FAZIONI ETNICHE E RELIGIOSE
Valentina Trogu
La presenza di numerose fazioni etniche e religiose porta
inevitabilmente a sottolineare una corrispondenza tra conflitti e instabilità
politica. Alla base ci sono fattori di discriminazione e di intolleranza. Dove
il sistema è intollerante verso una società multi-etnica e multi-religiosa si
verificano condizioni di instabilità sociale. Gli indicatori sintomatici di
questi aspetti sono due:
·
la connotazione etnica/religiosa di una
élite in una società eterogenea
·
l’esistenza di polizie pubbliche che
agiscono in maniera discriminatoria verso alcuni gruppi.
Ove sussistono questi indicatori troviamo le situazioni di rischio
più elevate per le cosiddette minoranze presenti in un gruppo della popolazione
che, a causa della non uniformità etnica, linguistica, religiosa e culturale,
vengono sottoposte a trattamenti diseguali e differenziati da parte della
maggioranza che si reputa universale ed impone le sue norme. Dal punto di vista
sociologico, una minoranza può essere numericamente superiore ad una
maggioranza risultando ugualmente discriminata e si riscontra la presenza di
tali minoranze, tratteggiate da fattori economici, politici, storici, in tutti
i paesi del mondo. Nella socio-economia, poi, il termine minoranza fa
riferimento alla subordinazione sociale di un gruppo etnico distinto dagli
altri per la lingua, la razza, la nazionalità o la religione. Ne sono un
esempio i popoli indigeni, non solo in Africa ma anche nell’America Latina e in
Oceania. Sono stati assoggettati, rinchiusi in riserve, impiegati come mano
d’opera a basso costo e privati della loro terra e dei beni, come ad esempio i
Pigmei nel cuore dell’Africa. Chi mette in atto le discriminazioni, spesso, è
il governo oppure altri settori della società. Nel 2003, una ricerca condotta
dall’University of Maryland’s Center for International Development &
Conflict Management (CIDCM) ha individuato 31 Stati africani con minoranze
etniche/religiose a rischio di azioni discriminatorie di cui nove Stati
(Angola, Burundi, Camerun, R.D. del Congo, Nigeria, Senegal, Sudan, Uganda e
Zimbabwe) presentano la situazione di rischio più elevato.
In Angola, per esempio, ci sono circa 90 gruppi etnici. Il
principale è costituto dagli Ovimbundu, che rappresentano poco meno del 40%
della popolazione e hanno costituito la base etnica dell’Unita durante la
guerra civile. Seguono i Mbundu (25% circa della popolazione) e i Bakongo
(14%). Meno numerosi ma rilevanti dal punto di vista dell’influenza economica e
politica sono i mestiços, gruppi di popolazione mista di origine africana,
europea e asiatica, che si concentrano soprattutto nelle città e costituiscono
il 3-5% circa della popolazione totale. Per quanto riguarda la religione, la
maggioranza degli abitanti del paese è cristiana (53%), mentre il resto della
popolazione pratica culti tradizionali (46,8%). Una esigua minoranza di persone
è di fede islamica.
In Nigeria ci sono più di 250 gruppi etnici che presentano una
enorme varietà di tradizioni, lingue, culture e religioni. Le principali etnie
nel Nord sono gli Hausa e i Fulb/Fulani, la maggioranza dei quali è di
religione musulmana. Altri importanti gruppi etnici del nord della Nigeria sono
Nupe, Tiv, e Kanuri. Nel sud-ovest predomina, invece, il popolo Yoruba che si
divide quasi equamente fra fede islamica e cristiana mentre una minoranza
professare l’antico culto animistico del loro
gruppo. L’etnia Igbo, invece, è di maggioranza cristiana e si trova
nelle zone centrali del Sud-Est. Le confessioni più diffuse sono il
protestantesimo ed il cattolicesimo ma sono presenti anche popolazioni di fede
anglicana, pentecostale ed evangelica. Infine, Gli Efik, gli Ibibio, gli Annang
e gli Ijaw costituiscono altre popolazioni del Sud-Est della
Nigeria. Tra tutte le 250 fazioni
etniche-religiose, gli Hausa-Fulani, gli Yoruba e gli Igbo sono i tre gruppi etnici da considerare
“leader” dato che hanno condizionato la storia nigeriana dalla sua
indipendenza. Dagli anni Sessanta, infatti, all’interno del Paese si è
radicalizzata una forte contrapposizione tra il Nord musulmano ed il Sud
cristiano. Le due aree da sempre si contendono la spartizione delle risorse
dello Stato federale e il potere di controllo politico e militare dei territori
causando scontri di natura interna e spinte secessionistiche, come la sanguinosa
guerra civile del Biafra, nel 1967, tentata dall’etnia Igbo per ottenere il
pieno dominio sui territori del Sud. Nonostante il ritorno alla democrazia nel
1999 e la balcanizzazione della Nigeria in 36 Stati federati diversi come
tentativo di fornire ad ogni gruppo etnico il proprio riconoscimento ed una
maggiore rappresentanza politica ed economica sul territorio occupato, negli
ultimi decenni sono state numerose le occasioni di conflitto fra i diversi
gruppi etnici, tutte di natura politica ed economica. Nella regione del Delta
del Niger, per esempio, i gruppi degli Ogoni e degli Ijaw hanno portato avanti
degli aspri conflitti con il governo centrale e le multinazionali estere per il
controllo del petrolio e dei suoi profitti economici. In Nigeria, dunque, così
come nel Sudan, sono le differenze religiose unite a interessi economici alla
base dei conflitti.
Nel Ruanda e nel Burundi, invece, i conflitti sono spesso provocati
da gruppi etnici che si ribellano in nome di una identità etnica. I due gruppi
etnici che costituiscono la quasi totalità della popolazione del Ruanda e del
Burundi sono gli Hutu (circa l’85% della popolazione) e i Tutsi (circa il 14%
della popolazione). Hutu e Tutsi vivevano insieme in società feudali dalla
struttura simile ma con rilevanti differenze. In Ruanda si trova, dal XVI
secolo, un regno dalla struttura molto centralizzata, basato su una rigida
divisione di ruoli tra gli allevatori-guerrieri tutsi e i coltivatori hutu e
con a capo un sovrano tutsi che esercitava un potere effettivo su una classe di
capi della stessa etnia. C’era anche una terza etnia, i pigmei twa, ma era
minoritaria e relegata in una posizione di marginalità. Lingua, religione,
tradizioni erano le stesse per gli hutu come per i tutsi ma il nord del Ruanda,
governato dagli hutu, per lungo tempo rimase restio a sottomettersi alla
struttura feudale del resto del paese, e ha comunque sempre conservato un forte
senso della propria diversità. Il Burundi differiva per la sua struttura
feudale che si caratterizzava dall’esistenza di una classe nobile ritenuta
«neutra», cioè né hutu né tutsi, detta ganwa, e dall’esistenza di un insieme di
principati locali che mal accettavano l’intromissione del sovrano nelle loro
vicende, orgogliosi di mantenere una propria autonomia. I regni del Ruanda e
dell’Urundi sono caduti, dopo la Conferenza di Berlino, sotto la sfera di
influenza tedesca, con conseguenti spedizioni e tentativi di penetrazione. I
risultati furono molto diversi per i due regni. In Ruanda il sovrano scelse di
collaborare ufficialmente con i colonizzatori, anche se si sviluppava una
nascosta resistenza passiva mascherata da un’apparente sottomissione. In
Burundi seguirono, invece, una lunga serie di scontri e violenze a cui gli
occupanti tedeschi risposero con campagne militari estremamente dure. Passati
in mano ai Belgi, le due etnie iniziarono ad essere studiate da un punto di
vista etnico-razziale, sulla base delle concezioni scientifiche dell’epoca.
Venne avvalorata l’idea per cui i tutsi fossero una popolazione con una
distinta origine razziale dagli hutu e vennero descritti dai colonizzatori come
i capi naturali, con un grande talento politico, abili nel nascondere il
proprio pensiero, caratterizzati da un’educazione volta all’acquisizione di un
grande autocontrollo dei sentimenti. Al contrario, gli hutu sono stati dipinti
come una popolazione naturalmente destinata a restare subordinata, come
agricoltori senza ambizioni, sinceri e spontanei in modo ingenuo, facili
all’ilarità e alle esplosioni incontrollate. Questa forte distinzione di
identità ha portato alla guerra civile e al genocidio del 1994 allontanando la
risoluzione delle problematiche del paese.
Nello Zimbabwe il gruppo etnico più diffuso è quello degli Shona ma
sono presenti molte altre culture che possono includere credenze e cerimonie
diverse. Circa l’80% dei cittadini del paese si identifica come cristiani di
cui il 63% sono protestanti (soprattutto seguaci delle Chiese africane) mentre
i seguaci delle religioni etniche sono circa l’11%. L’1% sono musulmani,
provenienti principalmente dal Mozambico e dal Malawi, lo 0,1% sono indù e lo
0,3% sono Baha’is. Circa il 7% dei cittadini non sono religiosi o sono atei. La
struttura sociale è rigida e si basa su regole prestabilite e rapporti
tradizionali consolidati. Per la protezione della propria cultura, lo Zimbabwe
è rimasto un paese isolato dal punto di vista economico, sociale e politico.
Nell’ambito dell’analisi parametrale, dunque, la presenza di fazioni
etnico-religiose mette a rischio la capacità di coesione sociale che sta alla
base di uno stato stabile e solido.