Da ISAG.
Amedeo Maddaluno Geopolitica & Teoria 0 commentI
È possibile immaginare una guerra simmetrica e di massa tra nazioni
strettamente collegate tra loro dal commercio e dalla finanza? Difficile,
eppure la globalizzazione rimane incompiuta: non conduce alla “pace perpetua”
dei mercati ma anzi viaggia in parallelo col un ritorno della
regionalizzazione. Uno dei temi sempre più all’attenzione degli analisti è
quello della proxy war, cioè la
guerra per procura combattuta su teatri locali per conto delle potenze
regionali e globali da parte di guerriglieri, terroristi, spie e mercenari.
Le grandi operazioni coperte, dalla Baia dei Porci e dagli eserciti
segreti come la struttura Gladio fino all’Afghanistan, sembravano un ricordo
della Guerra Fredda. Con il suo apparato ideologico, essa poteva contare su
“quinte colonne” che ciascun schieramento infiltrava in quello avversario e con
le imponenti risorse che le due superpotenze potevano destinare per mantenerle
raggiungere i propri obiettivi. In realtà l’uso massiccio dell’attività di
intelligence, di propaganda e di infiltrazione tra le popolazioni locali non è
mai caduto in disuso ed è tutt’altro che circoscritto alla guerra al terrorismo
dove il nemico è asimmetrico o comunque non solo costituito da un’altra entità
statale. Le grandi potenze, ferite dai conflitti vietnamita, ceceno, dal primo
e dal secondo conflitto afghano e da quello iracheno, si sono anzi rivolte in
tempi recenti sempre più al modello della guerra aerea a distanza, della proxy war e dell’infiltrazione. Della proxy war il conflitto ucraino ha tutte le caratteristiche, con
il proprio contorno di infiltrati e sabotatori, forze speciali e mercenari. Si
sospetta e sovente si accredita la presenza negli scontri di membri delle forze
speciali russe, di mercenari di compagnie americane oltre che di guardie ed eserciti
privati degli oligarchi schierati sui differenti fronti: come distinguere il
mercenario dal consigliere militare e “addestratore” a pagamento? A ciò si
aggiunge inoltre il contorno della guerra di propaganda sui media – inclusi
quelli 2.0 – la diffusione di false notizie, gli attacchi hacker della nuova cyber war, l’uso a tutto campo della guerra ideologica collegato attivamente con
l’infiltrazione di agenti e l’attività di intelligence. Soprattutto, il
conflitto ucraino è un conflitto per procura in quanto sopportato quasi
interamente da forze locali, per quanto eterodirette.
Molti dei principali attori globali si trovano ad affrontare problemi
concreti di flessione demografica: non parliamo solo dei paesi dell’Europa
Occidentale e dello spazio ex-sovietico o di Paesi ormai entrati a far parte a
pieno titolo della modernità come la Cina. Ad esempio, un rilevabile calo delle
nascite interessa anche l’India, il Sud Est Asiatico e il Sud America e sembra
non riguardare solo l’Africa e la parte meno ricca del mondo arabo. Insieme
alle necessità di efficientazione delle spese militari, questi fenomeni sociali
stanno conducendo molti eserciti ad una fase di riorganizzazione e ricerca di
strutture più snelle, appunto più efficienti e tra loro coordinate al fine di
puntare sempre di più sull’utilizzo di corpi speciali e Task Forcesinterforze. L’esercito industriale dalla struttura
estesa ma rigida sta mutando: nel contesto NATO il modello della Divisione, con
la sua completa autonomia tattico/strategica, viene integrato (per non dire)
sostituito da un modello organizzativo basato sulla più agile e snella Brigata.
Si assiste ad un fenomeno circolare: eserciti più piccoli necessitano di
maggior potenza di fuoco e tecnologia; tecnologia e potenza di fuoco richiedono
di sostenere costi sempre più importanti che conducono alla scelta di contenere
le dimensioni degli eserciti.
Nonostante l’implementazione dell’alta tecnologia e l’uso dell’arma
aerea rappresentino due nitide tendenze operative e tattiche, su questi due livelli
– e spesso anche su quello strategico – si conferma la difficoltà strutturale
degli eserciti tradizionali ad affrontare nemici “asimmetrici” – terroristi,
guerriglieri, criminali. Si tratta di nemici non necessariamente più poveri, ma
spesso più agili e attivi su territori di difficile accesso come gli ambienti
geografici estremi o le cosiddette “giungle urbane”. Nelle moderne megalopoli,
ad esempio, armi semplici, robuste ed affidabili come un Kalashnikov vincono
sui più sofisticati sistemi d’arma e sui più complessi apparati bellici proprio
in virtù delle minori necessità di manutenzione, della più rapida possibilità
di dispiegamento, delle contenute esigenze logistiche. Da qui la tendenza, da
parte delle potenze globali e regionali, a “delegare” la guerra ai mercenari e
a forze locali supportate e coordinate da propri reparti speciali e Task Forces.
Le Potenze hanno dunque appreso a fatica una lezione: si risponde
asimmetricamente al nemico asimmetrico, senza più cercare di imporre le proprie
regole tattiche ed operative su un terreno di scontro che egli conosce e
domina. Possiamo trovare diversi esempi concreti: nel conflitto russo in
Afghanistan, tra le poche operazioni sovietiche definibili come di buon
successo vi furono quelle che impiegavano reparti speciali aviotrasportati
forti della sorpresa e con alto addestramento e motivazione. Truppe speciali di
professionisti – non militari di leva “costretti” – con alto addestramento che
si servivano in modo preciso e chirurgico di una delle poche armi non
facilmente a disposizione del guerrigliero: l’aviazione. Più di recente, nella War on Terror americana l’eliminazione dei terroristi non avviene
tramite il velleitario tentativo di occupazione di vasti territori sconosciuti
e abitati da popolazioni più o meno ostili (o comunque diffidenti e portatrici
di un lingua e di una cultura “altra”), ma tramite l’uso di intelligence, di
corpi speciali e dell’impiego specifico, calcolato e mirato di alta tecnologia
(i droni). Anche se fondate su un forte controllo del territorio, le mafie si
fanno forti della loro capacità di mimetizzarsi tra i civili e non possono
essere considerate “nemico simmetrico”: anche in questo caso la risposta
militare degli Stati cerca di rendersi flessibile e prevede l’uso massiccio di corpi
ad hoc: oltre all’intelligence, si può far riferimento al BOPE e alla Policia Pacificadora in Brasile e alla la Marina in Messico. Deve far
riflettere il seguente dato di fatto: le più efficaci operazioni antimafia
condotte in Italia hanno carattere investigativo e non puramente militare. La
lotta contro il crimine organizzato più ancora di quella contro il terrorismo –
per quanto il confine tra i due fenomeni divenga via via più labile a partire
dalla seconda metà del Novecento fin quasi ad annullarsi nei giorni nostri – ci
guida nel nostro ragionamento: l’esempio italiano è di maggior successo
rispetto a misure sudamericane ancora troppo “simmetriche”, specie quando
trascurano l’azione preventiva a livello sociale e culturale rispetto a quella
puramente militare.
Eccoci arrivati dunque all’aspetto sociale. Un elemento impossibile da
trascurare è appunto quello della guerra ideologica e culturale, versione
ancora più soft ma assai potente, penetrante ed efficace sul medio e lungo
termine nell’aggredire la reputazione di un Paese e la sua immagine, assai più
incisivo dell’ information warfare a colpi di TV, YouTube e social networks. Anche dopo la fine delle grandi ideologie del Novecento, anzi, forse
proprio in virtù della perdita di appigli ideologici “immediati” (almeno in
Occidente, dove sono stati sostituiti dal ripiego individualistico
liberaldemocratico), questa rimane la battaglia per i cuori e per le menti
delle popolazioni coinvolte ovvero l’humus primario che genera “l’avversario” e
in cui l’avversario si mimetizza. Non solo: è la battaglia per i cuori e le
menti delle opinioni pubbliche “terze”, distanti dai campi di battaglia fisici
ma dotate di potenziale di influenza sui propri governi. In Italia è ormai
consegnato alla storia il caso del quotidiano Il popolo d’Italia, fondato da Mussolini e finanziato dalle potenze
dell’Intesa per agire sull’opinione pubblica italiana in senso interventista e
contrario agli Imperi Centrali: per quanto lampante, questo è solo uno degli
esempi.
Torniamo ad utilizzare il recentissimo modello rappresentato dal caso
ucraino, dove le potenze giocano la propria partita supportando con le proprie
forze economiche e di intelligence attori ideologicamente affini: l’Occidente con le forze politiche
sensibili al richiamo del modello liberista rappresentato da USA e UE e –
legittimo sospettarlo – anche con l’ultradestra nazionalista ucraina, non
gradita e nemmeno simpatetica sul piano ideologico ma comunque assai utile in
un campo dove invece i servizi e gli apparati militari e politici Russi operano
a supporto dei separatisti. Da tempo sui media occidentali si assiste
all’intensificarsi della campagna di immagine antirussa, che ora si trova a
correre in parallelo alla crisi ucraina. Per esempio, nell’immaginario occidentale
ad essere “mangiati” oggi in Russia non sarebbero più i bambini ma gli
omosessuali che per converso ottengono sempre più spazio nel dibattito politico
e sociale di Europa ed USA. Tale spazio ha il suo contraltare nella campagna
russa contro l’“Occidente in decadenza”: entrambe queste tendenze sembrano
difficilmente catalogabili come casuali o dettate da semplici motivi ideali,
pur essendo ravvisabili anche precedentemente allo scoppio della crisi ucraina,
quasi a trovarsi già pronte “in caso di necessità di un nemico moralmente
deprecabile”. È molto difficile elidere l’aspetto di dibattito interno su
questo o altri temi socialmente sensibili dalla strumentalizzazione
propagandistica. La Russia ex-sovietica, dove sempre più strumenti e metodi
sovietici di gestione del potere godono di successo ed uso, coglie
l’opportunità di accreditarsi come custode dei valori della tradizione. Un
Occidente che attraversa la più grande crisi dei diritti acquisiti della storia
contemporanea – il diritto al lavoro e in generale tutti i diritti di sicurezza
sociale – coglie invece la doppia occasione di confermarsi alla propria
opinione pubblica proprio come baluardo di diritti, ovviamente non più i
diritti “sociali” e “di comunità”, pericolosi per le logiche liberiste, ma dei diritti
dell’individuo, consacrati come gli unici inderogabili: una guerra culturale
doppia, valida quindi anche per il fronte interno.
La “guerra culturale” mira a presentare al mondo i valori di fondo del
proprio schieramento come “i” valori universali al fine di isolare
l’avversario. I mujaheddin afghani non erano certo i migliori vindici dei “valori occidentali” ma
erano anticomunisti; l’estrema destra ucraina è un pessimo esempio di
tolleranza liberale ma è antirussa. D’altro canto, l’America fa ottimi affari
con Paesi non certo classificabili come tolleranti verso gli omosessuali –
basti pensare all’Arabia Saudita. Eppure mentre la logica che vuole “il nemico
del mio nemico come mio amico” è orientata inesorabilmente al breve termine, la
guerra culturale è strategicamente lungimirante e, lo ripetiamo, punta a
forgiare la mentalità di interi popoli sul lungo periodo. Ogni giornalista,
atleta, blogger, scrittore o famoso intellettuale – che magari fa professione
di mite pacifismo – è un soldato, consapevolmente o meno. La “cultura” ed i
“valori” sono un’arma, anche dopo la fine della contrapposizione tra blocchi
della Guerra Fredda, contrapposizione per l’appunto fondata e spesso nutrita
dall’ideologia – ideologia ovviamente asservita alla politica. Consapevolmente
o meno.
È presto per dire se una guerra fatta principalmente di propaganda e di
ideologia, di sabotaggi ed infiltrazioni, di spie e hacker, di controllo dei media e degli strumenti internet
denoti debolezza o mancanza di una visione strategica chiara e forte da parte
delle potenze – statuali ed economiche – o se invece rappresenti l’esatto
contrario: una disponibilità a combattere con ogni mezzo per raggiungere i
propri scopi. Una cosa è chiara: i poteri economici e politici (abbiano essi o
meno dopo la fine della Guerra Fredda una chiara visione del mondo) lottano per
conquistare come sempre non solo i corpi ma anche i cuori e le menti, come
insegnano i manuali di guerriglia e di contro-insorgenza. Lo stratega militare
e politico dei prossimi decenni dovrà considerare l’uso delle tecnologie, l’uso
della guerra coperta condotta da agenti segreti e corpi speciali e l’uso della
guerra ideologica e culturale come strumento bellico ancora forte e trainante
nei conflitti e delle rivalità tra potenze: tutt’altro che un semplice supporto
“esteriore”. Si tratta di tre dimensioni di una “guerra di infiltrazione”, che
molto probabilmente è l’unica – insieme alla assai simile “guerra per procura”
di cui parlavamo in principio – che si può combattere in un mondo dove le
economie sono strettamente interdipendenti.
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