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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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giovedì 26 dicembre 2019

Clima e Pianeta Terra 1


Fonte Limes Rivista di geostrategia

giovedì 19 dicembre 2019

Materiali per l'Analisi Parametrale 9


Popolazione

Valentina Trogu

Il parametro in questione tiene conto della difficoltà di gestione delle popolazioni numerose. In Africa la difficoltà maggiore, più che riferirsi al numero di abitanti, si rivela essere quella di gestire il multiculturalismo della popolazione. Come già detto le etnie presenti nel continente sono tantissime e presentano tradizioni, culture, lingue differenti. Queste diversità incidono sullo sviluppo sociale di uno Stato soprattutto se alla base della maggior parte delle minoranze etniche troviamo povertà, accesso inadeguato all’istruzione, alla salute e ai servizi igienico sanitari. La capacità di sviluppo sociale di uno Stato si può paragonare a quella che la psicologia sociale definisce come la capacità di un individuo di far emergere,  modificare ed instaurare relazioni competenti con le altre persone, ossia la capacità di socializzazione. Gli individui entrano a far parte del contesto socio-culturale attraverso due processi. Un primo processo di apertura e partecipazione alle relazioni con gli altri ed un secondo di mantenimento della propria differenziazione dall’altro. Per lo svolgimento del processo di sviluppo sociale, devono esserci le condizioni affinché si sviluppi la competenza sociale, la consapevolezza sociale e la conoscenza sociale. La competenza si riferisce alla capacità di interagire adeguatamente ai diversi contesti, di elaborare informazioni e risolvere problemi di natura sociale; la consapevolezza è riferita alla capacità di riconoscersi come parte di un gruppo ma anche come membro indipendente e la conoscenza riguarda l’acquisizione dei principi e delle regole che governano il complesso sistema delle relazioni interpersonali. Se uno stato non dovesse riuscire a creare le condizioni adatte affinché ogni individuo raggiunga un sufficiente sviluppo sociale, la numerosa popolazione (in più multietnica) può diventare un fattore di squilibrio rilevante.

domenica 15 dicembre 2019

Materiali per l'Analisi Parametrale 8


DISASTRI NATURALI

Valetina Trogu



La capacità dello stato è messa a dura prova dai disastri naturali che aggravano problematiche già presenti. Shocks esterni come la siccità conducono, per esempio, all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione, già abbondantemente presente in Africa. Basti pensare che oltre 3,5 milioni di persone muoiono all’anno per la malnutrizione e che il 35% delle morti riguarda bambini sotto i 5 anni. Una dieta senza il giusto apporto di calorie, proteine e micronutrienti, poi, aumenta il rischio di sviluppare gravi ritardi mentali e di contrarre malattie quali polmoniti e dissenteria.
Le stime della Fao sui dati dell'International Disaster Database relativi ai disastri naturali nel continente africano riportano danni economici in 10 anni per 1.500 miliardi di dollari. Sono state colpite oltre 2 miliardi di persone e ne sono morte 1,5 milioni. Nello specifico, il settore primario subisce il 22% del totale dei danni e delle perdite causate dai disastri naturali in paesi in cui l’agricoltura è la principale fonte di reddito per il 60% della popolazione. La percentuale dei danni sale al 25% se si contano solo quelli legati al cambiamento climatico.
Nel 2017, l’Africa è stata colpita duramente dalla colata di fango in Sierra Leone che ha travolto interi villaggi causando 400 morti, dal ciclone Enawo in Madagascar, con 80 decessi e 247 mila persone senza tetto, da pesanti siccità che hanno sterminato le coltivazioni e colpito duramente la popolazione. Nel Malawi, nonostante la presenza di notevoli bacini idrici (pensate che il Lago Malawi è il nono più grande del mondo) la temperatura ha superato i 46°, portando milioni di persone a sopravvivere solamente attraverso agli aiuti alimentari internazionali. Nello stesso tempo il governo ha denunciato un aumento dei periodi di forte siccità e un aumento del numero di inondazioni, quadro di un clima in mutazione (dati del National Climate Change Policy, Government of Malawi).
Le zone dell'Africa subsahariana sono le più a rischio del mondo per perdite economiche causate da fenomeni di siccità acuta (come riportato dagli studi Dilley and others del 2005 e Fao 2006). Parliamo di zone in cui l'agricoltura raggiunge il 25% del prodotto interno lordo, il 50% se si include l'agro-business, e in cui oltre 264 milioni di persone hanno sofferto la siccità nel periodo compreso tra il 1980 e il 2014. Ogni siccità causa un calo del settore agricolo pari al 3,5% del suo valore all’interno dei Paesi colpiti al di sotto del Sahara.
In generale, i disastri naturali sono per il 90% legati all'acqua con la conseguenza che il 70% delle morti totali causate dai disastri naturali è dovuto ad eventi catastrofici che hanno a che fare proprio con l'acqua. Non si tratta solo di danni diretti alle persone e alle coltivazioni, ma anche dei danni provocati ai sistemi di irrigazione, di stoccaggio, agli animali, ai trasporti e molto altro.


venerdì 13 dicembre 2019

Materiali per Analisi Parametrale 7


MALATTIA ENDEMICHE  HIV/AIDS e sanità

Valentina Trogu

Fattori di rischio che servono da parametri per valutare la capacità economica di uno Stato sono legati alla sanità. Malattie ed alta mortalità, infatti, influiscono notevolmente sullo sviluppo economico di una regione come ad esempio in Africa Sub-sahariana. Qui, il tasso di infezione HIV/AIDS è il più alto del mondo ed è una minaccia economica rilevante per la regione stessa. Dati relativi al 2016 riferiscono come il paese con il più alto tasso di prevalenza su un adulto sia lo Swaziland, seguito da Lesotho, Botswana, Sud Africa, Namibia, Zimbabwe, Zambia, Mozambico, Malawi, Uganda, Guinea Equatoriale, Kenya, Tanzania, Repubblica Centrafricana, Cameroon e Gabon. Le prime sedici posizioni di una classifica mondiale sono ricoperte da paesi africani ma la lista dei paesi afflitti dall’HIV e dall’AIDS in Africa è molto più lunga.
Cifre generali indicano la presenza di 19 milioni di persone con HIV/AIDS in Africa meridionale e orientale, 6 milioni e mezzo in Africa centrale e occidentale per una stima di 800 mila decessi nel 2015 solo in Africa Sub Sahariana. L’intervento da mettere in atto precede lo sviluppo dell’infezione di HIV che se supera specifiche soglie, poi, diventa AIDS, malattia che emargina e indebolisce progressivamente l’individuo. L’emergenza, per essere combattuta, necessita di trattamenti con farmaci antiretrovirali e campagne di informazione sui rischi dell’HIV/AIDS  e sulle modalità di prevenzione del contagio; soluzioni apparentemente semplici ma che i paesi più poveri del mondo non possono permettersi. Occorre strutturare strategie per portare i servizi sanitari alle persone e tentare di distruggere definitivamente l’HIV. Il primo passo è procedere con uno screening per l’HIV ma non è semplice convincere i locali a recarsi nelle poche strutture sanitarie presenti. In Tanzania, il 5% della popolazione è sieropositivo ma solo il 70% sa di esserlo perché ha effettuato il test. La riluttanza nel fare lo screening deriva dal fatto che, mentre nei paesi cosiddetti occidentali parlare di HIV e AIDS non è più un tabù e si è arrivati alla consapevolezza che non bisogna averne paura, in Africa, soprattutto nelle zone più rurali, essere sieropositivi comporta l’esclusione sociale per ragioni antropologiche e culturali. In altri casi la scelta è determinata dalla considerazione che, volendo evitare di fare il test nel centro più vicino al luogo in cui si vive per paura della reazione della comunità difronte al rischio di essere malati, si dovrebbe intraprendere un viaggio che comporterebbe una spesa economica difficile da sostenere. Ecco perché bisogna portare i servizi ai cittadini e coinvolgerli direttamente nella prevenzione. Le organizzazioni internazionali stanno fornendo un importante aiuto collaborando, dove possibile, con le autorità e i governi. Una delle problematiche più rilevanti riguarda l’incapacità di autonomia del continente africano della gestione dell’HIV e delle malattie in generale a causa del fragile sistema sanitario.
Il tema della sanità, per quanto gli ultimi anni abbiano visto un’evoluzione nel campo, rimane, infatti, una questione scottante in Africa. Le risorse richieste per l’assorbimento di malattie come l’AIDS, l’ebola, la tubercolosi, sono ingenti e difficilmente sanabili autonomamente. Intanto il numero dei morti è elevato. Nel 2015, secondo i dati riportati dal “Global tuberculosis report”, la Nigeria è stato uno dei paesi più colpiti dalla tubercolosi, malattia che causa ogni anno in Africa circa 281 nuovi casi di tubercolosi ogni 100 mila abitanti. La malaria è un’altra malattia che conta 214 milioni di casi e 438 mila decessi in un anno. La zona del mondo più colpita da questa malattia è stata l’Africa subsahariana; si sono registrati l’88 per cento dei casi di malaria e il 90% dei decessi.
Oltre alle malattie citate, nel continente africano ne sono presenti molte altre a fronte della presenza, invece, di pochi medici. In Africa si stima che operi solo il 3%di tutto il personale sanitario mondiale pur essendo caratterizzata dal maggior numero di malattie del mondo intero. In Liberia, nella Guinea e in Sierra Leone si trova un sistema sanitario con 4,5 medici ogni 100 mila abitanti; rapportando alla media italiana di 376 medici ogni 10 mila persone la differenza è eclatante. L’accesso alle cure, poi, è limitato dalle capacità economiche dell’individuo con la conseguenza che 4 persone su 5 non possono accedere al sistema sanitario. E’ chiaro, adesso, come mai il 40% della popolazione africana muore a causa di malattie infettive quando in occidente la stima è dell’1%. Un cambiamento dei dati si potrà avere solo attraverso una forte volontà politica del governo degli stati africani. Un esempio positivo è dato dall’Etiopia, uno dei pochi paesi che ha preso seriamente in considerazione la problematica della salute ottenendo importanti risultati nella prevenzione delle malattie infettive. La maggior parte dei governi, invece, predilige altri interessi e spende i soldi non per la salute dei cittadini (diritto universale) ma per seguire altre strade. Parliamo di paesi “ricchi” come l’Angola (2 milioni di barili di petrolio al giorno), la Nigeria (1,75 milioni di barili al giorno), il Gabon (1,7 milioni di barili) e il Congo (300 mila barili).

martedì 10 dicembre 2019

Materiali per Analisi Parametrale 6

CORRUZIONE

Valetnina Trogu 


Uno dei vincoli più seri allo sviluppo delle società civili è la corruzione. In Africa il livello di corruzione su vasta scala è tra le minacce più grandi alla sicurezza e allo sviluppo del continente. I numeri che vi proporremo sono stati prodotti da Trasparency International, un’organizzazione non governativa che si pone l’obiettivo di combattere la corruzione su scala mondiale enfatizzando un cambiamento globale che dia al mondo la libertà dalla corruzione. Le prime dieci posizioni relative ai paesi con più corruzione sono coperte dalla Somalia, Sud Sudan, Siria, Corea del Nord, Yemen, Afghanistan, Guinea Equatoriale, Guinea Bissau, Sudan e Burundi. La corruzione sembra, dunque, dilagare nei paesi in cui non c’è la presenza di un governo centrale stabile oppure dove vige un regime poco democratico e tende ad alimentare questa instabilità minando le fondamenta del sistema sociale. Quali sono le motivazioni alla base della corruzione? Vi è l’avidità e il desiderio di ricchezza e di potere, la possibilità di un guadagno facile, un rischio limitato di venire scoperto e una pena esigua nel momento in cui il reato dovesse essere scoperto. La corruzione rompe le regole sociali e le norme di uno Stato contrapponendosi al termine “integrità” che tiene unito il sistema di valori di un individuo. In Africa, è possibile legare la corruzione dilagante ad una teoria detta Broken Windows Theory (teoria delle finestre rotte) elaborata dai criminologi Wilson e Kelling secondo cui la criminalità (inclusa la corruzione) è l’inevitabile risultato del degrado e del disordine. L’esempio è quello di una fabbrica o un ufficio con una finestra rotta. I passanti guardandola arriveranno alla conclusione che nessuno se ne cura, che nessuno ne ha il controllo. Presto tutte le finestre saranno rotte e l’edificio sarà occupato da vandali e criminali e i passanti penseranno che non solo nessuno controlla l’edificio ma anche che nessuno controlla la strada su cui si affaccia. Solo bande di giovani sbandati e criminali sconsiderati possono avere qualcosa da fare in una strada non controllata, così sempre più cittadini abbandoneranno quella strada a coloro che vi agiranno in cerca di prede. Si evince, così, che la diffusione del disordine ambientale contribuisce al disordine sociale, l’ambiente degradato degrada il comportamento portando alla corruzione e che il degrado ambientale, poi, influenza la percezione della sicurezza. In linea generale quella che ha luogo in Africa è la teoria del potere del contesto secondo la quale il comportamento è in funzione del contesto sociale. Contesti di instabilità, criminalità e poche opportunità sono alla base della dilagante corruzione nei paesi africani. Non per altro la Somalia, definito Stato Fallito,  è in cima alla lista dei paesi corrotti con circa l’80% di tassi di corruzione. Il punteggio attribuito al Paese (si fa riferimento ad una scala che assegna un punteggio da 0 -altamente corrotto - a 100 - per niente corrotto) è di 10 punti seguito dal Sud Sudan con 13 punti. La Nigeria ha un punteggio di 27 mentre i paesi meno corrotti in Africa risultano essere le isole Seychelles con 66 punti su 100 e Botswana, Capo Verde, Rwanda e Namibia, che hanno ottenuto rispettivamente 61, 57, 56 e 53 punti. Restano situazioni critiche, invece,  in otto paesi sub-sahariani: Repubblica democratica del Congo, Angola, Ciad, Repubblica del Congo, Burundi, Guinea Equatoriale, Guinea Bissau e Sudan. Altri paesi, come Burkina Faso, eSwatini e Costa d’Avorio, hanno migliorato i loro punteggi ma rimangono caratterizzati da alcune criticità.  Qual è la differenza tra questi paesi? Le Seychelles e il Botswana (quindi i paesi con il 
punteggio più alto rispetto ad altri paesi della regione) hanno saputo realizzare sistemi democratici e di governance relativamente ben funzionanti mentre l’Africa sub-sahariana è rimasta una regione in cui prevalgono  forti contrasti politici e socio-economici e dove si trovano paesi ancora dominati da leader autoritari e semi-autoritari. E, come abbiamo appurato, i regimi autocratici, insieme ai conflitti civili, alle deboli istituzioni e a sistemi politici poco interessati alla risoluzione del problema, minano qualunque sforzo intrapreso a livello regionale per contrastare la corruzione.

mercoledì 4 dicembre 2019

Materiali per Anasili Parametrale 5





L’analisi effettuata prende in considerazione tre tipi di regime politico: democrazia, “anocracy”[1] e autocrazia.Si intende per “anocracy” un regime politico che non risulti né completamente democratico né completamente autocratico, essa comporta l’instaurazione di sistemi di governo variamente “ibridi” in Paesi caratterizzati da una fase di transizione verso la democrazia. Alcuni Paesi, come  Messico, Nicaragua, Senegal, e Taiwan, sono riusciti a creare un regime democratico uscendo da una fase autocratica attraverso l’“anocracy”. Un certo numero di Paesi africani, Burkina Faso, Gibuti, Guinea, e Tanzania, ha dato l’avvio recentemente ad una cauta transizione verso una maggiore apertura dei propri regimi politici,.I tre tipi di regime già menzionati sono stati analizzati in base alle relative istituzioni politiche, in particolare:
-    le modalità di selezione della classe dirigente (per esempio: elezione, colpi di Stato, successione ereditaria);
-    le pressioni esercitate sul ruolo dell’élites (per esempio: controlli forniti dal potere legislativo e giudiziario);
-    il livello di coinvolgimento del popolo nel processo politico (per esempio: tramite i partiti politici);
-    il livello di accesso della popolazione al potere politico (per esempio: il livello di rappresentanza delle minoranze);
-    la neutralità e la professionalità dell’apparato burocratico.
Il controllo dell’esecutivo e la partecipazione della popolazione alle istituzioni hanno un consistente e positivo effetto sulla stabilità politica. Se l’esecutivo è controllato da altri livelli governativi e se la competizione politica è istituzionalizzata ed efficace, l’instabilità politica è notevolmente bassa.

In assenza di controlli sull’esecutivo e di effettiva partecipazione della popolazione alle istituzioni, anche in un contesto di notevole crescita, l’instabilità è notevole.
In democrazia questi fattori tendono ad esaltarsi reciprocamente. Attraverso le elezioni ed i partiti politici la popolazione è coinvolta nella scelta della classe dirigente, il cui potere è limitato dalla legge, dall’operato di una burocrazia autonoma e dalle iniziative degli altri organi dello Stato.
Nell’autocrazia la partecipazione è limitata ad una ristretta élite che sceglie l’esecutivo, rimuovendo le eventuali limitazioni al relativo potere,  impiegando la burocrazia in funzione strumentale, favorendo il clientelismo ed l’assegnazione mirata delle risorse.
La labilità delle istituzioni rende le “anocracies”  meno stabili e resistenti. In presenza di un sistema parzialmente democratico, con scarsi controlli sull’esecutivo e modesta  partecipazione popolare, l’instabilità politica è circa 10 volte superiore a quella associata a fattori socio-economici (mortalità infantile, mercati chiusi, ecc.) : ciò è frequente  in Africa.
In Africa (e nel resto del mondo), le “anocracies” sono spesso prossime alla crisi completa dello Stato. Le libere elezioni per un presidente o per un primo ministro non sono sufficienti a garantire una piena democrazia, infatti le elezioni possono essere di per se pericolose. Forti controlli sulla classe dirigente e /o la regolare partecipazione popolare sono necessarie per creare stabilità.
Dunque i Paesi completamente democratici sono più stabili; i sistemi autocratici, particolarmente nei Paesi con bassi livelli di reddito, sono relativamente stabili; le “anocracies” sono esposte ad un più alto rischio di instabilità.



[1] Il termine inglese “Anocracy” può essere tradotto in italiano con il termine anocracy , in maniera letterale, oppure con il termine concettuale, con la parola “intercrazia”. Nell’uno e nel’altro caso sono termini non di uso comune e corrente, come democrazia e autocrazia. Si adotta, per questo lavoro, il termine inglese “anocracy” onde evitare possibili confusioni o male interpretazione, inviando per il termine“anocracy” alla definizione di cui sopra.

giovedì 28 novembre 2019

Materiali per Analisi Parametrale 4


MOVIMENTI INTERNI DI STRATI DELLA POPOLAZIONE

Valentina Trogu

L’Africa è il continente in cui si conta il maggior numero di Internally displaced persons. Si tratta di civili, in maggioranza donne e bambini, che a causa di persecuzioni e violenze sono stati costretti ad abbandonare le loro case per andare in cerca di una nuova sicurezza. Si stima che l’Africa  ospiti approssimativamente 11,6 milioni di IDPs, quasi la metà (il 46%) del numero totale di IDPs presenti nel mondo, quantificato intorno ai 26 milioni. Il Sudan è il Paese nel quale vi è la più grande popolazione di IDPs (circa 5 milioni) e solo nel 2016 sono stati registrati 922 mila i nuovi sfollati a causa dei conflitti interni presenti nell’Africa centrale. Una risoluzione alla problematica in questione è stata tentata nel 2009 con la Convenzione di Kampara volta a favorire la protezione e l’assistenza degli sfollati interni in Africa. Il quadro normativo si basa sul presupposto che gli Stati hanno la responsabilità primaria di rispettare e proteggere i diritti degli IDPs, senza alcun tipo di discriminazione. Il testo della Convenzione impone, dunque, una serie di obblighi per gli Stati che vi hanno aderito tra cui proibire o impedire lo sfollamento arbitrario, garantire il rispetto dei diritti umani, assicurare la responsabilità penale individuale e di attori non statali coinvolti in attività che causano o contribuiscono allo sfollamento e mantenere il carattere civile ed umanitario della protezione e dell’assistenza agli IDPs. Sapendo che i portatori primari di obblighi spesso coincidono con gli stessi soggetti che direttamente o indirettamente provocano lo sfollamento, gli Stati Parte hanno assegnato un ruolo particolare all’Unione Africana. Nello specifico, l’articolo 8 stabilisce che l’Unione Africana deve essere considerata come un meccanismo di coordinamento che, in circostanze eccezionali (poniamo ad esempio uno Stato che non è in grado o non vuole far fronte ad uno sfollamento all’interno del suo territorio) funga da supporto o sostituto dell’azione statale. La Convenzione è entrata ufficialmente in vigore nel 2012, dopo che 15 paesi l’hanno ratificata per arrivare nel 2014 a 20 paesi. La particolarità del trattato è che protegge non solo le persone che fuggono dalla propria casa a causa di violenze, persecuzioni, guerre, violazioni di diritti umani e politici, ma anche civili, donne e bambini che sono costretti a lasciare le zone di origine a causa di calamità naturali, disastri ambientali o eventi climatici estremi come la siccità o le inondazioni. Si stima che nel 2012 sono stati 7,7 milioni gli sfollati interni per cause ambientali nei paesi che hanno firmato la Convenzione di Kampara. Tra i paesi più colpiti troviamo l’Etiopia, soprattutto il sud-est del paese, al confine con la Somalia. Una gravissima siccità ha portato più di 600 mila persone verso la regione “Somali” dove si trova una popolazione etnicamente somala ma di nazionalità etiope distribuita in 264 villaggi.
Uno dei paesi da cui parte il numero maggiore di sfollati è la Repubblica Democratica del Congo. Il contesto è chiarificatore del motivo alla base della fuga. Parliamo di uno dei paesi più poveri al mondo (al 178° posto su 188 nel 2017), in cui 1 bambino su 10 muore prima di compiere i 5 anni, dove il reddito pro capite è di circa 485 dollari all’anno; un paese in cui la corruzione dilaga così come i conflitti presenti soprattutto nell’est del paese e in cui la stabilità politica è un lontano miraggio. Questa tragica situazione si contrappone alla ricchezza della Repubblica Democratica del Congo ma nello stesso tempo ne è conseguenza. Lo sfruttamento delle risorse minerarie e naturali – oro, diamanti, cobalto, rame, tungsteno, stagno – ha una rilevanza geo-politica talmente alta da far sì che gli interessi delle elité e di alcuni attori internazionali siano di mantenere il paese instabile e povero per non far alzare i costi. A causa di interessi economici, la popolazione vive in un contesto di povertà e violenza e decide di allontanarsi diventando sfollati interni pur provenendo da uno dei paesi con le maggiori risorse naturali del continente.
I movimenti interni di strati della popolazione sono un fattore di rischio rilevante per uno Stato e ne valutano la capacità di coesione sociale.


venerdì 22 novembre 2019

Materiali per Analisi Parametrale 3


FAZIONI ETNICHE E RELIGIOSE

Valentina Trogu

La presenza di numerose fazioni etniche e religiose porta inevitabilmente a sottolineare una corrispondenza tra conflitti e instabilità politica. Alla base ci sono fattori di discriminazione e di intolleranza. Dove il sistema è intollerante verso una società multi-etnica e multi-religiosa si verificano condizioni di instabilità sociale. Gli indicatori sintomatici di questi aspetti sono due:
·         la connotazione etnica/religiosa di una élite in una società eterogenea
·         l’esistenza di polizie pubbliche che agiscono in maniera discriminatoria verso alcuni gruppi.
Ove sussistono questi indicatori troviamo le situazioni di rischio più elevate per le cosiddette minoranze presenti in un gruppo della popolazione che, a causa della non uniformità etnica, linguistica, religiosa e culturale, vengono sottoposte a trattamenti diseguali e differenziati da parte della maggioranza che si reputa universale ed impone le sue norme. Dal punto di vista sociologico, una minoranza può essere numericamente superiore ad una maggioranza risultando ugualmente discriminata e si riscontra la presenza di tali minoranze, tratteggiate da fattori economici, politici, storici, in tutti i paesi del mondo. Nella socio-economia, poi, il termine minoranza fa riferimento alla subordinazione sociale di un gruppo etnico distinto dagli altri per la lingua, la razza, la nazionalità o la religione. Ne sono un esempio i popoli indigeni, non solo in Africa ma anche nell’America Latina e in Oceania. Sono stati assoggettati, rinchiusi in riserve, impiegati come mano d’opera a basso costo e privati della loro terra e dei beni, come ad esempio i Pigmei nel cuore dell’Africa. Chi mette in atto le discriminazioni, spesso, è il governo oppure altri settori della società. Nel 2003, una ricerca condotta dall’University of Maryland’s Center for International Development & Conflict Management (CIDCM) ha individuato 31 Stati africani con minoranze etniche/religiose a rischio di azioni discriminatorie di cui nove Stati (Angola, Burundi, Camerun, R.D. del Congo, Nigeria, Senegal, Sudan, Uganda e Zimbabwe) presentano la situazione di rischio più elevato.
In Angola, per esempio, ci sono circa 90 gruppi etnici. Il principale è costituto dagli Ovimbundu, che rappresentano poco meno del 40% della popolazione e hanno costituito la base etnica dell’Unita durante la guerra civile. Seguono i Mbundu (25% circa della popolazione) e i Bakongo (14%). Meno numerosi ma rilevanti dal punto di vista dell’influenza economica e politica sono i mestiços, gruppi di popolazione mista di origine africana, europea e asiatica, che si concentrano soprattutto nelle città e costituiscono il 3-5% circa della popolazione totale. Per quanto riguarda la religione, la maggioranza degli abitanti del paese è cristiana (53%), mentre il resto della popolazione pratica culti tradizionali (46,8%). Una esigua minoranza di persone è di fede islamica.
In Nigeria ci sono più di 250 gruppi etnici che presentano una enorme varietà di tradizioni, lingue, culture e religioni. Le principali etnie nel Nord sono gli Hausa e i Fulb/Fulani, la maggioranza dei quali è di religione musulmana. Altri importanti gruppi etnici del nord della Nigeria sono Nupe, Tiv, e Kanuri. Nel sud-ovest predomina, invece, il popolo Yoruba che si divide quasi equamente fra fede islamica e cristiana mentre una minoranza professare l’antico culto animistico del loro
gruppo. L’etnia Igbo, invece, è di maggioranza cristiana e si trova nelle zone centrali del Sud-Est. Le confessioni più diffuse sono il protestantesimo ed il cattolicesimo ma sono presenti anche popolazioni di fede anglicana, pentecostale ed evangelica. Infine, Gli Efik, gli Ibibio, gli Annang
e gli Ijaw costituiscono altre popolazioni del Sud-Est della Nigeria.  Tra tutte le 250 fazioni etniche-religiose, gli Hausa-Fulani, gli Yoruba e gli Igbo  sono i tre gruppi etnici da considerare “leader” dato che hanno condizionato la storia nigeriana dalla sua indipendenza. Dagli anni Sessanta, infatti, all’interno del Paese si è radicalizzata una forte contrapposizione tra il Nord musulmano ed il Sud cristiano. Le due aree da sempre si contendono la spartizione delle risorse dello Stato federale e il potere di controllo politico e militare dei territori causando scontri di natura interna e spinte secessionistiche, come la sanguinosa guerra civile del Biafra, nel 1967, tentata dall’etnia Igbo per ottenere il pieno dominio sui territori del Sud. Nonostante il ritorno alla democrazia nel 1999 e la balcanizzazione della Nigeria in 36 Stati federati diversi come tentativo di fornire ad ogni gruppo etnico il proprio riconoscimento ed una maggiore rappresentanza politica ed economica sul territorio occupato, negli ultimi decenni sono state numerose le occasioni di conflitto fra i diversi gruppi etnici, tutte di natura politica ed economica. Nella regione del Delta del Niger, per esempio, i gruppi degli Ogoni e degli Ijaw hanno portato avanti degli aspri conflitti con il governo centrale e le multinazionali estere per il controllo del petrolio e dei suoi profitti economici. In Nigeria, dunque, così come nel Sudan, sono le differenze religiose unite a interessi economici alla base dei conflitti.
Nel Ruanda e nel Burundi, invece, i conflitti sono spesso provocati da gruppi etnici che si ribellano in nome di una identità etnica. I due gruppi etnici che costituiscono la quasi totalità della popolazione del Ruanda e del Burundi sono gli Hutu (circa l’85% della popolazione) e i Tutsi (circa il 14% della popolazione). Hutu e Tutsi vivevano insieme in società feudali dalla struttura simile ma con rilevanti differenze. In Ruanda si trova, dal XVI secolo, un regno dalla struttura molto centralizzata, basato su una rigida divisione di ruoli tra gli allevatori-guerrieri tutsi e i coltivatori hutu e con a capo un sovrano tutsi che esercitava un potere effettivo su una classe di capi della stessa etnia. C’era anche una terza etnia, i pigmei twa, ma era minoritaria e relegata in una posizione di marginalità. Lingua, religione, tradizioni erano le stesse per gli hutu come per i tutsi ma il nord del Ruanda, governato dagli hutu, per lungo tempo rimase restio a sottomettersi alla struttura feudale del resto del paese, e ha comunque sempre conservato un forte senso della propria diversità. Il Burundi differiva per la sua struttura feudale che si caratterizzava dall’esistenza di una classe nobile ritenuta «neutra», cioè né hutu né tutsi, detta ganwa, e dall’esistenza di un insieme di principati locali che mal accettavano l’intromissione del sovrano nelle loro vicende, orgogliosi di mantenere una propria autonomia. I regni del Ruanda e dell’Urundi sono caduti, dopo la Conferenza di Berlino, sotto la sfera di influenza tedesca, con conseguenti spedizioni e tentativi di penetrazione. I risultati furono molto diversi per i due regni. In Ruanda il sovrano scelse di collaborare ufficialmente con i colonizzatori, anche se si sviluppava una nascosta resistenza passiva mascherata da un’apparente sottomissione. In Burundi seguirono, invece, una lunga serie di scontri e violenze a cui gli occupanti tedeschi risposero con campagne militari estremamente dure. Passati in mano ai Belgi, le due etnie iniziarono ad essere studiate da un punto di vista etnico-razziale, sulla base delle concezioni scientifiche dell’epoca. Venne avvalorata l’idea per cui i tutsi fossero una popolazione con una distinta origine razziale dagli hutu e vennero descritti dai colonizzatori come i capi naturali, con un grande talento politico, abili nel nascondere il proprio pensiero, caratterizzati da un’educazione volta all’acquisizione di un grande autocontrollo dei sentimenti. Al contrario, gli hutu sono stati dipinti come una popolazione naturalmente destinata a restare subordinata, come agricoltori senza ambizioni, sinceri e spontanei in modo ingenuo, facili all’ilarità e alle esplosioni incontrollate. Questa forte distinzione di identità ha portato alla guerra civile e al genocidio del 1994 allontanando la risoluzione delle problematiche del paese.
Nello Zimbabwe il gruppo etnico più diffuso è quello degli Shona ma sono presenti molte altre culture che possono includere credenze e cerimonie diverse. Circa l’80% dei cittadini del paese si identifica come cristiani di cui il 63% sono protestanti (soprattutto seguaci delle Chiese africane) mentre i seguaci delle religioni etniche sono circa l’11%. L’1% sono musulmani, provenienti principalmente dal Mozambico e dal Malawi, lo 0,1% sono indù e lo 0,3% sono Baha’is. Circa il 7% dei cittadini non sono religiosi o sono atei. La struttura sociale è rigida e si basa su regole prestabilite e rapporti tradizionali consolidati. Per la protezione della propria cultura, lo Zimbabwe è rimasto un paese isolato dal punto di vista economico, sociale e politico.
Nell’ambito dell’analisi parametrale, dunque, la presenza di fazioni etnico-religiose mette a rischio la capacità di coesione sociale che sta alla base di uno stato stabile e solido.



[1] 

venerdì 15 novembre 2019

Materiale per Analsi Parametrale 2


Disoccupazione

VALENTINA TROGU

Un altro parametro identificabile come fattore di squilibrio in termini di sicurezza dello Stato è la disoccupazione. Cosa significa non avere un lavoro? Bassi livelli occupazionali hanno come conseguenza l’assenza di opportunità economiche e possono causare contraddizioni sociali creando condizioni favorevoli all’affermazione di potenziali ribelli in una società che non ha gli strumenti idonei per dissuadere dall’uso della violenza.
In Africa si contano più di 32 milioni di giovani senza un lavoro e la cifra è destinata ad aumentare se non si riuscirà a fronteggiare la crescita demografica con un aumento delle possibilità di impiego. In Costa d’Avorio il 23% della popolazione è senza occupazione, in Gabon il 18%, in Gambia il 29,8% e in Sud Africa il 27,3%. Inoltre, la maggior parte dei lavori sono al limite dello sfruttamento e le occupazioni dignitose sono una rarità. Dal punto di vista antropologico viene posto l’accento sul fatto che il valore dell’uomo è diventato sempre più basso. Se prima la piaga era lo sfruttamento, oggi è l’esclusione, fenomeno ancora più tragico. La questione della  disoccupazione, dunque, si allaccia ad una sottomissione della natura di essere umano che va ad intaccare l’identità delle persone africane. La conseguenza sulla società è un aumento della devianza e della criminalità. Può sembrare un’ovvietà associare un aumento della possibilità di comportamento deviante ad un disoccupato ma ricerche economiche empiriche e teoriche degli ultimi anni hanno sottolineato la presenza di specifici meccanismi attraverso i quali la disoccupazione può influenzare la criminalità. L’analisi economica parte dall’assunto per cui l’uomo, in maniera razionale, è impegnato in una valutazione continua dei costi e dei benefici che derivano dalle azioni che può mettere in pratica. Una prima valutazione relativa ad un azione criminale riguarda, quindi, la connessione tra i benefici che si potrebbero ottenere e i danni diretti o indiretti che da affrontare in caso di insuccesso. Secondo quest’ottica, in un paese in cui l’obiettivo di trovare un’occupazione è totalmente distante dalla realtà, c’è una mancanza di controlli adeguati e il fenomeno della violenza non è altamente condannato, è elevata la possibilità che la disoccupazione porti ad atteggiamenti criminali. Un esempio ci porta a prendere in considerazione uno dei paesi precedentemente citati tra quelli con il numero più elevato di disoccupati – il Sud Africa. L’emergenza criminalità è elevata. Il governo di Pretoria ha stimato una media di 57 omicidi al giorno nel 2018, cifra allarmante e inaccettabile. La sicurezza del paese è completamente inesistente e le persone del luogo sono talmente abituate ad assistere a rapimenti, uccisioni o rapine da considerarle la normalità.
Un paradosso da citare relativo al continente africano e al tasso di disoccupazione prende in considerazione l’istruzione. Alcuni paesi, primo tra tutti il Marocco, hanno iniziato negli ultimi anni ad investire maggiormente nell’istruzione (il Marocco spende il 26% del suo bilancio statale per l’istruzione). Soprattutto nel nord Africa si è assistito ad un aumento del numero di studenti e di università. Prendendo in esame sempre il Marocco si è passati dai 308.000 studenti nel 2009/2010 agli 822.000 nel 2017/2018, con un aumento del 167% in otto anni. Di contro, nonostante l’aumento del numero di università, degli studenti e dei soldi spesi per l’istruzione si assiste ad un aumento dei laureati disoccupati. Come detto all’inizio, nel continente africano è difficile trovare un lavoro dignitoso perché intervengono altri fattori che minano l’istruzione e l’occupazione in Africa. Parliamo della corruzione, della mancanza di riforme del sistema scolastico, delle agevolazioni destinate solo ad una élite di giovani studenti. Ulteriori rilevanti problematiche vengono create poi dal gruppo terrorista islamista, originario della Nigeria, Boko Haram, la cui traduzione letterale è ‘l’istruzione occidentale è proibita’. Un attacco del gruppo ha visto prendere d’assalto, nel febbraio 2018, una scuola femminile nel villaggio di Dapchi, a nord del Paese, per rapire degli studenti ma, negli ultimi dieci anni, le azioni violente di Boko Haram contro scuole e studenti sono state numerose ed hanno lasciato almeno 7 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria, 2,1 milioni di sfollati e 20.000 civili morti (come riferito in un report di Human Rights Watch). L’ideologia di Boko Haram si fonda sull’idea per cui sia necessario distruggere l’illuminante potere educativo in quanto espressione di peccato dal momento che comprende insegnamenti al di fuori di quelli del corano. Altra motivazione per cui il gruppo sta lottando per mantenere l’educazione di qualità lontana dalla popolazione è legata alla consapevolezza che attraverso l’educazione si può raggiungere la libertà soprattutto perché è in grado di fornire una posizione lavorativa effettiva e appagante che allontanerebbe i giovani africani dalla criminalità e dalla violenza.





venerdì 8 novembre 2019

Materiali per Analisi Parametrale


Rifugiati

Valentina Trogu

La misura della capacità di uno Stato deve essere messa in relazione con una sfida difficile da affrontare, quella dei fenomeni transnazionali di natura violenta come il traffico delle armi, la droga, le risorse preziose,  la criminalità organizzata, i gruppi terroristici, le Organizzazioni Non Governative e i rifugiati. Se lo Stato non è in grado di fronteggiare tali minacce si assisterà ad una diffusione di situazioni conflittuali in tutta l’area regionale interessata. I conflitti in questione assomigliano in tutto e per tutto a delle vere e proprie guerre civili che interessano realtà locali, provinciali, nazionali e regionali determinando un aumento del numero dei rifugiati.
La definizione base del termine “rifugiato” stilata dalla Convenzione Onu nel 1951 lo descrive come colui che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese.
È limitativo circoscrivere il termine rifugiato agli individui che temono di essere perseguitati se si prendono in considerazioni realtà come quelle del continente Africano (ma anche dell’America Latina) in cui è possibile assistere a spostamenti di massa di elevati numeri di persone che si allontanano da un paese caratterizzato da crisi sociali ed economiche in situazioni di conflitto. Ecco che, all’interno del termine rifugiato, è possibile leggere la definizione di sfollati interni - persone o gruppi di individui che sono stati costretti a lasciare le loro case o luoghi di residenza abituale, in particolare a causa di situazioni di violenza generalizzata, violazioni dei diritti umani o naturali, o per conflitti armati, che non hanno attraversato un confine internazionale riconosciuto – o di richiedenti asilo – persone che hanno presentato domanda di protezione internazionale, di cui non è stato ancora determinato l'esito ma che, in caso di esito positivo, verranno riconosciute come rifugiati acquisendo alcuni diritti e doveri, secondo la legislazione del Paese che lo accoglie. Ci sono, poi, i rifugiati “prima facie”, individui che fuggono in massa dal Paese a causa di conflitti e violazioni sistematiche dei diritti umani e per cui sarebbe inutile e impossibile esaminare singolarmente le domande di asilo. Alcuni esempi hanno come protagonisti i sudanesi che fuggono in Ciad, i Somali che vanno in Kenya e i ciadiani che a loro volta scappano nella Repubblica del Centro Africa.
Differente dalla definizione di rifugiato ma altrettanto attuale è l’utilizzo del termine migrante. I migranti sono coloro che privi di documenti oltrepassano le frontiere nazionali in cerca di aiuto per sfuggire ad una situazione di povertà estrema, conflitto generalizzato, crisi sociale ed economica. Nella maggior parte dei casi non hanno i requisiti per richiedere asilo, nonostante abbiano senza dubbio necessità di protezione internazionale, con la conseguenza di vedersi negato l’accesso ai servizi essenziali come l’istruzione, l’assistenza sociale, i servizi sanitari e il diritto al lavoro.
La differenza tra rifugiato e migrante, dunque, risiede principalmente sul piano legale ma notiamo spesso usare in modo intercambiabile i due termini dai mass media o nei dibattiti pubblici. Probabilmente perché in entrambi i casi si parla di persone costrette a lasciare il paese di origine per recarsi in un luogo sconosciuto in cui si pensa e spera si possa riuscire a vivere. L’individuo, però, viene a perdere ogni riferimento legato alle tradizioni, agli usi e ai costumi del proprio paese e si trova a vivere un processo di rifondazione e riappropriazione individuale del rapporto con la religione, con la società e con le altre persone. Gli immigrati non riescono a conservare in modo duraturo usi e costumi della società di origine e contemporaneamente si trovano a vivere in un contesto in cui sono visti come una minoranza e in cui mancano i precedenti riferimenti culturali. Da questa situazione di perdita dell’identità personale nasce la necessità di creare nuove identità che possono incarnarsi in una sottocultura dando l’impressione di conservare, almeno inizialmente, l’identità di origine ma che in realtà sono identità ricomposte, multiple, contestuali e di transizione. La riformulazione dell’identità avviene partendo da categorie prese dal paese di accoglienza che non sono né coincidenti con la cultura originaria né frutto di un processo di assimilazione. Occorre considerare, poi, che rifugiati, richiedenti asilo, migranti oltre alla creazione di una nuova identità devono affrontare i fantasmi che si portano dietro dal paese di origine. Violenze, guerre, carestia, sevizie, rapimenti, queste sono le motivazioni alla base della fuga, motivazioni che lasciano cicatrici interne ed esterne difficilmente sanabili se non vengono affrontate con il giusto supporto. Sintomi trascurati di un disagio psicologico sfoceranno, come dimostrano i fatti, in episodi di disadattamento e di aggressività.
Le conseguenze della migrazione potrebbero essere inserite in una lunga lista che parte proprio dai problemi legati alla perdita dell’identità di chi è costretto a lasciare il paese di origine ma che affronta, poi, le questioni sociali ed economiche che graveranno sul paese meta della migrazione o del rifugiato e che sono alla base delle decisioni di non accoglienza dei migranti. Un lungo dibattito si potrebbe affrontare sulla questione così come a lungo si potrebbe parlare di come porre fine al fenomeno intervenendo sulle cause che sono all’origine degli spostamenti. Le numerose conseguenze delle migrazioni e fuga dal paese di origine sono alla base della decisione di includere i rifugiati come parametro di valutazione della capacità di uno Stato inserendolo come fattore di squilibrio per la sicurezza dello Stato stesso.

sabato 2 novembre 2019

Missioni fuori area 3


Il Quadro Generale Storico-Giuridico-Politico.


1.    Aspetto Storico
2.    Aspetto Giuridico
3.    Aspetto Politico

venerdì 25 ottobre 2019

Missioni Fuori Area 2


Che cosa intendiamo per “Missioni fuori area”. E’ un approccio sostanzialmente erede del conflitto bipolare e della guerra fredda, quando i blocchi controllavano le rispettive aree di influenza, attraverso le proprie organizzazioni Sopranazionali di difesa, la Nato ed il Patto di Varsavia
In queste aree ogni sovvertimento dell’ordine e della legge era contrastato e controllato  “in primis” dalla Nazione egemone (la Superpotenza) nel caos in specie USA o URSS, e poi dalla coalizione di Stati e loro referenti. Così per l’area sovietica i conflitti sorti come la rivolta nella Germania Orientale del 1953, quella in Ungheria nel 1956, in Cecoslovacchia nel 1968 furono tutto repressi dalla potenza egemone.
Ogni intervento era “in area” e, pena lo scoppio di un conflitto generale, mai “fuori area”. Se un conflitto scoppia in are fuori dalla sfera di influenza le due Superpotenze si combattevano per interposta persona.

Nel momento in cui, nel 1989 la URSS scompare  vi sono degli interventi volti al ristabilimento della pace e sicurezza


venerdì 18 ottobre 2019

Missioni Fuori Area 1


 Di seguito con cadenza settimanale saranno pubblicati post con osservazioni sul  tema delle Missioni fuori area. Si riporta un Abstrac di dette note.

Si delinea, preliminarmente, un quadro generale  ( con cenni agli aspetti storici, giuridici e politici) delle “missioni fuori area”, ovvero alle operazioni al sostegno della pace, ovvero a tutte quelle azioni intraprese dalla Forze Armate fuori dal territorio nazionale al sostegno della sicurezza internazionale e della pace, al fine di prevenire, controllare, risolvere i conflitti e lo stato di guerra.
Individuazione e catalogazione le singole operazioni “Fuori Area” in base ai criteri e canoni individuati sia per la tipologia e quindi individuare differenze e analogie.


giovedì 10 ottobre 2019

Lo Stato.


1.1 | Le caratteristiche dello Stato
Le caratteristiche dello Stato sono quelle ormai da tempo codificate e che partono da considerazioni che fino a poco tempo fa si potevano definire semplicemente di buon senso. Ad esempio, come concepire uno Stato senza territorio 0 uno Stato senza popolazione? Da ciò l’ovvia considerazione che si definisce Stato una organizzazione sociale in grado di esercitare sovranità per un tempo ragionevolmente lungo su un territorio e un numero di persone sufficientemente ampio da costituire una popolazione. Questa interpretazione è ancora oggi generalmente accettata, anche con le sue irrilevanti eccezioni: si pensi alla Città del Vaticano, uno Stato a tutti gli effetti, ma del quale sarebbe arduo cercare di distinguere una autentica popolazione, o allo Stato palestinese, che fino agli accordi di Oslo del 1993 non disponeva di alcun territorio e che anche successivamente (e fino a oggi) ha acquisito una capacità di controllo così ridotta da non potere in alcun caso essere definita sovranità.
Diverso è il caso dei cosiddetti micro-Stati che secondo Atlas des relations internationales hanno una popolazione inferiore a 100 mila unità e una superficie inferiore a 1000 km2. A parte il Vaticano, che con una superficie di 0,4 km2 e i suoi mille abitanti non ha rivali per piccolezza, nella speciale classifica dei nano-Stati risultano al primo posto il Principato di Monaco per superficie (2 km2) e le isole Tuvalu in Oceania per popolazione (11 mila abitanti). Segue in entrambe le classifiche Nauru (Oceania), con 21 km2 e 12 mila abitanti (Boniface, 2004). Il diritto internazionale ne ammette in pieno l’esistenza anche se di recente si è cominciato a mettere in dubbio il diritto di dotarsi di una legislazione che consenta con estrema facilità il trasferimento di capitali, senza controllarne la provenienza e la legittimità. Molti micro-Stati infatti, spinti dalla loro cronica mancanza di risorse oltre che da altre motivazioni storiche, hanno trovato una fondamentale fonte di sussistenza trasformandosi nei cosiddetti paradisi fiscali, ovvero in collettori di denaro sporco e di capitali che sfuggono illegalmente alla tassazione nei paesi di origine.
I paradisi fiscali sono presenti sia in Europa, sia in Asia sia in America: quelli più noti sono le isole Bahamas, e il Liechtenstein, enclave di 160 km2 tra la Svizzera e l’Austria. Talvolta comunque non godono neppure di una formale indipendenza: in questa categoria rientrano le isole del Canale in Europa, le isole Cayman in America (appartenenti entrambe sia pure con statuti diversi alla Gran Bretagna), Hong Kong e Macao (territori cinesi) in Asia. L’OCSE, l’organismo internazionale che raccoglie gli Stati più industrializzati, ha redatto una lista nera nella quale comunque sono stati inseriti anche paesi di dimensioni «normali», come le Filippine, la Malaysia e l'Uruguay (quest’ultimo accusato in particolare dall’ Argentina di nascondere i capitali che fuggono da Buenos Aires, specie dopo il disastro del default del 2002). C'è anche una lista grigia di sospetti paradisi fiscali (38 in tutto), dove figurano Monaco, San Marino, Svizzera e Lussemburgo.
Se il maggiore limite per il micro-Stato è dato da una debolezza produttiva che troppo spesso è stata ed è compensata con più o meno oscure alchimie finanziarie (peraltro stimolate dalla globalizzazione) molti Stati giganti, inevitabilmente multietnici, hanno problemi di tenuta di fronte alle spinte centrifughe della periferia (si pensi a Cina, Russia, India, ma anche Sudan, Nigeria, Congo). In ogni caso chiedersi quali siano le prospettive dello Stato nel XXI secolo impone di analizzare come stiano evolvendo i tre pilastri costituiti da territorio, popolazione e sovranità. Non vanno però trascurati altri elementi che potrebbero aiutare a identificare le più probabili linee di tendenza, alla luce di quel processo di globalizzazione che sta incidendo profondamente sulle relazioni internazionali ma anche su ogni altro tipo di organizzazione umana, fino ad arrivare al singolo individuo.

Da G. Lizza. Scenati, Torino UTET, 2009


lunedì 30 settembre 2019

Lo scontro planetario

Fonte LIMES rivista di geopolitica
info:www.ilmioabbonamento.it

domenica 29 settembre 2019

Migrazione in Italia Bibliografia.

BIBLIOGRAFIA


Testi

·      Berger J.M., Morgan J., “The ISIS twitter census defining and describing the population of ISIS supporters on Twitter”, in The Brooking Project on US relations with the Islamic World, N.20/marzo 2015;
·      Coats D. R., “Worldwide Threat Assessment of the US Intelligence Community”, 2019;
·      Europol, “EU Terrorism Situation and Trend Report TE-SAT”, 2018;
·      Jean C., “Guerra, Strategia e Sicurezza”, Laterza, 2001;
·      Kingsley P., “The New Odyssey: The Story of Europe's Refugee Crisis”, 2016;
·      Maggioni M., Magri P., “Il marketing del terrore. Twitter e jahad: la comunicazione dell'Isis”, 2016;
·      Mastrojeni G., Pasini A., “Effetto serra effetto guerra”, 2017;
·      Napoleoni L., “ISIS. Lo Stato del terrore”, Feltrinelli, 2014;
·      Pisano V.,“Il terrorismo transnazionale dopo l’11 settembre 2001”, in periodico Affari Esteri N.149/2006;
·      Stato Maggiore della Difesa, Nota Dottrinale “La dimensione militare della comunicazione strategica”, ed. 2012;
·      US Department Of State - Bureau Of Counterterrorism And Countering Violent Extremism, “Country Reports Africa on Terrorism 2018”, 2018;
·      Winter C., “Media Jihad: The Islamic State’s Doctrine for Information Warfare”, International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence, 2017;

Articoli
·      Baptista R., “Comunicazione del terrore: impatto sociale e lotta al terrorismo”, in Inside Marketing, 26 luglio 2017;
·      Bastiani D. “Terrorismo e media – La comunicazione del terrore”, in Informazioni della Difesa, N. 2/2012;
·      Cavalcoli D., “Youtube lancia l’algoritmo anti-Isis”, in Corriere della Sera, 28 luglio 2017;
·      Cochi M., “Sahel e Africa Subsahariana”, in Osservatorio Strategico 2018, Anno XX n. I;
·      Dacrema E., “La nuova guerra fredda mediorientale”, in ISPI online, 16 gennaio 2019;
·      Gentili C., “Ciad: l’IOM necessita nuovi fondi per gestire i flussi migratori”, In Sicurezza Internazionale, 9 luglio 2018;
·      Giannetti C., “Migrazioni il cambiamento climatico presenta il conto”, in Gnosis, N.3/2018;
·      Luppi M., “Il Lago Ciad rischia di scomparire: a rischio milioni di persone”, in Agenzia S.I.R., 6 ottobre 2018;
·      Oriolo A., “Pirateria, terrorismo e sicurezza dei mari”, in Rivista Marittima, N.4/2009;
·      Teti A., “Isis e social network – Da Twitter a Facebook passando per Whatsapp e Youtube”, in Gnosis, 4/2015;
·      Teti A., “La cyber guerra del Califfato. Ecco come opera sui social network l’hacker division dell’Isis”, in Il Sole 24 ore, 20 settembre 2015; 
·      Villa M., “Migrazioni e Ue: l’impasse infinita”, in ISPI online, 17 ottobre 2018;
·      Kamel L., “Migranti: flussi, analisi delle cause e proposte di soluzioni”, in Affari Internazionali, 17 febbraio 2018.
Altri siti
·      Blog Coltrinari M., http://www.coltrinariatlanteafrica.blogspot.com/ (accesso gennaio 2019)
·      Global Incident, http://www.globalincidentmap.com/ (accesso dicembre 2018);
·      Global Terror, http://www.globalterroralert.com/ (accesso dicembre 2018);
·      Global Terrorism Database, https://www.start.umd.edu/gtd/ (accesso dicembre 2018);
·      Home Office annual report and accounts: 2016 to 2017, Core data https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/628157/Core_data_tables_2016-17.xlsx;
·      Il post, “Come funziona la propaganda dell’ISIS”, http://www.ilpost.it/2016/01/22/propaganda-isis/, 2016 (accesso ottobre 2018);
·      Il Post, “L’ISIS non si sconfigge così”, http://www.ilpost.it/2017/07/10/isis-perso-guerra/, 2017 (accesso dicembre 2018);
·      Limes, http://www.limesonline.com/ (accesso dicembre 2018);
·      McCaul M., “Empower our Allies to Fight Terrorism in Africa”, https://nationalinterest.org/feature/chairman-michael-mccaul-empower-our-allies-fight-terrorism-africa-30482, 2018 (accesso dicembre 2018);
·      NATO, Defence Against Terrorism Programme of Work (DAT POW),  https://www.nato.int/cps/en/natohq/topics_50313.htm (accesso settembre 2018);
·      “New Prevent strategy launched”, https://www.gov.uk/government/news/new-prevent-strategy-launched (accesso novembre 2018);
The Global Coalition against Daesh, http://theglobalcoalition.org/en/home/ (accesso dicembre 2018).