Economia Investimenti europei a sostegno della crescita Alberto Majocchi 18/11/2015 |
L’eurozona sta uscendo dalla recessione, ma a un ritmo ancora debole e incapace di generare l’aumento dei posti di lavoro necessario per ridurre il livello di disoccupazione.
Questo almeno quello che ci dicono i dati del Fondo Monetario Internazionale, Fmi, che prevedono per il 2015 e il 2016 un tasso di sviluppo nell’eurozona rispettivamente dell’1,5% e dell’1,6%. Un tasso che è ancora largamente inferiore a quello di crescita dell’economia statunitense, che viene stimato pari al 3,1% e al 3,6% nei due anni considerati.
Gli investimenti della Bei
In verità, la Commissione europea si è resa conto che occorre stimolare la domanda per accompagnare la manovra di espansione monetaria promossa da Mario Draghi. Ha quindi elaborato un piano per promuovere un flusso di 315 miliardi di investimenti in tre anni grazie all’intervento della Banca Europea degli Investimenti, Bei, garantiti da 16 miliardi messi a disposizione dal bilancio europeo e da 5 miliardi concessi dalla Bei.
Si tratta di una svolta importante, soprattutto in relazione al riconoscimento del fatto che, in presenza di un processo di sdebitamento generalizzato nel settore pubblico e privato (deleveraging), un sostegno della domanda aggregata è indispensabile, anche per sostenere gli effetti espansivi del Quantitative Easing. Un passo in avanti, ma ancora insufficiente.
In realtà l’Europa si trova di fronte a una serie di problemi, che si intrecciano e che richiedono misure incisive per essere affrontati e risolti. In primo luogo c’è un problema di debolezza della domanda effettiva, a seguito delle manovre di consolidamento fiscale; ma c’è anche, al contempo, un accentuarsi del divario fra i paesi della core Europe e i paesi periferici.
Vi è infine un problema strutturale legato da un lato alla globalizzazione che ha favorito la delocalizzazione dei processi produttivi nei settori più maturi e, d’altro lato, agli sviluppi tecnologici che rendono più concreta la prospettiva di una ripresa economica non accompagnata da una crescita dell’occupazione (jobless recovery).
A fronte di queste difficoltà il piano Juncker, rivolgendosi a tutti i paesi dell’Unione e al fine di essere avviato in tempi brevi per sostenere l’uscita dalla crisi, non prevede un aumento delle dimensioni del bilancio europeo, ma si limita a fornire una garanzia affinché la Bei possa finanziare anche investimenti caratterizzati da un maggior grado di rischio.
Rischio jobless recovery
Tutto questo non basta più. Occorre puntare su una dose massiccia di investimenti, non soltanto per completare le reti infrastrutturali (energia, trasporti, banda larga), ma anche per promuovere l’innovazione, la ricerca e sviluppo, l’istruzione superiore al fine di aumentare la produttività e, quindi, la competitività delle imprese europee.
E si tratta al contempo di fare in modo che vengano superate le asimmetrie fra i paesi del nord e del sud, determinate dal fatto che la Germania, dopo il varo della moneta unica, è entrata in un circolo virtuoso di investimenti.
Se da una parte questi hanno favorito la produttività e, quindi, la crescita delle esportazioni; dall’altra la crescita del costo del lavoro per unità di prodotto ha subito una frenata. Tutto questo ha impedito un riequilibrio a medio termine della bilancia commerciale dei paesi del sud, obbligati di conseguenza a pesanti manovre deflative, che hanno reso sempre più ampio il divario all’interno dell’eurozona.
D’altra parte, anche il rischio di una jobless recovery deve essere affrontato attraverso misure di sviluppo sostenibile destinate a promuovere non soltanto la tutela dell’ambiente, ma anche la soluzione dei problemi sociali connessi alla crescita della disoccupazione, determinata non soltanto dalla crisi, ma anche dallo sviluppo tecnologico.
Cambiamento strutturale dell’economia europea
Tutto questo richiede che, al di là del piano Juncker, nuove risorse vengano destinate al bilancio europeo per sostenere gli investimenti e la produzione di beni pubblici necessari per affrontare la sfida di una crescita sostenibile, garantendo il finanziamento di un fondo all’interno del bilancio dell’Unione che sia in grado di promuovere un cambiamento strutturale dell’economia europea.
Per raggiungere questo obiettivo è necessario che un gruppo di paesi all’interno dell’Unione, a partire dai Paesi che fanno già parte dell’eurozona o intendano aderirvi in futuro, si doti, oltre che di una moneta comune, di un bilancio alimentato da vere e proprie entrate fiscali, in primo luogo un’imposta sulle transazioni finanziarie e una carbon tax.
L’attribuzione di nuove risorse proprie a un bilancio destinato ai paesi dell’eurozona all’interno del bilancio dell’Unione rappresenta una sfida rilevante dal punto di vista politico e allarga notevolmente il quadro rispetto agli obiettivi limitati del piano Juncker. Questo piano è importante per ridare fiato all’economia europea e ricostituire la fiducia dei cittadini nel processo di unificazione europea, e non soltanto nell’euro.
Una volta ricostituita la fiducia occorre che la parte più sensibile delle forze politiche e sociali si mobiliti per indurre gli Stati, a partire dai paesi dell’eurozona, ma includendo gli Stati che pensano di aderirvi in futuro, dopo la cessione della sovranità monetaria, a rinunciare parzialmente anche alla sovranità fiscale, procedendo così, dopo l’Unione monetaria e l’Unione bancaria, verso un’Unione fiscale che a sua volta dovrà sfociare necessariamente in un’Unione politica.
Alberto Majocchi è Professore di Scienza delle Finanze nell’Università di Pavia e Vice-Presidente del Centro Studi sul Federalismo di Torino.
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Gli investimenti della Bei
In verità, la Commissione europea si è resa conto che occorre stimolare la domanda per accompagnare la manovra di espansione monetaria promossa da Mario Draghi. Ha quindi elaborato un piano per promuovere un flusso di 315 miliardi di investimenti in tre anni grazie all’intervento della Banca Europea degli Investimenti, Bei, garantiti da 16 miliardi messi a disposizione dal bilancio europeo e da 5 miliardi concessi dalla Bei.
Si tratta di una svolta importante, soprattutto in relazione al riconoscimento del fatto che, in presenza di un processo di sdebitamento generalizzato nel settore pubblico e privato (deleveraging), un sostegno della domanda aggregata è indispensabile, anche per sostenere gli effetti espansivi del Quantitative Easing. Un passo in avanti, ma ancora insufficiente.
In realtà l’Europa si trova di fronte a una serie di problemi, che si intrecciano e che richiedono misure incisive per essere affrontati e risolti. In primo luogo c’è un problema di debolezza della domanda effettiva, a seguito delle manovre di consolidamento fiscale; ma c’è anche, al contempo, un accentuarsi del divario fra i paesi della core Europe e i paesi periferici.
Vi è infine un problema strutturale legato da un lato alla globalizzazione che ha favorito la delocalizzazione dei processi produttivi nei settori più maturi e, d’altro lato, agli sviluppi tecnologici che rendono più concreta la prospettiva di una ripresa economica non accompagnata da una crescita dell’occupazione (jobless recovery).
A fronte di queste difficoltà il piano Juncker, rivolgendosi a tutti i paesi dell’Unione e al fine di essere avviato in tempi brevi per sostenere l’uscita dalla crisi, non prevede un aumento delle dimensioni del bilancio europeo, ma si limita a fornire una garanzia affinché la Bei possa finanziare anche investimenti caratterizzati da un maggior grado di rischio.
Rischio jobless recovery
Tutto questo non basta più. Occorre puntare su una dose massiccia di investimenti, non soltanto per completare le reti infrastrutturali (energia, trasporti, banda larga), ma anche per promuovere l’innovazione, la ricerca e sviluppo, l’istruzione superiore al fine di aumentare la produttività e, quindi, la competitività delle imprese europee.
E si tratta al contempo di fare in modo che vengano superate le asimmetrie fra i paesi del nord e del sud, determinate dal fatto che la Germania, dopo il varo della moneta unica, è entrata in un circolo virtuoso di investimenti.
Se da una parte questi hanno favorito la produttività e, quindi, la crescita delle esportazioni; dall’altra la crescita del costo del lavoro per unità di prodotto ha subito una frenata. Tutto questo ha impedito un riequilibrio a medio termine della bilancia commerciale dei paesi del sud, obbligati di conseguenza a pesanti manovre deflative, che hanno reso sempre più ampio il divario all’interno dell’eurozona.
D’altra parte, anche il rischio di una jobless recovery deve essere affrontato attraverso misure di sviluppo sostenibile destinate a promuovere non soltanto la tutela dell’ambiente, ma anche la soluzione dei problemi sociali connessi alla crescita della disoccupazione, determinata non soltanto dalla crisi, ma anche dallo sviluppo tecnologico.
Cambiamento strutturale dell’economia europea
Tutto questo richiede che, al di là del piano Juncker, nuove risorse vengano destinate al bilancio europeo per sostenere gli investimenti e la produzione di beni pubblici necessari per affrontare la sfida di una crescita sostenibile, garantendo il finanziamento di un fondo all’interno del bilancio dell’Unione che sia in grado di promuovere un cambiamento strutturale dell’economia europea.
Per raggiungere questo obiettivo è necessario che un gruppo di paesi all’interno dell’Unione, a partire dai Paesi che fanno già parte dell’eurozona o intendano aderirvi in futuro, si doti, oltre che di una moneta comune, di un bilancio alimentato da vere e proprie entrate fiscali, in primo luogo un’imposta sulle transazioni finanziarie e una carbon tax.
L’attribuzione di nuove risorse proprie a un bilancio destinato ai paesi dell’eurozona all’interno del bilancio dell’Unione rappresenta una sfida rilevante dal punto di vista politico e allarga notevolmente il quadro rispetto agli obiettivi limitati del piano Juncker. Questo piano è importante per ridare fiato all’economia europea e ricostituire la fiducia dei cittadini nel processo di unificazione europea, e non soltanto nell’euro.
Una volta ricostituita la fiducia occorre che la parte più sensibile delle forze politiche e sociali si mobiliti per indurre gli Stati, a partire dai paesi dell’eurozona, ma includendo gli Stati che pensano di aderirvi in futuro, dopo la cessione della sovranità monetaria, a rinunciare parzialmente anche alla sovranità fiscale, procedendo così, dopo l’Unione monetaria e l’Unione bancaria, verso un’Unione fiscale che a sua volta dovrà sfociare necessariamente in un’Unione politica.
Alberto Majocchi è Professore di Scienza delle Finanze nell’Università di Pavia e Vice-Presidente del Centro Studi sul Federalismo di Torino.
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