Immigrazione L’Odissea della guerra alla tratta Enza Roberta Petrillo 27/02/2014 |
“Reclutare, trasferire, custodire o accogliere persone, per sfruttarle lavorativamente o sessualmente, ricorrendo ad azioni illecite quali inganno, minacce o coercizione”. A mettere nero su bianco, per la prima volta, gli elementi distintivi della tratta di esseri umani è stato il Protocollo di Palermo, il documento addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale. Correva l’anno 2000. Quattordici anni dopo, la guerra alla tratta non è stata ancora vinta.
Mappa delle criticità
“Malgrado tutti i progressi economici e politici, non siamo riusciti a contenere questa nuova forma di schiavitù”. Parola di Thorbjørn Jagland, Segretario generale del Consiglio dEuropa, istituzione che insieme all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) ha di recente promosso una conferenza volta a mappare criticità e prospettive della lotta alla tratta di esseri umani. Difficile dissentire: secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, a livello mondiale, sono almeno 20,9 milioni gli uomini, le donne e i bambini vittime di lavoro forzato o sottomessi all’arbitrio di datori di lavoro o di intermediari che procacciano i contratti.
Sebbene nella gran parte dei casi il percorso migratorio inizi volontariamente, è il debito contratto con i trafficanti a trasformare i migranti in lavoratori forzati e a ridurli in schiavitù. Di questi, 4,5 milioni subiscono forme di sfruttamento sessuale. Mentre i restanti 16,4 milioni sono costretti a lavorare in settori come agricoltura, pastorizia, edilizia o lavoro di cura, dove e più alta la domanda di lavoro a basso costo e sono più radicati i processi di informalizzazione.
Il profilo sociale ed economico dell’umanità che finisce nella spirale della tratta restituisce fedelmente la geopolitica della disuguaglianza globale: l’81% dei trafficati è rappresentato da donne e minori reclutati in paesi gravati da disoccupazione, povertà, fragilità dei sistemi di welfare, transizioni istituzionali e debolezza dello stato di diritto. Europa orientale e sud-orientale, Africa, Asia, America latina. Da qui parte il grosso dei lavoratori forzati che finiscono nei cicli produttivi e nelle economie illecite dei paesi a sviluppo avanzato.
Flussi di persone che si differenziano in base alla tipologia di sfruttamento, alla provenienza delle vittime e alle esigenze logistiche dei gruppi criminali coinvolti. C’è l’est europeo, bacino di reclutamento di donne e minori trafficati per sfruttamento sessuale e accattonaggio organizzato. E ci sono l’Asia e l’Africa da cui partono i migranti cooptati nel lavoro forzato.
Giro d’affari
Il giro d’affari, ovvio a dirsi, è enorme. Secondo la Commissione europea, la tratta, con i suoi 32 miliardi di dollari di fatturato annuo, è la seconda fonte di utili per le organizzazioni criminali dopo il traffico di stupefacenti. Cifra, ovviamente al ribasso, perché l’unico dato certo ad oggi, è che della struttura criminale del traffico di esseri umani e dei suoi attori chiave se ne sa ancora troppo poco.
La difficile mappatura del fenomeno non è data soltanto dalla sua natura sommersa, ma dall’assenza di informazioni relative al pulviscolo di organizzazioni di piccola e media taglia, passeur, intermediari e datori di lavoro conniventi che operano nel settore: una combinazione di soggetti disparati che tratteggiano una geografia criminale fluida, flessibile e ad alta capacità di infiltrazione e mimetismo, difficile da identificare per gran parte delle polizie internazionali.
In questo contesto, non stupisce che il numero di arresti, processi e condanne ai trafficanti sia da anni, drasticamente al di sotto di quello delle vittime accertate. La Commissione europea ha calcolato che all’interno dell’Unione tra il 2008 e il 2010, le condanne dei trafficanti sono diminuite del 13%, a fronte di un aumento del 18% delle persone trafficate. Un cortocircuito ascrivibile anche all’applicazione disomogenea e parziale della “protezione sociale” accordata alle vittime in tutta l’area comunitaria dalla direttiva anti-tratta del 2011.
Nonostante Bruxelles abbia più volte richiamato la centralità della loro tutela, in molti stati membri, le vittime solo di rado sono riconosciute come tali. Condannate o espulse per le attività illecite commesse durante il periodo di lavoro forzato, queste si ritrovano a dover fronteggiare un processo di criminalizzazione che scoraggia la collaborazione giudiziaria e mina alle radici le strategie di contrasto.
Intanto, questa economia criminale continua a espandersi. L’ultimo rapporto Europol parla chiaro: il traffico transnazionale di esseri umani non risparmia nessuno. Tantomeno l’Ue, dove il Parlamento europeo ha stimato nel 2013, 880 mila lavoratori forzati. Un contesto in cui l’Italia primeggia per numero di vittime: 2.381 i casi accertati nel 2010 rispetto ai 1.624 del 2008.
Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc presso l’Università La Sapienza di Roma, esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri (enzaroberta.petrillo@uniroma1.it)
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Mappa delle criticità
“Malgrado tutti i progressi economici e politici, non siamo riusciti a contenere questa nuova forma di schiavitù”. Parola di Thorbjørn Jagland, Segretario generale del Consiglio dEuropa, istituzione che insieme all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) ha di recente promosso una conferenza volta a mappare criticità e prospettive della lotta alla tratta di esseri umani. Difficile dissentire: secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, a livello mondiale, sono almeno 20,9 milioni gli uomini, le donne e i bambini vittime di lavoro forzato o sottomessi all’arbitrio di datori di lavoro o di intermediari che procacciano i contratti.
Sebbene nella gran parte dei casi il percorso migratorio inizi volontariamente, è il debito contratto con i trafficanti a trasformare i migranti in lavoratori forzati e a ridurli in schiavitù. Di questi, 4,5 milioni subiscono forme di sfruttamento sessuale. Mentre i restanti 16,4 milioni sono costretti a lavorare in settori come agricoltura, pastorizia, edilizia o lavoro di cura, dove e più alta la domanda di lavoro a basso costo e sono più radicati i processi di informalizzazione.
Il profilo sociale ed economico dell’umanità che finisce nella spirale della tratta restituisce fedelmente la geopolitica della disuguaglianza globale: l’81% dei trafficati è rappresentato da donne e minori reclutati in paesi gravati da disoccupazione, povertà, fragilità dei sistemi di welfare, transizioni istituzionali e debolezza dello stato di diritto. Europa orientale e sud-orientale, Africa, Asia, America latina. Da qui parte il grosso dei lavoratori forzati che finiscono nei cicli produttivi e nelle economie illecite dei paesi a sviluppo avanzato.
Flussi di persone che si differenziano in base alla tipologia di sfruttamento, alla provenienza delle vittime e alle esigenze logistiche dei gruppi criminali coinvolti. C’è l’est europeo, bacino di reclutamento di donne e minori trafficati per sfruttamento sessuale e accattonaggio organizzato. E ci sono l’Asia e l’Africa da cui partono i migranti cooptati nel lavoro forzato.
Giro d’affari
Il giro d’affari, ovvio a dirsi, è enorme. Secondo la Commissione europea, la tratta, con i suoi 32 miliardi di dollari di fatturato annuo, è la seconda fonte di utili per le organizzazioni criminali dopo il traffico di stupefacenti. Cifra, ovviamente al ribasso, perché l’unico dato certo ad oggi, è che della struttura criminale del traffico di esseri umani e dei suoi attori chiave se ne sa ancora troppo poco.
La difficile mappatura del fenomeno non è data soltanto dalla sua natura sommersa, ma dall’assenza di informazioni relative al pulviscolo di organizzazioni di piccola e media taglia, passeur, intermediari e datori di lavoro conniventi che operano nel settore: una combinazione di soggetti disparati che tratteggiano una geografia criminale fluida, flessibile e ad alta capacità di infiltrazione e mimetismo, difficile da identificare per gran parte delle polizie internazionali.
In questo contesto, non stupisce che il numero di arresti, processi e condanne ai trafficanti sia da anni, drasticamente al di sotto di quello delle vittime accertate. La Commissione europea ha calcolato che all’interno dell’Unione tra il 2008 e il 2010, le condanne dei trafficanti sono diminuite del 13%, a fronte di un aumento del 18% delle persone trafficate. Un cortocircuito ascrivibile anche all’applicazione disomogenea e parziale della “protezione sociale” accordata alle vittime in tutta l’area comunitaria dalla direttiva anti-tratta del 2011.
Nonostante Bruxelles abbia più volte richiamato la centralità della loro tutela, in molti stati membri, le vittime solo di rado sono riconosciute come tali. Condannate o espulse per le attività illecite commesse durante il periodo di lavoro forzato, queste si ritrovano a dover fronteggiare un processo di criminalizzazione che scoraggia la collaborazione giudiziaria e mina alle radici le strategie di contrasto.
Intanto, questa economia criminale continua a espandersi. L’ultimo rapporto Europol parla chiaro: il traffico transnazionale di esseri umani non risparmia nessuno. Tantomeno l’Ue, dove il Parlamento europeo ha stimato nel 2013, 880 mila lavoratori forzati. Un contesto in cui l’Italia primeggia per numero di vittime: 2.381 i casi accertati nel 2010 rispetto ai 1.624 del 2008.
Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc presso l’Università La Sapienza di Roma, esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri (enzaroberta.petrillo@uniroma1.it)
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