COP21 e banche centrali Il global warming che gela il mondo finanziario Marco Magnani, Gilda Giordani 30/11/2015 |
Jackson Hole, Francoforte, Washington, New York sono le città più frequentate dai banchieri centrali. Kyoto, Montreal, Copenaghen, Doha le sedi di alcune tra le più importanti conferenze sull’ambiente negli ultimi 20 anni. Circuiti diversi, storicamente lontani. Parigi potrebbe essere il punto d’incontro e porre il climate change sull’agenda delle Banche Centrali.
Parigi può superare i limiti di Kyoto
La capitale francese accoglie infatti in questi giorni i rappresentanti di 196 paesi per la COP21, il summit dell’Onu sul cambiamento climatico. Le aspettative sono elevate, nonostante i precedenti. La prima Conference of Parties, a Berlino nel 1995, fu un fallimento; l’ultima, lo scorso anno a Lima, si concluse con un nulla di fatto.
La conferenza più nota rimane Kyoto, grazie al protocollo firmato nel dicembre 1997 da oltre 180 paesi ed entrato in vigore nel 2005 con la ratifica di firmatari che superavano in aggregato il 55% delle emissioni mondiali di gas serra.
Molti, tuttavia, i limiti di quell’accordo. Cina e India furono esonerate dagli obblighi del trattato e gli Stati Uniti, che rappresentavano oltre 1/3 delle emissioni globali, non lo ratificarono.
Parigi potrebbe mettere d’accordo paesi industrializzati ed emergenti. L'intesa nel settembre scorso tra Barack Obama e Xi Jinping sulla lotta al riscaldamento globale è di buon auspicio. Così come il recente impegno pubblico di 79 multinazionali a ridurre emissioni inquinanti e consumi energetici. Negli ultimi anni sono cresciuti senso d’urgenza e consapevolezza sul tema. Anche da parte dei banchieri centrali.
Lo conferma il recente discorso che il governatore della Bank of England ha tenuto a una cena dei Lloyd’s a Londra rilevando i costi, presenti e futuri, causati dal climate change. Pur parlando di global warming, Mark Carney ha “gelato” assicuratori e banchieri in sala. Dal 1980 gli eventi climatici causa di forti danni sono triplicati e le perdite delle assicurazioni, al netto dell'inflazione, sono quintuplicate, arrivando a 50 miliardi di dollari l'anno.
Le conseguenze vanno ben oltre il settore assicurativo e riguardano la minaccia del cambiamento climatico per la stabilità finanziaria globale, tema prioritario per le Banche Centrali. Tre sono i rischi.
Quello “fisico”, relativo ai rimborsi assicurativi dei danni causati da inondazioni e tempeste, specie in agricoltura e commercio. Il liability risk, legato alla possibile futura richiesta di risarcimenti delle parti danneggiate nei confronti dei presunti responsabili, innanzitutto i settori estrattivo e petrolifero. Infine il rischio di transizione, cioè i costi di aggiustamento dell’economia verso un modello più sostenibile. Tre fattori che possono scardinare equilibri economici consolidati e creare forte instabilità nei mercati finanziari.
Instabilità del quadro macroeconomico e costi dell’aggiustamento
Il tema dell’aggiustamento economico in relazione al cambiamento climatico è centrale. In assenza di accordi e scelte condivise di crescita sostenibile, il rischio è che i cambiamenti climatici aumentino fortemente l’instabilità del quadro macroeconomico. Un tasso di crescita che fluttua significativamente di anno in anno in modo poco prevedibile metterebbe le Banche Centrali in una difficile posizione.
Se invece l’aggiustamento sarà programmato con un certo grado di cooperazione tra i paesi, la transizione potrebbe essere più graduale nel tempo, più prevedibile e probabilmente creare nuove opportunità di crescita e occupazione grazie allo sviluppo di nuove tecnologie e fonti rinnovabili di energia. Anche in questo caso tuttavia, come sempre quando si cambiano le strutture produttive di un sistema economico, vi sarebbe un certo grado d’instabilità.
Volatilità dei prezzi agricoli e sfide per la politica monetaria
Un settore particolarmente sensibile al clima è quello agricolo. L’aumento di frequenza d’improvvise siccità, inondazioni e gelate può esacerbare la tendenza degli ultimi anni alla crescente volatilità dei prezzi. Inoltre, nel lungo periodo le variazioni di precipitazioni e temperature medie influenzano produttività e distribuzione geografica delle colture.
Peraltro, l’aumento di CO2 e delle temperature favorisce lo sviluppo e la diffusione di nuovi parassiti e patogeni, cui si attribuisce circa il 30% della perdita di produzione agricola. Anche il settore zootecnico è influenzato negativamente.
La volatilità aumenta le difficoltà di adottare un’adeguata politica monetaria e di prevederne l’impatto sull’economia. Inoltre, il rincaro dei prodotti agricoli può influenzare in modo rilevante il costo della vita nei paesi in via di sviluppo, dove la quota di reddito destinata ai consumi alimentari è elevata.
Prezzi dell’energia e inflazione: il difficile ruolo delle Banche Centrali
Altro fronte sensibile è l’energia. Il raggiungimento di un accordo internazionale per rallentare il riscaldamento del clima comporterebbe infatti un aumento dei prezzi dei combustibili fossili. Ciò può interferire direttamente con l’obiettivo principale delle Banche Centrali: la stabilità dei prezzi. È ancora vivo il ricordo degli anni ’70, quando due crisi petrolifere causarono un forte aumento dell’inflazione nelle economie avanzate.
Oggi in realtà molte di queste economie hanno una struttura diversa, meno dipendente da combustibili fossili. Anche per questo tra 1999 e 2000 il forte aumento del prezzo del greggio - quasi raddoppiato - ha prodotto un incremento d’inflazione solo marginale.
In ogni caso, il ruolo delle Banche Centrali sarebbe complesso. Da una parte non dovrebbero contrastare l’aumento dei costi dell’energia, al fine di non compromettere politiche climatiche volte a rendere l’economia più sostenibile. Dall’altra non potrebbero abbassare la guardia sul livello generale dei prezzi. L’aumento dei costi energetici potrebbe infatti generare tensioni salariali volte a mantenere inalterato il potere di acquisto, innescando una spirale inflazionistica.
La scelta condivisa di puntare a un’economia più verde può consentire di gestire meglio la tempistica dell’aggiustamento, minimizzando il grado d’incertezza e volatilità e aprendo nuove strade di crescita. Tuttavia, la transizione non sarebbe priva di difficoltà e le decisioni di politica monetaria rimarrebbero in ogni caso molto intricate. Se anche Parigi facilitasse un accordo per rallentare il global warming, la temperatura nelle Banche Centrali resterebbe alta.
Marco Magnani è docente di Monetary and Financial Economics alla LUISS e non-resident fellow dello IAI. Come Senior Research Fellow a Harvard Kennedy School ha pubblicato Sette Anni di Vacche Sobrie con UTET e Creating Economic Growth con PalgraveMamillan (www.magnanimarco.com; twitter @marcomagnan1).
Gilda Giordani è laureanda del corso magistrale in inglese di International Relations di Scienze Politiche alla LUISS e ha un forte interesse in temi energetici e di cambiamento climatico.
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La capitale francese accoglie infatti in questi giorni i rappresentanti di 196 paesi per la COP21, il summit dell’Onu sul cambiamento climatico. Le aspettative sono elevate, nonostante i precedenti. La prima Conference of Parties, a Berlino nel 1995, fu un fallimento; l’ultima, lo scorso anno a Lima, si concluse con un nulla di fatto.
La conferenza più nota rimane Kyoto, grazie al protocollo firmato nel dicembre 1997 da oltre 180 paesi ed entrato in vigore nel 2005 con la ratifica di firmatari che superavano in aggregato il 55% delle emissioni mondiali di gas serra.
Molti, tuttavia, i limiti di quell’accordo. Cina e India furono esonerate dagli obblighi del trattato e gli Stati Uniti, che rappresentavano oltre 1/3 delle emissioni globali, non lo ratificarono.
Parigi potrebbe mettere d’accordo paesi industrializzati ed emergenti. L'intesa nel settembre scorso tra Barack Obama e Xi Jinping sulla lotta al riscaldamento globale è di buon auspicio. Così come il recente impegno pubblico di 79 multinazionali a ridurre emissioni inquinanti e consumi energetici. Negli ultimi anni sono cresciuti senso d’urgenza e consapevolezza sul tema. Anche da parte dei banchieri centrali.
Lo conferma il recente discorso che il governatore della Bank of England ha tenuto a una cena dei Lloyd’s a Londra rilevando i costi, presenti e futuri, causati dal climate change. Pur parlando di global warming, Mark Carney ha “gelato” assicuratori e banchieri in sala. Dal 1980 gli eventi climatici causa di forti danni sono triplicati e le perdite delle assicurazioni, al netto dell'inflazione, sono quintuplicate, arrivando a 50 miliardi di dollari l'anno.
Le conseguenze vanno ben oltre il settore assicurativo e riguardano la minaccia del cambiamento climatico per la stabilità finanziaria globale, tema prioritario per le Banche Centrali. Tre sono i rischi.
Quello “fisico”, relativo ai rimborsi assicurativi dei danni causati da inondazioni e tempeste, specie in agricoltura e commercio. Il liability risk, legato alla possibile futura richiesta di risarcimenti delle parti danneggiate nei confronti dei presunti responsabili, innanzitutto i settori estrattivo e petrolifero. Infine il rischio di transizione, cioè i costi di aggiustamento dell’economia verso un modello più sostenibile. Tre fattori che possono scardinare equilibri economici consolidati e creare forte instabilità nei mercati finanziari.
Instabilità del quadro macroeconomico e costi dell’aggiustamento
Il tema dell’aggiustamento economico in relazione al cambiamento climatico è centrale. In assenza di accordi e scelte condivise di crescita sostenibile, il rischio è che i cambiamenti climatici aumentino fortemente l’instabilità del quadro macroeconomico. Un tasso di crescita che fluttua significativamente di anno in anno in modo poco prevedibile metterebbe le Banche Centrali in una difficile posizione.
Se invece l’aggiustamento sarà programmato con un certo grado di cooperazione tra i paesi, la transizione potrebbe essere più graduale nel tempo, più prevedibile e probabilmente creare nuove opportunità di crescita e occupazione grazie allo sviluppo di nuove tecnologie e fonti rinnovabili di energia. Anche in questo caso tuttavia, come sempre quando si cambiano le strutture produttive di un sistema economico, vi sarebbe un certo grado d’instabilità.
Volatilità dei prezzi agricoli e sfide per la politica monetaria
Un settore particolarmente sensibile al clima è quello agricolo. L’aumento di frequenza d’improvvise siccità, inondazioni e gelate può esacerbare la tendenza degli ultimi anni alla crescente volatilità dei prezzi. Inoltre, nel lungo periodo le variazioni di precipitazioni e temperature medie influenzano produttività e distribuzione geografica delle colture.
Peraltro, l’aumento di CO2 e delle temperature favorisce lo sviluppo e la diffusione di nuovi parassiti e patogeni, cui si attribuisce circa il 30% della perdita di produzione agricola. Anche il settore zootecnico è influenzato negativamente.
La volatilità aumenta le difficoltà di adottare un’adeguata politica monetaria e di prevederne l’impatto sull’economia. Inoltre, il rincaro dei prodotti agricoli può influenzare in modo rilevante il costo della vita nei paesi in via di sviluppo, dove la quota di reddito destinata ai consumi alimentari è elevata.
Prezzi dell’energia e inflazione: il difficile ruolo delle Banche Centrali
Altro fronte sensibile è l’energia. Il raggiungimento di un accordo internazionale per rallentare il riscaldamento del clima comporterebbe infatti un aumento dei prezzi dei combustibili fossili. Ciò può interferire direttamente con l’obiettivo principale delle Banche Centrali: la stabilità dei prezzi. È ancora vivo il ricordo degli anni ’70, quando due crisi petrolifere causarono un forte aumento dell’inflazione nelle economie avanzate.
Oggi in realtà molte di queste economie hanno una struttura diversa, meno dipendente da combustibili fossili. Anche per questo tra 1999 e 2000 il forte aumento del prezzo del greggio - quasi raddoppiato - ha prodotto un incremento d’inflazione solo marginale.
In ogni caso, il ruolo delle Banche Centrali sarebbe complesso. Da una parte non dovrebbero contrastare l’aumento dei costi dell’energia, al fine di non compromettere politiche climatiche volte a rendere l’economia più sostenibile. Dall’altra non potrebbero abbassare la guardia sul livello generale dei prezzi. L’aumento dei costi energetici potrebbe infatti generare tensioni salariali volte a mantenere inalterato il potere di acquisto, innescando una spirale inflazionistica.
La scelta condivisa di puntare a un’economia più verde può consentire di gestire meglio la tempistica dell’aggiustamento, minimizzando il grado d’incertezza e volatilità e aprendo nuove strade di crescita. Tuttavia, la transizione non sarebbe priva di difficoltà e le decisioni di politica monetaria rimarrebbero in ogni caso molto intricate. Se anche Parigi facilitasse un accordo per rallentare il global warming, la temperatura nelle Banche Centrali resterebbe alta.
Marco Magnani è docente di Monetary and Financial Economics alla LUISS e non-resident fellow dello IAI. Come Senior Research Fellow a Harvard Kennedy School ha pubblicato Sette Anni di Vacche Sobrie con UTET e Creating Economic Growth con PalgraveMamillan (www.magnanimarco.com; twitter @marcomagnan1).
Gilda Giordani è laureanda del corso magistrale in inglese di International Relations di Scienze Politiche alla LUISS e ha un forte interesse in temi energetici e di cambiamento climatico.
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