraverso l’ampia disponibilità nazionale, un’ampia fetta del fabbisogno energetico Usa e fornendo una preziosa integrazione alle crescenti importazioni di greggio e gas naturale dal Medio Oriente e dall‘America centro-settentrionale.

Nell’ultimo decennio però tanto il comparto minerario quanto quello della trasformazione elettrica hanno patito crescenti difficoltà che, con l’introduzione della nuova normativa Epa (Enviromental Protection Agency) in materia di emissioni, si sono trasformate in una crisi generalizzata.

Crollo della domanda di carbone
Nel corso di un decennio (2006-2015) la potenza installata a carbone negli Usa è diminuita di circa il 10% mentre la produzione di energia elettrica da carbone ha subito un tracollo di oltre il 30%. Il mercato spot, per la sua stessa natura piuttosto limitata (il carbone è la materia prima di autoproduzione per eccellenza) non è stato in grado di assorbire il surplus dell’industria mineraria statunitense, causando violenti contraccolpi nel segmento estrattivo.

Tra il 2005 e il 2016 la produzione di carbone negli Usa è declinata di circa il 20%, passando da 1,1 miliardi di tonnellate all’anno a circa 900 milioni. La regione degli Appalachi, storico bacino carbonifero degli Stati orientali, è stata quella che ha subito maggiormente l’impatto della crisi, ma anche gli impianti a cielo aperto nella regione interna e in quella occidentale, tradizionalmente più competitivi, hanno risentito del crollo della domanda.

Nonostante il drastico ridimensionamento industriale, le ricadute occupazionali sono state piuttosto limitate. Nei passati decenni il settore ha infatti sperimentato una forte spinta all’automazione dei processi industriali che si è tradotta, tanto nel segmento minerario che, in misura minore, in quello della trasformazione elettrica, in una marcata diminuzione della labor intensity.

Di conseguenza, nonostante l’impatto relativo sia stato consistente, stimabile in circa il 20% degli addetti del settore, in termini assoluti il fenomeno è stato modesto, tra le 20 e le 25mila unità, e circoscritto a pochi Stati. Le radici di questa crisi sono complesse e frutto tanto di dinamiche di lungo periodo quanto di recenti e improvvise singolarità.

L’impatto della shale revolution
La shale revolution è stata certamente il fattore più rilevante quantomeno nel determinare l’acutizzazione del fenomeno. Lo sviluppo di nuove tecniche estrattive ha sbloccato l’accesso a depositi non convenzionali di gas naturale, inondando il mercato Usa di shale gas (gas proveniente da giacimenti argillosi profondi) e in misura minore di tight gas (gas proveniente da depositi di roccia arenaria compatta).

Il crescente afflusso di gas naturale nel mercato statunitense ha prodotto un violento ribasso delle quotazioni di riferimento presso l’Henry Hub (pricing point per il mercato spot e quello futures nordamericano), passate nel giro di pochi anni da 8 USD/mmbtu a 3, innescando una riorganizzazione complessiva della powergrid americana.

D’altronde, il crollo delle quotazioni del gas naturale non riesce a spiegare da solo la crisi dell’industria del carbone. Nonostante il trend ribassista, difatti, le quotazioni del gas sul mercato dell’elettricità rimangono mediamente superiori a quelle del carbone di oltre il 30%.

Pur potendo contare su una materia prima più economica, le centrali coal-fired patiscono una minore efficienza termica e una maggiore intensità di capitale, tanto nella fase di costruzione dell’impianto quanto nel corso della sua vita operativa.

Il recente sviluppo tecnologico ha ampliato questo divario, mettendo a disposizione del segmento della trasformazione elettrica del gas, centrali a ciclo combinato di nuova generazione, ancor più efficienti e con costi ancor più ridotti, amplificando l’impatto della shale revolution e attirando massicci flussi di investimenti tanto sul comparto estrattivo quando su quello della trasformazione elettrica del gas naturale.

Carbone, serve una ricetta per ripensare il settore
Per riuscire a rimanere competitiva nel lungo periodo, l’industria del carbone necessiterebbe di notevoli investimenti. Modernizzare le centrali, che mediamente hanno più di 40 anni, garantire un orizzonte di medio/lungo periodo alla ricerca scientifica e tecnologica sui processi di trasformazione e di carbon capture and storage, rendere più efficiente la rete di trasporto e trasmissione sono solo alcune delle priorità strategiche per un settore industriale che se vuole sopravvivere deve ripensare il proprio modello di business e ristrutturare il proprio tessuto produttivo.

D’altronde, gli investimenti nell’industria del carbone languono, gran parte delle compagnie elettriche ha un portafoglio energetico diversificato e in questo momento preferisce investire nel segmento del gas naturale che offre maggiori garanzie e prospettive.

Abbassando, seppur modestamente, la soglia massima di emissioni, la nuova normativa Epa non ha fatto altro che accelerare la chiusura di impianti dalle scarse prospettive, in gran parte risalenti agli anni ’50 e ’60. Ed è difficile pensare che il Presidente eletto Donald Trump potrà risollevare le sorti del settore senza riunire tutti i principali attori attorno a un tavolo, ma solo cancellando quanto fatto in materia ambientale dall’amministrazione precedente.

Enrico Mariutti, laureato in storia antica presso la Sapienza, ha conseguito un Master di II livello in Geopolitica e Sicurezza Globale; attualmente collabora con l’Istituto Alti Studi di Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

lunedì 16 gennaio 2017

L'America ed i suoi interrogativi


L’America di Trump
Aspettando Donald, il mondo col fiato sospeso
Marinella Neri Gualdesi
14/01/2017
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Un clima di nervosa attesa caratterizza la politica internazionale mentre si avvicina l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il 20 gennaio prossimo.

Tutti aspettano che il nuovo presidente dia le carte, così da scoprire anche le proprie. Si assiste a una sostanziale paralisi dei principali attori nazionali e delle istituzioni multilaterali, favorita anche dal cambiamento al vertice delle Nazioni Unite, dall’incertezza che aleggia sulla direzione che assumerà la separazione tra Regno Unito e Unione europea, Ue, e soprattutto dall’imminenza di un lungo ciclo elettorale europeo (comincia l’Olanda, seguono Francia e Germania; e pure l’Italia potrebbe aggiungersi alla lista).

Putin, che pure si è mosso spregiudicatamente in Medio Oriente per tutelare i propri interessi strategici, sembra in attesa di passare all’incasso delle aperture e delle dichiarazioni di stima che il presidente eletto gli ha già anticipato.

Dopo le forti polemiche innescate dalla telefonata di Trump con la presidentessa di Taiwan, Pechino ha adottato una linea di wait and see. Nei confronti della Cina, accusata di “concorrenza sleale”, Trump ha minacciato di imporre pesanti dazi. Lo scontro con il capitalismo autoritario cinese, che detiene gran parte del debito pubblico americano, presenta peraltro molti rischi sia per Washington sia per Pechino.

Politica estera a suon di tweet
Analisti e think tank sono impegnati soprattutto a giudicare l’eredità di Barack Obama e a valutare successi e insuccessi della sua presidenza, nonostante sia abbastanza evidente che con Trump la politica estera degli Stati Uniti imboccherà la strada di profondi cambiamenti.

Su questi cambiamenti, sul rischio di una regressione sistemica degli assetti internazionali costruiti dal secondo dopoguerra in avanti, aleggia un clima di grande incertezza. Per il momento, del resto, da Trump sono arrivati solo slogan e tweet.

La questione principale riguarda la volontà degli Stati Uniti di continuare a svolgere il ruolo che hanno esercitato, dal 1945 in avanti, nel sistema internazionale, sostenendo i valori liberali e il libero commercio, e in Europa come garante esterno della sua sicurezza.

Mantenere le alleanze e coltivare la cooperazione internazionale non sembrano in cima alle priorità del 45esimo presidente americano. Tutto lascia prevedere che si muoverà in modo opportunistico, senza una coerente strategia a guidare le scelte.

Il suo inner circle e le persone che ricopriranno gli incarichi di governo più rilevanti, spesso prive di ogni esperienza politica, rappresentano un forte segnale di discontinuità non solo con principi e politiche dell’amministrazione uscente ma con le pratiche che hanno guidato in passato gli Stati Uniti nel loro ruolo internazionale.

America first!
Trump non sarà isolazionista; più probabile che prosegua il disimpegno attuato già da Obama per concentrarsi sui temi su cui ha imperniato l’agenda elettorale: restituire fiducia alla classe media americana, creare posti di lavoro, abbassare l’imposizione fiscale, ricostruire le infrastrutture del Paese.

In campo internazionale, l’America sarà sempre più attenta a valutare dove i suoi interessi sono in gioco per muoversi in modo molto selettivo. Americanism, and not globalism, will be our credo è la frase di Trump che meglio racchiude la sua visione. Anche se la sua indole volubile fa ritenere possibile un alto tasso di imprevedibilità nelle scelte che concretamente assumerà, il credo antiglobalizzazione è ciò a cui rimarrà probabilmente più fedele. Con la conseguenza di politiche di protezionismo economico e il rifiuto dei trattati commerciali multilaterali.

Trump non pensa che gli Stati Uniti debbano avere relazioni speciali con alcuni Paesi in quanto democrazie, che giudica intrinsecamente deboli. Si annuncia come un presidente transactional, che cerca accordi bilaterali anche con leader autoritari, se vantaggiosi per gli interessi statunitensi.

Silenzio Ue e ruolo dell’Italia
A un approccio statunitense imperniato sul principio America First, un editoriale di Le Monde ha invitato l’Ue a rispondere con Europe First. Una prospettiva che appare alquanto illusoria.

Di fronte alla svolta nella politica americana rappresentata da Trump colpisce il silenzio di un’Europa smarrita e ripiegata su se stessa. L’Ue appare senza meta e incapace di costruire un approccio comune alle crisi internazionali. L’egemonia tedesca non può essere l’unico potere sovranazionale europeo.

L’Unione deve dimostrare di saper esprimere una leadership collettiva, quel modello di sovranità condivisa che rappresenta la “nuova Europa” costruita sulle macerie delle distruzioni provocate dai nazionalismi europei (pronti a tornare in auge, e probabilmente a ripetere gli stessi drammatici errori).

L’Italia si trova ad avere un’importante responsabilità: fare del sessantesimo anniversario della firma dei trattati comunitari, il prossimo marzo, non una mera celebrazione, ma l’occasione per aprire una nuova pagina nel percorso di integrazione europea. Tre i capitoli con cui scriverla: usare l’integrazione economica per promuovere la crescita e il lavoro per i giovani; rafforzare la dimensione della difesa comune e della sicurezza; varare una politica comune in materia di immigrazione.

Se davvero la solidarietà statunitense verso gli alleati e il rilievo della Nato dovessero diminuire, la spinta per l’Europa della difesa diventerebbe più forte. Tensioni con Washington sono probabili soprattutto se il futuro presidente americano insisterà sull’aumento delle spese militari da parte dei Paesi europei.

Il tema del burden-sharing non è nuovo nel dibattito transatlantico. Il Vecchio continente deve in ogni caso ripensare il proprio ruolo nella Nato, costruendo il pilastro europeo dell’Alleanza. Europa della difesa e collaborazione Nato-Ue non sono due obiettivi in contrapposizione. Un impegno che richiede, però, più investimenti e più volontà politica.

I presidenti che hanno preceduto Trump hanno considerato la prosperità e la sicurezza dell’Europa interessi essenziali per gli Stati Uniti. Ora che questo obiettivo sembra essere rimesso in discussione, è responsabilità anche dell’Europa essere all’altezza delle sfide che ha davanti.

Il mondo post-guerra fredda, in cui liberismo e democrazia sembravano non avere più rivali, è però finito. L’ordine multilaterale occidentale può ricevere un colpo mortale se è contestato non solo da attori esterni, ma dal suo stesso artefice principale e perno del sistema.

Da cosa sarà sostituito? È il grande interrogativo con cui si apre l’era Trump.

Marinella Neri Gualdesi è professore di Storia delle Relazioni internazionali all'Università di Pisa.

Kiev e Mosca: frontiere marittime in discussione

Crisi ucraina 
Mari di Crimea: Ucraina vs Russia
Fabio Caffio
11/01/2017
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Kiev prova a sfidare Mosca avanti un tribunale arbitrale per reclamare, sulle acque della Crimea, i diritti esercitati prima dell’annessione della penisola.

Nonostante le previsioni che davano la Russia assente dal procedimento (indotte dallo svolgimento della disputa marittima Cina-Filippine), il tribunale è stato regolarmente costituito d’accordo con Mosca che ha designato come proprio giudice Vladimir Golitsyn, presidente del Tribunale internazionale del diritto del mare.

La contesa si svolgerà quindi ad armi pari, ma il terreno dello scontro - ove contenziosi territoriali condizionano quelli marittimi - è insidioso per la Russia. Le tesi ucraine potrebbero anche agevolare l’attività navale Nato in Mar Nero.

Bottino russo
Spazi marittimi russo-ucraini; quelli susseguenti all’annessione sono ipotetici (Fonte: NY Times 7.5.14).

Il 17 marzo 2014 il Consiglio supremo della Repubblica autonoma di Crimea adottò una risoluzione sull’indipendenza dello Stato (approvata con referendum popolare) cui seguì un trattato con la Russia sull’annessione alla Federazione. Apparve così chiaro che Mosca si era nuovamente guadagnata l’affaccio al Mar Nero conseguito da Pietro il Grande a fine Seicento.

Oltre alla base navale di Sebastopoli, la Russia otteneva un esteso litorale ed una zona economica esclusiva (Zee) ricca di risorse ittiche e di giacimenti di gas scoperti a sud della Crimea.

Essa acquisiva anche il controllo dello Stretto di Kerch attraverso cui si accede al Mare di Azov, divenuto ancor più un lago interno dopo che l’Ucraina era stata costretta ad arroccarsi a settentrione nella regione di Mariupol.

Rivendicazioni ucraine
Kiev è intenzionata a contestare, sulla base della Convenzione del diritto del mare, le violazioni russe ai propri diritti sulla Zee della Crimea (inclusa la posa di gasdotti) ed alla libertà di navigazione nello Stretto di Kerch e nel Mare di Azov; nonché il progetto russo di costruire un ponte sullo Stretto avviato senza il suo consenso.

È possibile che l’Ucraina chieda al Tribunale arbitrale, oltre a varie garanzie e risarcimenti, misure provvisorie come il fermo di tale opera o il riconoscimento di un corridoio internazionale che colleghi le sue coste al Mar Nero lungo lo Stretto ed il Mare di Azov.

Al centro del contenzioso ci sarà comunque lo status di tale mare che gli Zar e l’Unione Sovietica hanno sempre considerato acque interne possedute in via esclusiva per secolare dominio. Difficilmente l’Ucraina potrà contestare un tale regime accettato e condiviso con la Russia dopo il 1991, anche perché esso verte su materia (titoli storici), esclusa dalla competenza del Tribunale arbitrale secondo la dichiarazione fatta a suo tempo dalla Federazione Russa. Ma, come detto, l’Ucraina farà in modo che le sia garantita libertà di navigazione.

Mosse e contromosse
L’iniziativa dell’Ucraina riporta sulla scena internazionale l’annessione della Crimea: illegittima alla luce della Risoluzione 68/262 dell’Assemblea Generale delle NU sul mantenimento dello status quo, e pregiudiziale al riconoscimento dei diritti marittimi dell’Ucraina.

Il tribunale arbitrale non dovrebbe pronunciarsi sulla validità dell’annessione, essendo materia sottratta alla sua competenza, come da giurisprudenza dello stesso tribunale in precedenti controversie. Una scappatoia potrebbe essere rappresentata dalla possibilità che il tribunale argomenti come se i diritti ucraini sulla preesistente Zee non siano mai venuti meno.

La Russia, partecipando all’arbitrato, potrà rigettare la tesi dell’usurpazione delle risorse marine ucraine, esprimendo magari disponibilità ad accordare garanzie e concessioni. Ad esempio potrebbe affermare di agire nell’interesse del popolo della Crimea cui apparterrebbero i giacimenti offshore stimati in circa 1.000 miliardi di mc. di gas (le compagnie straniere interessate erano al 2013 Shell, Exxon Mobil ed Eni).

Un’eventualità teorica è che una loro quota venga riservata a Kiev, in conto di un’ipotetica Zee ucraina oltre lo Stretto di Kerch adiacente all’istituendo corridoio internazionale di accesso alle sue coste (1). Ma occorre anche tener presente che la Russia potrebbe denunciare la competenza del tribunale ad occuparsi della questione. Tra l’altro, secondo la dichiarazione effettuata al momento della ratifica della Convenzione sul diritto del mare, sono sottratte alla competenza del tribunale le controversie in materia di delimitazione della Zee con stati adiacenti e frontisti.

L’illecito del tracciato del gasdotto del Mar Nero, effettuato senza il consenso ucraino, non è stato, a quanto sembra, portato a compimento: South Stream sarebbe dovuto stare nella Zee ucraina, ma il progetto è stato abbandonato in favore del Turkish Stream da posare nella Zee turca.

Progetti gasdotti Mar Nero (Fonte RUSI). 

Centralità strategica Mar Nero 
Sullo sfondo della controversia s’intravede l’eterna questione del Mar Nero e delle limitazioni alla presenza numerica e temporale di Unità navali appartenenti a Paesi non rivieraschi, imposte dalla Convenzione di Montreux del 1936 sul regime degli Stretti.

È difficile che il Mar di Azov venga considerato dal tribunale arbitrale, a supporre che ne abbia la competenza, come un normale spazio marittimo con acque territoriali e acque internazionali in cui possano svolgersi attività militari straniere.

È tuttavia ipotizzabile che la Nato, su invito dell’Ucraina, voglia mostrare la bandiera all’interno del mare di Azov nelle acque di pertinenza di Kiev, nonché, in Mar Nero, nella Zee della Crimea ove potrebbero eseguirsi manovre, anche contro la volontà della Russia ma nel rispetto della Convenzione di Montreux.

(1) Una simile Zee è stata istituita dalla Slovenia oltre il Golfo di Trieste in previsione della creazione di un corridoio di acque internazionali con la baia di Pirano.

Fabio Caffio è Ufficiale della Marina militare in congedo, esperto in diritto marittimo.
 
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Russia, partner e minaccia della Nato, Alessandro Marrone

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