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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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lunedì 30 novembre 2015

Siria ed Iraq al centro degli interessi internazionali

di Alessandro Ugo Imbriglia

In Siria, nelle ultime settimane, le potenze sunnite hanno fornito missili anticarro a gruppi dell’Esercito Siriano Libero e del Fronte Islamico, mentre non si dimostra efficace l’offensiva delle forze armate del regime, sostenute dal supporto logistico e militare iraniano oltre che dai raid russi. Dunque il piano di Vladimir Putin, finalizzato a facilitare lo scontro tra Assad e i jihadisti per aumentare il potere di contrattazione del regime in un eventuale patto con la comunità internazionale, si sta rivelando più complicato del previsto. La Russia vorrebbe svolgere un ruolo da protagonista nella soluzione della crisi, perché ne uscirebbe rafforzata sul piano del prestigio, consolidando la propria posizione in Medio Oriente. Per tal motivo sta rafforzando i contatti con le altre potenze internazionali, lasciando intendere che la resistenza potrebbe partecipare al negoziato. La Russia sarebbe favorevole ad un passo indietro del presidente siriano dopo le elezioni, mentre Stati Uniti, Arabia Saudita e Turchia sosterrebbero le elezioni solo dopo l’uscita di scena di Assad. Nel frattempo, sul fronte iracheno, l’esercito e le tribù sunnite locali hanno sottratto il 40 per cento della provincia di Ramadi, a circa 127 chilometri a ovest di Baghdad, al gruppo Stato Islamico, compreso l’impianto di raffinazione di Baiji. La provincia di Ramadi si estende per 138.500 chilometri quadrati nella parte occidentale del paese, e prima del conflitto aveva un milione e mezzo di abitanti. Una seconda operazione via terra, condotta dai peshmerga e coaudivata dalle forze statunitensi è stata effettuata a sette chilometri a nord dalla città di Hawija,  nell’area occidentale dell’Iraq, al confine con il Kurdistan iracheno, e ha condotto alla liberazione di circa settanta ostaggi che stavano per essere giustiziati. Era  previsto che le truppe statunitensi si limitassero a fornire consulenza ai combattenti curdi, ma sono intervenute sul campo a causa delle difficoltà incontrate dal contingente curdo. Durante l’incursione ha perso la vita un militare statunitense, il primo da quando il presidente Obama ha ordinato il ritiro delle truppe dall’Iraq nel 2011. Inoltre è la prima volta che un soldato americano perde la vita in un combattimento sul terreno contro il gruppo Stato islamico. Il soldato è stato colpito a Hawija e poi trasportato all’ospedale di Erbil, dove è deceduto. A questo punto  sarà fondamentale per le forze irachene consolidare le due vittorie e giungere ad una riconciliazione con gli abitanti dei territori sottratti al controllo dello Stato Islamico. Una fonte del ministero della difesa iracheno ha rivelato che il governo iracheno non era stato informato dell’operazione di salvataggio. In questo quadro complicato gli Stati Uniti provano a coniugare gli interessi delle forze curde con gli obiettivi delle autorità irachene, che combattono entrambe contro lo Stato islamico, nonostante l’equilibrio precario che ha contraddistinto da sempre i loro rapporti. Dall’anno scorso diversi consiglieri militari e istruttori statunitensi sono tornati in alcune zone dell’Iraq per addestrare le truppe irachene e i combattenti curdi. A questo punto  sarà fondamentale per le forze curde ed irachene consolidare le due vittorie e giungere ad una riconciliazione con gli abitanti dei territori sottratti al controllo dello Stato Islamico.
27 ottobre 2015
Alessandro Ugo Imbriglia
uogo1990@hotmail.it



venerdì 27 novembre 2015

La Guerra al Califfato


Tutti per uno? La Francia invoca la clausola europea di difesa
Marco Gestri
23/11/2015
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Una novità assoluta. A portarla è stata l’invocazione, da parte della Francia, dell’art. 42 del trattato sull'Unione europea, ovvero la clausola di difesa collettiva.

Introdotta nell’Unione europea, Ue, col Trattato di Lisbona, si tratta di una disposizione analoga a quella che era prevista dall’art. V del Trattato del 1948 istitutivo dell’Ueo, estinto nel 2010 dai dieci Stati parti. L’idea di una norma sulla difesa collettiva nell’Ue, venne elaborata dalla Convenzione che presentò il Progetto di Trattato/Costituzione, firmato nel 2004, ma mai entrato in vigore.

Clausola di difesa collettiva e clausola di solidarietà
Il comma 7 dell’art. 42 stabilisce che “qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso”, in conformità coll’art. 51 della Carta Onu. Condizione d’attivazione è un’aggressione armata.

Da notare che una norma distinta (art. 222 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, Tfue) stabilisce una clausola di solidarietà europea con specifico riferimento ad attacchi terroristici.

La scelta francese d’invocare l’art. 42.7 sembra comunque legittima, ed è stata accolta unanimemente dagli altri membri, a conferma che anche un attacco terroristico sferrato da entità non statali, qualora proveniente dall’esterno e di particolare gravità, può esser qualificato “aggressione armata”.

L’articolo 222 del Tfue
Come si può però spiegare il mancato ricorso all’art. 222 Tfue? Quest’ultimo ha una dimensione essenzialmente interna, assicurando un’assistenza allo Stato vittima sul suo territorio, mentre la Francia richiede un aiuto anche all’esterno (ma a mio avviso le due clausole potrebbero comunque esser invocate simultaneamente).

Soprattutto, a differenza dell’art. 42.7, il meccanismo previsto dall’art. 222 prevede un obbligo di solidarietà non solo tra gli Stati membri ma anche da parte dell’Ue e, conseguentemente, un coinvolgimento diretto delle istituzioni europee (le modalità sono definite dalla Decisione Ue 2014/415).

Secondo alcuni commentatori, la Francia avrebbe evitato l’attivazione dell’art. 222 per mantenere un pieno controllo della crisi.

Inoltre, la clausola di solidarietà viene invocata quando lo Stato interessato “ritiene che la crisi oltrepassi chiaramente la sua capacità di reazione”.

Clausola europea e Nato
Potrebbe apparire sorprendente il fatto che la Francia abbia deciso d’invocare la clausola di difesa europea e non l’art. 5 del Trattato Nato (attivato dagli Usa dopo l’11 settembre). È un luogo comune che mentre la Nato assicura procedure e mezzi efficaci, la clausola europea avrebbe una portata più simbolica che operativa, non avendo l’Ue capacità militari.

Sul piano politico, la scelta conferma la volontà della Francia di sostenere lo sviluppo di una politica europea di difesa, per certi versi autonoma rispetto alla Nato (e agli Usa). Anche se lo stesso art. 42.7 afferma, per gli Stati Ue membri della Nato, il carattere prioritario dell’Alleanza quale meccanismo di difesa collettiva ed è ragionevole pensare che la scelta francese sia stata operata con un qualche coinvolgimento della Nato (il cui Segretario generale ha partecipato al Consiglio Ue).

Ma al di là del suo significato politico, evidenziato dall’Alto rappresentante Federica Mogherini e dal Ministro della difesa francese Jean-Yves Le Drian, quale l’impatto della clausola?

Cercasi assistenza concreta 
L’art. 42.7 stabilisce un obbligo giuridico per gli altri Stati membri di prestare aiuto e assistenza (anche se, trattandosi di politica estera e sicurezza, essi non possono esser chiamati a risponderne di fronte alla Corte Ue). Si tratta poi di un obbligo qualificato.

Ogni Stato deve valutare i mezzi in suo possesso e il generico riferimento a “aiuto e assistenza” implica che sussiste un margine di discrezionalità e uno Stato non ha l’obbligo di partecipare direttamente a missioni armate.

Inoltre, l’obbligo non pregiudica il carattere specifico della politica di difesa di taluni membri (neutralità ma anche obblighi costituzionali di ottenere il consenso del parlamento nazionale per azioni armate).

Dunque, gli altri Stati dovranno “fare qualcosa” per assistere la Francia, ma la precisa individuazione dei mezzi più appropriati per assolvere a tale obbligo resta affidata al singolo Stato. Questi dovrà comunque decidere secondo buona fede e alla luce di negoziati bilaterali colla Francia.

Dalle dichiarazioni del Ministro Le Drian emerge che non viene richiesto un sostegno puramente simbolico, ma un’assistenza concreta che, secondo modalità da concordare caso per caso, potrà declinarsi in una cooperazione nei riguardi delle operazioni francesi in Siria e Iraq ovvero in interventi di supplenza rispetto al ruolo della Francia su altri scenari (Africa, Libano).

Per il momento, al di là della solidarietà dichiarata, tra molti partner europei, inclusa l’Italia, sembra prevalere la prudenza (se non l’attendismo).

Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe.
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venerdì 20 novembre 2015

Un Problema urgente

Immigrazione
A La Valletta per recuperare il tempo perduto
Bruno Nascimbene
10/11/2015
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Il vertice internazionale che si terrà a La Valletta l’11-12 novembre 2015 per discutere dei profili più urgenti e problematici relativi alla tematica dell’immigrazione rappresenta l’occasione per formulare alcuni rilievi e proposte in argomento.

L’appuntamento vedrà la partecipazione, oltre che degli Stati membri dell’Unione europea, Ue, di organizzazioni internazionali e regionali, quali le Nazioni Unite, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, l’Unione africana, nonché di rappresentanti di vari Stati africani e di altri Paesi particolarmente interessati dal fenomeno migratorio, quali sono, in particolare, i Paesi partecipanti ai processi di cooperazione denominati “processo di Rabat” e “processo di Karthoum”, di cui si dirà oltre.

La decisione di convocare un vertice internazionale è stata presa all’esito del Consiglio europeo del 23 aprile 2015, riunito in via straordinaria in seguito ai tragici eventi verificatisi nel Mediterraneo.

La Dichiarazione adottata dal Consiglio propone, nel più ampio contesto della necessità di prevenire i flussi migratori illegali, di “rafforzare la cooperazione politica con i partner africani a tutti i livelli per affrontare la causa della migrazione illegale e contrastare il traffico e la tratta di esseri umani”, dedicando appunto un vertice ad hoc a Malta.

Affrontare l’evoluzione del fenomeno migratorio
Il vertice sull’immigrazione di La Valletta si propone pertanto da un lato di elaborare risposte condivise che vadano alla radice del problema e che si pongano quali programmi d’azione incisivi nel lungo termine; dall’altro di ricercare soluzioni più immediate da offrire alla recente evoluzione del fenomeno migratorio.

Si vogliono, insomma, studiare soluzioni comuni per affrontare sfide che sono di interesse reciproco: per la Ue e per lo sviluppo dei Paesi africani che saranno coinvolti direttamente e attivamente.

Il vertice si pone nel quadro di altra recente iniziativa, di carattere europeo-internazionale: la Conferenza sulla rotta Mediterraneo-Balcani occidentali tenutasi l’8 ottobre che ha coinvolto, oltre ai Paesi Ue (e dello Spazio economico europeo) vari organismi internazionali (Alto Commissariato per i rifugiati, Organizzazione internazionale per le migrazioni) ed europei (Frontex, Easo), oltre che vari Paesi di provenienza dei migranti.

La presa di coscienza della pressione migratoria, che è globale ed internazionale, è avvenuta con colpevole ritardo da parte della Commissione, pur appartenendo al programma politico del presidente della Commissione Juncker, ove la gestione della migrazione era indicata come una delle priorità.

Il programma, del 15 luglio 2014, ha dovuto attendere molti mesi perché si concretizzasse in un documento formale denominato “Agenda europea sulla migrazione” (del 13 maggio 2015, COM[2015]240), che fa seguito alla ricordata dichiarazione del Consiglio europeo straordinario e a una risoluzione, del 29 maggio 2015, del Parlamento europeo.

Obiettivi del vertice di La Valletta
Il vertice di La Valletta si propone, dunque, ambiziosi obiettivi.

Secondo le conclusioni del Consiglio europeo del 25-26 giugno 2015, precisamente, si vuole:

a) garantire assistenza ai Paesi partner nella lotta ai trafficanti (lotta comune, peraltro, alle finalità della Conferenza di alto livello prima ricordata);
b) rafforzare la cooperazione per quanto riguarda una efficace politica di rimpatrio;
c) migliorare la cooperazione allo sviluppo e il potenziamento degli investimenti in Africa, perché siano esaminate le “cause profonde” (in questi termini le conclusioni, punto 7c) della migrazione e siano fornite opportunità economiche e sociali. Il traffico e la tratta di esseri umani, la previsione di efficaci sanzioni penali dovrebbero essere al centro del dibattito.

Gli Stati coinvolti hanno assunto, in una dichiarazione ad hoc, una serie di impegni che, pur non creando diritti ed obblighi di diritto internazionale, e quindi non incidendo sulla sovranità nazionale degli Stati, ha un importante valore politico.

Sono indicate priorità legate allo sviluppo, alla cooperazione economica, ai vantaggi di una migrazione regolare.

Parimenti il processo di Rabat si propone la realizzazione di un dialogo politico euro-africano sulla migrazione e sullo sviluppo, coordinando, attraverso uno specifico comitato (“Comité de pilotage”) di cui fa parte anche l’Italia, le iniziative e gli organismi nazionali.

Il dialogo coinvolge ventisette Paesi africani (più l’Algeria, osservatore) e trentuno Paesi europei, nonché la Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao) e la Commissione europea.

La quarta Conferenza di tale processo, tenutasi a Roma il 27 novembre scorso ha adottato una dichiarazione politica cui è allegato un programma che definisce il quadro operativo del processo per il 2015-2017. Le due dichiarazioni dei ricordati processi assumono un significato rilevante (a un anno di distanza da quando sono state adottate), per i lavori del vertice di La Valletta.

In questo ampio quadro internazionale, l’Ue è chiamata a svolgere un ruolo di primo piano, anche attraverso l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

Gli orientamenti espressi nelle conclusioni dei Consigli europei, prima ricordate, nonché nel programma oggetto dell’Agenda della Commissione, sono coerenti con le finalità che i temi delle migrazioni e dell’asilo pongono a quel livello internazionale di cui è (e sarà) espressione il vertice.

L’impegno europeo non è sufficiente: la Conferenza ad alto livello, prima, e il vertice di La Valletta, poi, dimostrano la necessità di un quadro decisionale internazionale. Se ne è reso conto il Parlamento europeo che in una risoluzione del 10 settembre 2015 “sulle migrazioni e i rifugiati in Europa” ha chiesto alla Commissione e all’Alto rappresentante di convocare una conferenza internazionale sulla crisi dei rifugiati, con la partecipazione di agenzie, organismi internazionali, Ong, Paesi arabi, Stati Uniti, perché sia posta allo studio e sia adottata una strategia di aiuto umanitario e globale.

Il ruolo del nostro Paese al vertice di La Valletta dovrebbe essere quello di un vero e proprio protagonista nel processo di dialogo e cooperazione con i Paesi del Nordafrica, considerato il ruolo svolto e in corso di svolgimento nel processo di Khartoum e in quello di Rabat.

L’auspicio, dunque, è nel senso di un ruolo attivo ed efficace nel più vasto quadro delle relazioni internazionali.

Bruno Nascimbene è ordinario di diritto dell’Unione europea nell’Università di Milano.
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mercoledì 18 novembre 2015

La FED non tocca i tassi

Economia
Politica monetaria: quel bazooka da usare con prudenza
Marco Magnani
08/11/2015
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Ancora una volta. La Federal Open Market Committee della Fed ha deciso di lasciare invariati i tassi di interesse e la possibilità di un rialzo il 15-16 dicembre è consistente.

Tuttavia, le incertezze mostrate dalla Banca Centrale americana negli ultimi mesi sulla tempistica dell’inevitabile stretta monetaria hanno suscitato critiche e divisioni, anche all’interno della Fed. Le dichiarazioni pubbliche di alcuni membri del Board devono aver procurato a Janet Yellen un certo disagio. Il mestiere del banchiere centrale non è più quello di una volta.

Sono finiti i tempi in cui attivando poche leve s’indirizzavano le economie nazionali. Le relazioni causa-effetto erano abbastanza prevedibili e l’impatto sul resto del mondo relativamente limitato.

Oggi la maggiore complessità e l’elevata interdipendenza delle economie mondiali rendono tutto più difficile, anche in politica monetaria. Le decisioni prese dalla Fed a Washington sono attese con più ansia a Pechino, Rio de Janeiro e Mosca, di quanto non lo siano a Detroit o a Minneapolis.

Le iniziative della Banca centrale europea, Bce, a Francoforte possono cambiare gli equilibri, economici ma anche politici, di Atene, Roma e Madrid.

Politica monetaria sempre meno “convenzionale”: dalle frecce al bazooka
Le difficoltà iniziano dagli strumenti. La complessità dell’economia odierna rende quelli tradizionali - tasso di sconto, coefficiente di riserva obbligatorio e operazioni sul mercato aperto - meno efficaci e la trasmissione di stimoli all’economia reale più difficile da prevedere.

Basti pensare alla dimensione raggiunta dal shadow banking - l’intermediazione al di fuori del sistema bancario tradizionale - che rende arduo conoscere la quantità di moneta in circolazione e meno efficace l’uso di strumenti convenzionali.

Inoltre, in una situazione di tassi d’interesse prossimi allo zero (zero lower bound) alcune delle frecce nella faretra delle Banche Centrali si rivelano spuntate. Perciò si è fatto ricorso al bazooka del Quantitative Easing, Qe, una misura non convenzionale con il duplice obiettivo di aumentare l’offerta di moneta e stabilizzare il mercato del credito. Da fine 2008, in sei anni di Qe la Fed ha iniettato nell’economia statunitense 4,5 trilioni di dollari, circa il 25% del Pil.

Obiettivi nazionali, conseguenze internazionali
Gli esempi delle conseguenze derivanti dalla forte connessione fra politiche monetarie non mancano. E per la Fed il fenomeno è accentuato, essendo il dollaro la valuta di riserva mondiale.

La riduzione dei tassi della Bce nel 2003-05 è stata in parte influenzata dalla precedente politica monetaria espansiva della Fed nel 2002-04, a sua volta reazione alla recessione Usa del 2001. Il denaro facile nell’eurozona ha contribuito alle successive bolle immobiliari in Grecia, Irlanda e Spagna, le cui conseguenze economiche, sociali e politiche non sono ancora esaurite.

La politica monetaria espansiva iniziata dalla Fed a fine 2008 è stata imitata da vari paesi emergenti per evitare perdite di competitività. John Taylor di Stanford stima che dopo il Qe Usa 18 Banche Centrali - tra cui Brasile, Cina, India, Messico, Turchia - hanno mantenuto in media i tassi d’interesse 5 punti percentuali al di sotto di quanto vari benchmark di politica monetaria suggerivano.

L’effetto del cambiamento climatico sulla stabilità finanziaria 
La speculazione riguarda anche le materie prime, i cui prezzi sono raddoppiati nel periodo 2009-11. La perdita di valore del dollaro, conseguenza del Qe di Ben Bernanke, ha contribuito all’aumento dei prezzi di prodotti agricoli.

La FAO ne ha denunciato il picco storico a fine 2010. L’impatto è stato particolarmente duro nei paesi in via di sviluppo, dove la quota di reddito pro-capite destinata al cibo è elevata.

Senza arrivare ad imputare eccessive responsabilità alle decisioni della Fed, è un dato di fatto che la “primavera araba” inizia in Tunisia ed Egitto nel 2011 con manifestazioni di protesta per l’aumento dei prezzi di prodotti alimentari, che in questi paesi assorbono il 50-60% del reddito medio contro il 2-3% nei paesi europei.

Le recenti parole del governatore della Bank of England, Mark Carney, sull’impatto del cambiamento climatico sulla stabilità finanziaria, dimostrano che anche fenomeni apparentemente estranei alla politica monetaria quali l’ambiente sono oggetto di attenzione da parte dei banchieri centrali.

Stretta monetaria e fragilità dei Brics
Con l’economia Usa tornata a crescere, la Fed si appresta ad aumentare il costo del denaro. Le ripercussioni saranno diffuse e forse non solo economiche. Il rialzo dei tassi riporterà capitali negli Stati Uniti, sottraendo investimenti alle economie emergenti e svalutando le loro valute rispetto al dollaro. Il rafforzamento della valuta Usa renderà più pesanti e onerosi i debiti denominati in dollari di paesi e multinazionali straniere.

Oltre il 70% del debito pubblico in valuta in Asia e America Latina è in dollari. Tra i paesi più esposti anche Russia, Ucraina, Turchia, Brasile, Sud Africa, già segnati da rallentamenti dell’economia e tensioni politiche. Le conseguenze, anche in termini di stabilità interna e di equilibri internazionali, sono difficili da prevedere.

Il rischio si estende al settore privato. Multinazionali come la russa Gazprom, la cinese Cnooc, le brasiliane Petrobras e Vale, l’indiana Tata hanno oltre il 50% del debito in dollari. La Banca dei regolamenti internazionali stima i debiti in dollari di società non finanziarie di paesi emergenti in 9.000 miliardi (+50% in 5 anni).

Anche se non si può imputare alle Banche Centrali la responsabilità di crisi economiche, instabilità politiche e cambi di regime, la maggiore complessità e interdipendenza delle economie mondiali rende difficile stimare l’impatto e prevedere gli effetti collaterali della politica monetaria.

Le decisioni delle Banche Centrali non sono più frecce scoccate con precisione verso un bersaglio economico definito, ma sempre più spesso potenti colpi di bazooka. Da maneggiare con prudenza!

Marco Magnani è docente di Monetary & Financial Economics alla Luiss e non-resident fellow dello IAI. Come Senior Research Fellow a Harvard Kennedy School ha pubblicato “Sette Anni di Vacche Sobrie” con Utet e “Creating Economic Growth” con Palgrave Mamillan (www.magnanimarco.com. twitter @marcomagnan1).
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martedì 10 novembre 2015

Cesena. Conferenza. 23 ottobre 2015

L’incontro si è svolto  nella sala Vaienti gremitissima incentrato sul concetto di caoslandia. In una visione globale, oggi il mondo si presenta in due parti ben distinte: una serie di Stati, che hanno il potere di decidere che sono in aree di sicurezza, stabili e in piene pace: sono Gli Stati Uniti, l’Europa, la Cina La Russia, l’India ed il Sud Africa, a cui si deve aggiungere i Brasile ed il resto dei paesi della America Latina meridionale. Il resto è una regione in cui non esiste più lo stato come tale, imperversa la guerra, la violenza, la mancanza di sicurezza, la certezza del diritto; in cui vi sono fenomeni estesi di corruzione, criminalità organizzata, archi di crisi, di conflitti e di tensioni, pirateria, dove le popolazioni cercano in ogni modo di sfuggire, dando origini a fenomeni migratori di larghissime proporzioni. Area che definiamo Caoslandia


Se vediamo che l’Islam presenta cinque colori, ci risulta che abbiamo  l’Islam Nero, l.Islam Arabo, L’Islam Russo-Mongolo, L’Ilam Iraniano Indiano e l’Islam Indonesiamo.

Confrontiamo le due carte vediamo che tutto il mondo islamico è in pieno caos.

La cartina descrive i confini di caoslandia. I maggiori fenomeni si riscontrano in alcune aree che ancora chhiamiano con il vecchio nome di Stati, ma che tali non sono più.

Siria, che ormai come stato si è diviso in almeno quattro nuove entità sottostatuali: quello che rimane dello stato di Assad, arroccato sull’asse Aleppo Damasco, nell’area a maggioranza aluita appoggiato e difeso dalla Russia, che vuole mantenere in attività le sue basi a Tartus e Latakia, , che potremo definire non più Siria, ma “Aluitistan”; la Siria in mano alle forze ribelli al già potere centrale, la cui configurazione è tutta da definire; la Siria Curda, che si allaccia alla area curda  dell’Iraq, con ideali e concreti collegamenti con i curdi in Turchia e in Iran, ovvero quelle componenti del Kurdistan che è nei sogni ed aspirazioni di tutti i Curdi dalla dissoluzione dell’impero Ottomano. Infine la Siria in mano allo Stato Islamico, come da cartina 2, che occupa l’area per lo più desertica della ex Siria, ma che ha l’appoggio delle popolazioni locali che non accettano più l’autorità, da sempre lontana, ne di Damasco ne di Bagdad.

Libia: in mano a tre entità: quella tripolitina, quella cirenaica, e quella del derseto meridionale3, per essere ottimistici, ma che in realtà la frantumazione si è attestata nel sottostato tra le principali tribu e clan .

Israele: l’ennesima intifada porta lo stato ebraico a chiedere quale è la sua prospettiva di sicurezza

Queste le principali aree, poi l L’Ira, l’Afganistan, e tutta l’area subsaariana per finire in Nigeria che è untta in èieno caos. Ed  andando sia a destra, per arrivare nel sud-est asiatico,  e a sinistra oltre atlatico con il mediterraneo caraibico , con la Colombia ed il problema della droga, le Farce cc, completano il quadro.

E l’Italia?

Il nostro paese è al limite: mentre il centro nord è acorato all’area di stabilità, il meridione e sempre più vicino a caoslandia. Per ragioni che sono sotto gli occhi di tutti.

Mentre le Grandi Potenze rimeditano su come gestire questo caso, che può andare bene anche così, perché loro sono al sicuro e gli altri nel caso, l’Italia deve comprendre che le attuali alleanza hanno eprso collante, in primo luogo la Nato, che occorre ricordalo, è nata per difendersi dalla espanzione del comunismo e dell’Unione Sovietica; ora che entrambi on ci sono più, è rimasta in piedi e completamente trasformata. Che fa il nostro paese se l’Lo stato Islamanico attacca la Turchia, paese Nato?
Il rischio concreto di essere risucchiati da caoslandia sono concreti. Secondo analisti strategici[1] da sola non potrà mai farcela. “ma illuderci che “amici ed alleati” vengano spontaneamente in nostro soccorso è assolutamente da escludere. Se vuoi farti aiuta e comincia ad aiutarti  Smettere di partecipare alla disgregazioe degli stati intorno a noi, come fatto dai governi italiani passati, a cominciare dalla Jugoslavia per finire alla Libia. Cercare di collaborare con quei stati europei che mostrano, solo per spirito di conservazione, di coltivare interessi più ampio di quelli che oggi li racchiudono in spazi ristretti, come l’esperienza degli  immigrati ( muri, Marsiglia, Caen sono esempi chiari) . Questa è la speranza che coltiviamo
 Ma sicuramente tutto dipenderà da chi sarà il prossimo presidente statunitense: se vorrà imboccare la strada della strategia dell’ordine e ridurre gli spazi di caoslandia ( è l’entrata in scena della Russia sulla crisi siriana, potrebbe aiutare su questa strada) la speranza di un futuro si può coltivare. Altrimenti i tempi che oggi giudichiamo così negativi, li rimpiangeremo.




[1] Limes, Redazionale, n.6  2015

sabato 7 novembre 2015

La liberazione dei commerci mondiale

Area transatlantica di libero scambio
Ttip e Brexit: meglio pensarli insieme
Adolfo Battaglia
30/10/2015
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Una volta c’era la corsa mondiale alle materie prime. In tempi più moderni c’è la corsa mondiale alla liberalizzazione dei commerci.

Sotto questo punto di vista gli Stati Uniti sembrano in testa. Hanno raggiunto da tempo l’accordo per un mercato integrato con Canada e Messico; concluso di recente il Trattato per la partnership transpacifica con 12 nazioni asiatiche tra cui Giappone e Australia e sollecitato più volte la conclusione della trattativa per il Ttip, Transatlantic Trade and Investment Partnership, l’iniziativa lanciata da Stati Uniti e Unione europea (Ue), per la creazione di un accordo commerciale preferenziale.

A sua volta, la Cina ha in corso la trattativa con 19 paesi per l’Apec, Asia Pacific Economic Community. Mentre la Russia, avendo perso le nazioni europee, cerca a sua volta di riorganizzare qualcosa dirigendosi verso Oriente.

Europa in ritardo
E l’Europa? Come al solito è in ritardo. Divisa, incerta, esitante, le è difficile andare oltre il raggio degli interessi settoriali. E la mancanza di un disegno di respiro è perfino comprensibile, perché la crisi in cui l’Europa è precipitata da un decennio non ha finora mostrato classi dirigenti in grado di indicarne sbocchi ragionevoli.

Il negoziato euro-americano, così, prosegue stancamente. Impelagato, a quanto sembra, sulla questione della competenza giurisdizionale a decidere sulle controversie; ma più veramente, forse, dalla carenza di sostegno politico che affligge i negoziatori europei. Questo, malgrado i ripetuti inviti del presidente Usa Barack Obama.

Anche in questo caso “il tempo si è fatto breve”. Anzi, se c’era un’occasione per distogliere gli Stati Uniti dall’assegnare priorità ai problemi asiatici, è stata già mancata.

C’è da domandarsi dunque che cosa ancora si aspetti in Europa. Ricompare l’incubo della trattativa in materia di libero scambio tra Europa e Canada che durò sei anni. Ma se è vero che nell’Ue la materia è di competenza esclusiva della Commissione è anche vero che l’accordo euro-atlantico darebbe un forte contributo allo sviluppo economico dei Paesi europei: il che non dovrebbe sfuggire né al Consiglio europeo né ai differenti Consigli dei ministri dell’Ue, in cerca come sono di strumenti d’alimentazione della crescita.

Referendum sulla Brexit
Oltretutto un grande problema economico come questo si congiunge con un fondamentale evento politico: il referendum britannico sull’Europa previsto tra il 2016 e il 2017.

È già in corso il negoziato chiesto dal premier David Cameron per concedere a Londra clausole di favore che lo aiutino a battere l’idea del distacco. E sarà una storia penosa, perché è evidente che la posta è così alta da non poter pensare ad altro che a concedere più di qualcosa alla Gran Bretagna.

Ciò desterà inesorabilmente rumori e disordini nell’assetto già fragile dell’Unione. Né, d'altronde, può trattarsi di clausole così straordinarie da convincere vittoriosamente l’opinione pubblica dell’isola.

Ecco invece che un elemento di natura politica potrebbe, forse, fare meglio di ciò che difficilmente farà un negoziato strascinato. Il mercato euro-atlantico delineato dal Ttip porterebbe l’Europa a una condizione di forte connessione economica, ed inevitabilmente politica, con gli Stati Uniti. E altrettanto inevitabilmente lascerebbe la special partnership tra Gran Bretagna e Stati Uniti alquanto priva di vento nelle vele.

Il futuro della relazione Gran Bretagna-Stati Uniti 
Verrebbe colpita la concezione degli anti-europei britannici secondo la quale, dopo l’abbandono dell’Europa, il Regno Unito avrebbe come alternativa il rafforzamento della tradizionale relazione con l’America.

Sarebbe piuttosto l’Europa ad avere una special relationship con gli Stati Uniti. Se la Gran Bretagna uscisse dall’Ue troverebbe uno spazio occupato da una struttura più forte. E il costo che in ogni caso dovrebbe pagare per l’uscita diverrebbe assai maggiore.

Anche gli scozzesi più stolidi dovrebbero abbandonare questi terreni scivolosi. Esser fuori dall’Europa, isolati nel mondo, ma alle prese con i movimenti e le novità indotti dalla globalizzazione, non sembra una prospettiva che possa aiutare gli anti-europei del Regno Unito.

Può darsi che in una questione così vitale per il futuro del continente un impetuoso spirito politico trascini un’immagine vincente dell’Europa. Sarebbe un fatto nuovo.E un fatto nuovo è anche che la sua leader, la cancelliera Angela Merkel, sembra oggi avere parecchie difficoltà in Germania.

La immaginiamo esprimersi come il Riccardo II shakespeariano: un disegno, un disegno per il mio regno. Sembra in effetti averne bisogno, sia per riaffermare la posizione tedesca sia per portare l’Europa fuori dalla palude. Può riflettersi che sotto questo profilo Renzi potrebbe esserle molto utile.

Adolfo Battaglia, già Sottosegretario agli Esteri e Ministro dell’Industria.
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venerdì 6 novembre 2015

Politica dei Trasporti: le iniziative di Gazprom

Energia
Geopolitica dei gasdotti, i progetti di Gazprom
Marco Siddi
28/10/2015
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Nord Stream 2 e Turkish Stream. Sono questi i gasdotti messi in cantiere da Vladimir Putin per ridurre l’influenza dell’Ucraina sulle sue esportazioni di gas verso l’Unione europea, Ue.

Nel primo caso, si tratta dello sdoppiamento di un gasdotto già esistente, il Nord Stream, che ne espanderebbe la capacità da 55 a 110 miliardi di metri cubi l’anno. Il Turkish Stream invece trasporterebbe 63 miliardi di metri cubi annui dalla costa russa sul Mar Nero alla Turchia occidentale, e da lì si collegherebbe ai mercati europei.

Con la realizzazione dei due gasdotti, la Russia punta a sospendere completamente il transito del proprio gas in territorio ucraino entro il 2019.

Tuttavia, il progetto Nord Stream 2 dovrebbe prima ottenere l’assenso della Commissione Europea, che al momento pare poco propensa a sostenere nuovi progetti infrastrutturali che coinvolgono Gazprom. Bruxelles non vede di buon occhio nemmeno Turkish Stream; i Paesi europei dovrebbero infatti investire ingenti somme nelle infrastrutture necessarie a collegarlo ai mercati europei.

I paletti del Terzo pacchetto energia 
Oltre alle questioni economiche, la legislazione europea costituisce il principale ostacolo ai progetti russi. Secondo le norme del Terzo pacchetto energia (un insieme di direttive e regolamenti adottati dalla Ue nel 2009), la produzione e la trasmissione del gas devono essere gestite da entità separate.

Nel caso specifico di Nord Stream 2, questa regola implica che Gazprom, in quanto proprietaria della produzione del gas, dovrebbe cedere il controllo della rete di trasmissione in territorio Ue.

In alternativa, la compagnia russa dovrebbe ottenere un’esenzione dal Terzo pacchetto energia, come avvenuto per la prima sezione del gasdotto Nord Stream. Considerate le tensioni tra Mosca e Bruxelles, al momento è però poco probabile che la Commissione conceda nuove esenzioni a Gazprom.

D’altra parte, nell’aprile 2014 la compagnia russa ha aperto un contenzioso con la Ue presso l’Organizzazione mondiale del commercio, nel quale sostiene che le regole del Terzo pacchetto energia danneggiano ingiustamente i suoi interessi.

Presunto monopolio di Gazprom
La disputa sul Terzo pacchetto energia si aggiunge a quella, ancora più rilevante, relativa alle presunte politiche monopolistiche di Gazprom nell’Europa centro-orientale.

Nel settembre 2012, la Commissione europea ha aperto un’indagine su una possibile violazione da parte di Gazprom degli articoli 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Ue riguardanti la concorrenza e l’abuso di posizioni dominanti nel mercato europeo.

Lo scorso aprile, il Commissario europeo, Margrethe Vestager, ha deciso di portare avanti l’indagine. In particolare, la Commissione accusa Gazprom di aver imposto clausole di destinazione negli accordi di vendita del gas coi Paesi dell’Europa centro-orientale, dove Gazprom ha una posizione dominante.

Vietando la rivendita del gas russo, tali clausole avrebbero permesso alla compagnia di imporre prezzi differenziati sui diversi mercati nazionali.

Sempre secondo la Commissione, le differenze di prezzo non sarebbero spiegate da diversi costi di trasmissione del gas, ma da una strategia di ‘divide et impera’ dei mercati attuata da Gazprom.

Dipendenza europea dal gas russo
Nei prossimi mesi, la compagnia potrebbe raggiungere un accordo con la Commissione, correggendo o eliminando le pratiche contestate. Eviterebbe così che il contenzioso prosegua per vie legali dall’esito potenzialmente negativo (con multe persino di diversi miliardi di euro). Gazprom ha le risorse per adeguare le sue strategie commerciali alle regole della Ue e al contempo continuare a esportare con buoni margini di profitto sul mercato europeo.

D’altra parte, l’Ue non può fare a meno del gas russo, quanto meno per i prossimi 15-20 anni. Per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO₂, la Ue necessita di gas a basso prezzo come fonte alternativa a combustibili fossili più inquinanti (carbone e petrolio in primis).

Allo stesso tempo, i Paesi europei dovrebbero investire le risorse disponibili nelle energie rinnovabili, il cui sviluppo permetterebbe una crescita sostenibile e la riduzione della dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili esteri.

Questo articolo è tratto da un’analisi più ampia delle relazioni tra Ue e Russia nel settore del gas. Lo studio è qui disponibile.

Marco Siddi è ricercatore presso l'Istituto Finlandese di Affari Internazionali (FIIA) a Helsinki.
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