Crisi Ucraina La chiave di svolta della finlandizzazione Vincenzo Camporini 11/03/2014 |
Solo le prossime settimane ci diranno se la questione Ucraina è destinata a diventare uno spartiacque storico che condizionerà per lungo tempo in modo antagonista Russia da un lato e Stati Uniti ed Europa dall’altro, oppure resterà solo un vistoso ostacolo temporaneo, superato il quale si aprono nuovi - per certi versi inattesi - orizzonti.
Amici o vassalli di Putin
Nella visione putiniana in effetti, la Russia non è impegnata in una politica espansionista, ma al contrario sta difendendo il proprio interesse vitale a non essere relegata fra i comprimari nel grande gioco strategico, un gioco le cui regole l’Occidente postmoderno crede siano solo un retaggio, relegato nei manuali di storia.
La Russia di Putin, che si sente l’erede di una storia millenaria, non è solo l’epigono dell’Unione Sovietica ma continua ad essere il paese più grande del mondo in termini di superficie, e non vuole essere schiacciato a occidente e a oriente da potenze che non riuscirà mai a percepire come amiche, anche perché consapevole delle sue insuperabili debolezze strutturali, dalla demografia in discesa al fatiscente quadro industriale, che non consentono alla dirigenza di Mosca di guardare con ottimismo alle decadi future.
Ne consegue l’ansia di circondarsi di una fascia di paesi in qualche modo legati da un vincolo che, a seconda del punto di vista, si può definire di amicizia o di vassallaggio e viene considerato oggi inaccettabile quanto accaduto all’inizio del secolo, quando, in una fase di estrema debolezza, la Russia ha dovuto inghiottire il boccone amaro dell’adesione alla Nato dei Paesi Baltici.
Non deve sorprendere dunque se oggi, sull’onda di una forza finanziaria generata dalla rendita energetica e rassicurata da quella che percepisce come una crescente debolezza strutturale occidentale, sia in termini economici che militari, Mosca non è più disposta a subire quella che percepisce come un’ulteriore erosione della propria area di sicurezza.
Ucraina al bivio
Quanto accaduto negli ultimi anni e in particolare negli ultimi mesi in Ucraina ha fortemente alimentato le preoccupazioni russe, con una spaccatura tra due fazioni che si sarebbe dovuta evitare e le cui colpe possono essere equamente distribuite: da un lato chi sogna un’impossibile riunificazione con Mosca, percepita come Grande Madre ed a cui è pesantemente legata, non fosse altro che per le forniture energetiche, dall’altro chi invece guarda all’Occidente come il solo attore che possa offrire una prospettiva di futuro sviluppo e di apertura di mercati che possa far rinascere un’economia ansimante. Due visioni percepite come confliggenti e mutuamente esclusive.
L’errore di entrambe le parti, Occidente e Russia, è stato quello di alimentare queste visioni senza cercare sagacemente una sintesi che avrebbe potuto, e potrebbe ancora, portare al superamento di queste opposte visioni: un grave errore, alimentato dalle reciproche diffidenze antiche di quasi un secolo cui è tempo di rimediare.
Non è obbligatorio che Kiev stia da una parte o dall’altra: bisogna trovare una via di mezzo che salvaguardi gli obiettivi a breve di entrambi e costituisca inoltre il fondamento di una futura collaborazione strategica che è storicamente indispensabile, per essere pronti ad affrontare con successo le sfide poste dell’emergere di culture e potenze la cui compatibilità con la visione del mondo che ci appartiene è dubbia e tutta da dimostrare.
Ricordi georgiani
Washington e i partner europei non hanno una visione e conseguentemente una politica del tutto coincidente: si può rammentare il franco dibattito al vertice Nato di Bucarest dell’aprile 2008, tra chi voleva offrire subito a Georgia ed Ucraina l’adesione all’Alleanza e chi era invece su posizioni più prudenti. Ne uscì una promessa che in un futuro da definire le porte si sarebbero aperte, ma la reazione russa non si fece attendere, anche perché innescata da atteggiamenti discutibili della leadership georgiana e nella prima decade di agosto si consumò un breve conflitto con cui Mosca ritenne di avere salvaguardato i propri interessi nella regione.
Peraltro la prova offerta dalle forze armate russe non fu esaltante, nonostante la pochezza dell’avversario e Mosca dovette constatare che la propria macchina militare presentava gravi carenze: a titolo di esempio si può citare il fatto che una gran parte del munizionamento di caduta utilizzato dall’aeronautica russa (le stime vanno da oltre il 50% fino a quasi il 90%) non esplose per la pessima manutenzione delle spolette.
La lezione fu messa a frutto e oggi le forze armate russe godono di una grande attenzione da parte del vertice politico, che sta investendo in modo massiccio sia per l’ammodernamento dei mezzi (più 44% nei prossimi tre anni), sia per rinforzare il morale e il livello di disciplina delle proprie truppe.
Da questa esperienza ci si sarebbe potuto attendere un atteggiamento radicalmente diverso da parte dell’Occidente, non di appeasement, ma propositivo, di superamento di una visione e di una conseguente politica di contrapposizione.
È illuminante l’articolo di qualche giorno fa di Hanry Kissinger sul Washington Post, che sollecita un approccio mirato a attenuare le contrapposizioni interne all’Ucraina, mettendo da parte qualsiasi ipotesi di una sua adesione alla Nato che sarebbe inevitabilmente percepita da Mosca come atto ostile, ma aprendo a un rapporto più stretto con l’Unione europea, secondo uno schema che è stato definito di ‘finlandizzazione’ dell’Ucraina e che ha il potenziale di trasformare Kiev da terreno di scontro della opposte ambizioni (interne ed esterne), a ponte ideale tra Occidente e Mosca, su cui costruire un rapporto basato sulla fiducia e non sulla diffidenza.
Non è una via agevole, anche perché presuppone una convincente azione di ‘moral suasion’ su chi oggi detiene le leve del potere in Ucraina, come su chi soffia sul fuoco delle tendenze separatiste, ma è una via che deve essere seguita con determinazione, in quanto figlia di una visione sensata e fattibile su cui si deve investire, in modo che da questa partita tutti possano uscire come vincitori.
Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello IAI.
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Amici o vassalli di Putin
Nella visione putiniana in effetti, la Russia non è impegnata in una politica espansionista, ma al contrario sta difendendo il proprio interesse vitale a non essere relegata fra i comprimari nel grande gioco strategico, un gioco le cui regole l’Occidente postmoderno crede siano solo un retaggio, relegato nei manuali di storia.
La Russia di Putin, che si sente l’erede di una storia millenaria, non è solo l’epigono dell’Unione Sovietica ma continua ad essere il paese più grande del mondo in termini di superficie, e non vuole essere schiacciato a occidente e a oriente da potenze che non riuscirà mai a percepire come amiche, anche perché consapevole delle sue insuperabili debolezze strutturali, dalla demografia in discesa al fatiscente quadro industriale, che non consentono alla dirigenza di Mosca di guardare con ottimismo alle decadi future.
Ne consegue l’ansia di circondarsi di una fascia di paesi in qualche modo legati da un vincolo che, a seconda del punto di vista, si può definire di amicizia o di vassallaggio e viene considerato oggi inaccettabile quanto accaduto all’inizio del secolo, quando, in una fase di estrema debolezza, la Russia ha dovuto inghiottire il boccone amaro dell’adesione alla Nato dei Paesi Baltici.
Non deve sorprendere dunque se oggi, sull’onda di una forza finanziaria generata dalla rendita energetica e rassicurata da quella che percepisce come una crescente debolezza strutturale occidentale, sia in termini economici che militari, Mosca non è più disposta a subire quella che percepisce come un’ulteriore erosione della propria area di sicurezza.
Ucraina al bivio
Quanto accaduto negli ultimi anni e in particolare negli ultimi mesi in Ucraina ha fortemente alimentato le preoccupazioni russe, con una spaccatura tra due fazioni che si sarebbe dovuta evitare e le cui colpe possono essere equamente distribuite: da un lato chi sogna un’impossibile riunificazione con Mosca, percepita come Grande Madre ed a cui è pesantemente legata, non fosse altro che per le forniture energetiche, dall’altro chi invece guarda all’Occidente come il solo attore che possa offrire una prospettiva di futuro sviluppo e di apertura di mercati che possa far rinascere un’economia ansimante. Due visioni percepite come confliggenti e mutuamente esclusive.
L’errore di entrambe le parti, Occidente e Russia, è stato quello di alimentare queste visioni senza cercare sagacemente una sintesi che avrebbe potuto, e potrebbe ancora, portare al superamento di queste opposte visioni: un grave errore, alimentato dalle reciproche diffidenze antiche di quasi un secolo cui è tempo di rimediare.
Non è obbligatorio che Kiev stia da una parte o dall’altra: bisogna trovare una via di mezzo che salvaguardi gli obiettivi a breve di entrambi e costituisca inoltre il fondamento di una futura collaborazione strategica che è storicamente indispensabile, per essere pronti ad affrontare con successo le sfide poste dell’emergere di culture e potenze la cui compatibilità con la visione del mondo che ci appartiene è dubbia e tutta da dimostrare.
Ricordi georgiani
Washington e i partner europei non hanno una visione e conseguentemente una politica del tutto coincidente: si può rammentare il franco dibattito al vertice Nato di Bucarest dell’aprile 2008, tra chi voleva offrire subito a Georgia ed Ucraina l’adesione all’Alleanza e chi era invece su posizioni più prudenti. Ne uscì una promessa che in un futuro da definire le porte si sarebbero aperte, ma la reazione russa non si fece attendere, anche perché innescata da atteggiamenti discutibili della leadership georgiana e nella prima decade di agosto si consumò un breve conflitto con cui Mosca ritenne di avere salvaguardato i propri interessi nella regione.
Peraltro la prova offerta dalle forze armate russe non fu esaltante, nonostante la pochezza dell’avversario e Mosca dovette constatare che la propria macchina militare presentava gravi carenze: a titolo di esempio si può citare il fatto che una gran parte del munizionamento di caduta utilizzato dall’aeronautica russa (le stime vanno da oltre il 50% fino a quasi il 90%) non esplose per la pessima manutenzione delle spolette.
La lezione fu messa a frutto e oggi le forze armate russe godono di una grande attenzione da parte del vertice politico, che sta investendo in modo massiccio sia per l’ammodernamento dei mezzi (più 44% nei prossimi tre anni), sia per rinforzare il morale e il livello di disciplina delle proprie truppe.
Da questa esperienza ci si sarebbe potuto attendere un atteggiamento radicalmente diverso da parte dell’Occidente, non di appeasement, ma propositivo, di superamento di una visione e di una conseguente politica di contrapposizione.
È illuminante l’articolo di qualche giorno fa di Hanry Kissinger sul Washington Post, che sollecita un approccio mirato a attenuare le contrapposizioni interne all’Ucraina, mettendo da parte qualsiasi ipotesi di una sua adesione alla Nato che sarebbe inevitabilmente percepita da Mosca come atto ostile, ma aprendo a un rapporto più stretto con l’Unione europea, secondo uno schema che è stato definito di ‘finlandizzazione’ dell’Ucraina e che ha il potenziale di trasformare Kiev da terreno di scontro della opposte ambizioni (interne ed esterne), a ponte ideale tra Occidente e Mosca, su cui costruire un rapporto basato sulla fiducia e non sulla diffidenza.
Non è una via agevole, anche perché presuppone una convincente azione di ‘moral suasion’ su chi oggi detiene le leve del potere in Ucraina, come su chi soffia sul fuoco delle tendenze separatiste, ma è una via che deve essere seguita con determinazione, in quanto figlia di una visione sensata e fattibile su cui si deve investire, in modo che da questa partita tutti possano uscire come vincitori.
Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello IAI.
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