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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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lunedì 29 settembre 2014

Ucraina: è successo solo due mesi fa

Il 17 luglio il Boeing 777 MH-17 della Malaysia Airlines è precipitato nei pressi della cittadina di Hrabove, nell’oblast di Donetsk, a circa 50 km dal confine russo-ucraino, causando la morte dei 295 passeggeri. Nello specifico, il velivolo, diretto a Kuala Lumpur, si trovava nello spazio aereo ucraino e procedeva in direzione di quello russo, sorvolando l’area del Donbass, controllata dai separatisti filo-russi. Per quanto la dinamica dell’incidente debba ancora essere accertata, i primi dati disponibili fanno sospettare che il velivolo possa essere stato abbattuto da un missile superficie-aria lanciato da un sistema missilistico BUK (NATO SA-11”Gadfly” \ SA-17 ”Grizzly”). Infatti, il Boeing malese sembra essere stato colpito ad una quota di 10.000 metri, altezza raggiungibile soltanto da un tale complesso sistema d’arma. Al momento, la responsabilità dell’accaduto potrebbe essere attribuita alle milizie filo-russe della Repubblica Popolare di Donetsk (RP! D). Infatti, nelle settimane precedenti all’incidente, i miliziani erano entrati in possesso di una batteria di SA-11 \ SA-17, oltre ad aver intensificato le operazioni anti-aeree contro le Forze Armate ucraine, come testimoniato dall’abbattimento, il 14 luglio scorso, di un aereo-cargo An-26 dell’Esercito nei pressi della cittadina di Davido-Nikolsk. Come se non bastasse, le autorità di Kiev hanno esibito prove circa presunte conversazioni telefoniche tra i comandanti delle milizie nelle quali si parlava del tragico incidente. Inoltre, lo stesso comando militare della RPD aveva rivendicato, nei minuti immediatamente successivi alla scomparsa del velivolo dai radar, il presunto abbattimento di un altro An-26. Tuttavia, tale rivendicazione è scomparsa dai canali telematici poco dopo l’ufficializzazione della caduta del Boeing malese. L’abbattimento del MH-17 costituisce il più grave incidente sinora avvenuto dall’inizio dell’insurrezione nelle regioni orientali! ucraine nonché di un evento in grado di cambiare l’inerzia del conflitto. Infatti, se fino ad ora lo scontro aveva una dimensione regionale, l’uccisione di centinaia di cittadini provenienti da diverse parti del Mondo (Paesi Bassi, Germania, Francia, Australia, Malesia, Regno Unito) è destinata ad aumentare la rilevanza mediatica globale dell’insurrezione. Europa e Stati uniti hanno fermamente condannato l’accaduto, schierandosi apertamente in favore di Kiev e condannando la Russia, ritenuta responsabile della tragedia a causa del suo sostegno ai separatisti. In ogni caso, l’enorme danno d’immagine subito da Mosca rischia di comprometterne gli spazi di manovra politica a livello internazionale. Da par loro, sia i separatisti del Donbass che il Cremlino hanno negato qualsiasi coinvolgimento nella vicenda, affermando che la responsabilità è esclusivamente di Kiev. A livello politico, dunque, si rischia un ulteriore inasprimento dei rapporti tra Europa, Stati Uni! ti Ucraina e Russia, già ulteriormente peggiorati dal nuovo round di sanzioni deciso da Washington e diretto a società e banche strategiche russe, quali Gazprombank, il ramo finanziario di Gazprom, e Rosneft, il gigante petrolifero russo. All’indomani della tragedia, il governo ucraino sembra aver guadagnato ulteriore legittimazione internazionale nel proseguo dell’operazione anti-terrorismo nel Donbass, che presumibilmente continuerà fino alla completa sconfitta dell’insurrezione. Appare particolarmente preoccupante l’avvicinarsi della battaglia di Donetsk, quando le Forze Armate di Kiev dovranno affrontare i separatisti barricati nella popolosa città orientale. In questo caso esiste il rischio concreto di alti danni collaterali, come distruzione di infrastrutture critiche e morti di civili. Infine, l’incidente del Boeing malese e le sue conseguenze politiche e militari rischiano di erodere definitivamente i margini di trattativa tra separatisti e governo centra! le, rendendo molto difficile una risoluzione politica e pacifica del conflitto. 

Fonte CESI News letters 153

martedì 23 settembre 2014

Toccare i confini in Europa: un grosso rischio.

Referendum in Scozia
Bruxelles e il divorzio alla scozzese?
Flaminia Caprara
17/09/2014
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Partecipando al referendum per l’indipendenza, gli scozzesi mettono sotto esame un’unione nata oltre trecento anni fa. L’intenzione di Londra di non opporsi a un’eventuale decisione di divorzio non significa però che da una separazione non scaturiranno controversie.

La prospettiva di una Scozia indipendente, e di un Regno Unito ridimensionato, genererebbe nuove problematiche per l’architettura della geografia politica mondiale e soprattutto, per il complesso sistema di equilibri (e squilibri) politici dell’Unione europea (Ue).

Tra queste problematiche c’è anche l’incognita del possibile referendum sul divorzio tra Regno Unito (o ciò che di esso rimarrebbe) e Ue. Se gli scozzesi, più europeisti, abbandonassero Londra, l’eventualità di un’uscita del Regno Unito dall’Ue potrebbe diventare più verosimile, rendendo ancora più incerto il futuro di un’Ue già notevolmente propensa alla crisi.

Zizzania tra Londra ed Edimburgo
La spartizione di oneri e risorse tra la Scozia e il Regno dis-Unito potrebbe richiedere ben più tempo dei 18 mesi previsti dall’attuale primo ministro scozzese Alex Salmond, il cui piano di secessione, esposto in un Libro bianco pubblicato lo scorso novembre, è stato contestato dal governo di Westminster.

Il proposito dei separatisti di preservare la sterlina come valuta della Scozia indipendente ha suscitato numerose obiezioni, comprese quelle del Ministro delle finanze, George Osborne, e del governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, che temono che questo meccanismo possa innescare non solo problemi per la redistribuzione del debito pubblico tra i due stati, ma anche una crisi economica.

Tra i dossier che creano zizzania figurano anche la sorte dei missili nucleari Trident custoditi in Scozia nella base militare di Faslane, la riorganizzazione dell’esercito, la questione di una possibile limitazione del libero transito tra i paesi e la spartizione delle ingenti riserve di idrocarburi del Mare del Nord (l’80% delle quali si troverebbe in acque territoriali scozzesi).

Spagna osservatrice impaurita
La Scozia sarebbe il primo stato a ottenere l’indipendenza da un paese membro dell’Ue, un caso che porrebbe di fronte a numerose incognite anche gli altri 27 paesi dell’Unione. I trattati comunitari non dicono come procedere nell’eventualità in cui un membro ratifichi la secessione di una propria unità costitutiva intenzionata a rimanere nell’Ue.

In assenza di un solido terreno giuridico, i separatisti ritengono di potersi appellare all’articolo 48 del Trattato sull’Ue, che definisce l’iter attraverso il quale i governi degli stati membri possono proporre la modifica dei trattati comunitari. In quest’ottica, prima di raggiungere l’indipendenza, il governo di Edimburgo dovrebbe lavorare con Downing Street per ottenere l’approvazione dei paesi membri dell’Ue affinché la Scozia indipendente possa continuare a far parte dell’Unione.

Secondo il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, una Scozia indipendente dovrebbe presentare formale domanda di adesione. Per diventare parte dell’Ue, dovrebbe ottenere il favore dell’intero Consiglio. Cosa “estremamente difficile se non impossibile” chiosa Barroso. Almeno la Spagna - secondo quanto scritto da Enrico Letta sul Corriere della Sera di martedì - si opporrebbe, per via dell’evidente legame tra l’indipendenza scozzese e quella della Catalogna.

Scozia europea?
I negoziati per raggiungere un accordo sull’eventuale futuro della Scozia nell’Ue potrebbero poi protrarsi ben oltre la data in cui il Partito nazionale scozzese auspica di proclamare l’indipendenza, il 24 marzo 2016. Anche qualora i 28 paesi membri concordassero con l’adesione scozzese, la negoziazione delle modalità di ingresso genererebbe ulteriori dibattiti.

Molto probabilmente la Scozia non potrebbe più permettersi di contare sulle stesse deroghe all’acquis comunitario di cui gode in qualità di unità costituente del Regno Unito. Purché ciò non contrasti con gli eventuali accordi di separazione tra Londra ed Edimburgo, l’Ue potrebbe pretendere l’entrata del nuovo stato sia nell’eurozona che nell’area Schengen. Un percorso ancora più complicato e inverosimile di quello di riapertura di un negoziato di adesione all’Ue.

Flaminia Caprara è stagista per la comunicazione presso lo IAI.
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lunedì 22 settembre 2014

Non solo Stato Islamico

Volontari occidentali della jihad
Crisi di attenzione e di modelli
Antonio Armellini
01/09/2014
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Qualche centinaio o diverse migliaia: sul numero dei combattenti per la jihad islamica provenienti da paesi occidentali non vi sono certezze, ma il fenomeno ha preso una dimensione che, prima ancora di preoccupare, lascia esterrefatti.

I centri di reclutamento sembrano fiorire in Europa, un po’ ovunque: se all’inizio si pensava che la concentrazione massima potesse essere laddove maggiore era la presenza di comunità immigrate - in Francia e in Gran Bretagna soprattutto - si è visto che, grazie ad una azione capillare attentamente preparata, la rete si è estesa sempre più, dalla Scandinavia sino all’Italia.

Le affermazioni dei rappresentanti dell’Ucoii (Unione delle Comunità islamiche d’Italia), secondo cui da noi il problema sarebbe del tutto marginale, se non quasi inesistente, sono state rapidamente contraddette da quanto continua ad emergere circa l’esistenza di reti di collegamento in varie parti del paese.

Colti di sorpresa e disattenti
Che ci si sia tutti accorti in ritardo del diffondersi di un fenomeno che cresceva sotto i nostri occhi senza lasciare apparentemente tracce visibili, è fuori di dubbio. Così come è indubbio che ci siamo trovati impreparati nel tentare di decifrare le ragioni che hanno indotto una quota non irrilevante di cittadini europei (oltre ai combattenti veri e propri, va tenuto conto di un’area grigia più vasta di complicità e sostegni più o meno clandestini) a rispondere ad un appello che nega in radice i principi di tolleranza cui dichiarano di ispirarsi le nostre società.

Da un lato, si pone un problema di prevenzione; dall’altro, c’è l’esigenza di approfondire percezioni psicologiche e condizionamenti su cui siamo stati evidentemente troppo distratti.

Alle frange estremiste delle comunità musulmane sembra essere stata riservata a lungo un’attenzione di routine. Un controllo simile a quello con cui venivano tenuti d’occhio estremismi di varia fattura e consistenza, senza troppo preoccuparsi del fatto che, in questo caso, si trattava di comunità ad un tempo discriminate e coese, in costante contatto con i paesi di provenienza dove, con buona pace delle “primavere arabe”, la pianta dell’estremismo stava facendo rapidamente proseliti.

Ed è stato così che segnalazioni potenzialmente importanti sono state trascurate, nella convinzione che fossero sufficienti misure tradizionali di polizia per tenere a bada gruppi numericamente ristretti, mentre la maggioranza riconosceva la primazia del sistema di regole - forse subito, più che accettato - da cui discendeva la possibilità di una graduale integrazione.

Hanno fallito su questo terreno più o meno tutti i servizi di intelligence, che si sono mostrati impreparati a capire sia l’estensione del fenomeno all’interno di ciascuno paese, sia le sue ramificazioni a livello transnazionale.

Indagare e capire perché
Non è mai troppo tardi per correre ai ripari: un primo passo dovrà essere quello di potenziare di molto non solo l’analisi numerica del fenomeno, ma anche la conoscenza dei meccanismi mentali e delle reti di collegamento, cominciando dal terreno più ostico per un approccio laico, quello dell’interconnessione fra militanza religiosa e società civile che nell’islam è profondamente diversa dall’occidente.

E di farlo superando steccati e diffidenze: le intelligence più e meglio delle polizie sono abituate a dialogare fra loro, ma è evidente che deve essere compiuto anche qui un salto di qualità. Senza porre in pericolo principi consolidati, ma riconoscendo che la minaccia della jihad non può essere affrontata in una mera ottica nazionale, del resto antitetica al suo messaggio.

Si pongono problemi delicati di libertà e di tutela dei diritti dell’individuo; essi costituiscono un caposaldo delle nostre società e sarà necessario vederli nel contesto dell’esigenza primaria di salvaguardarne la capacità di sopravvivenza, ponendo la barra della tolleranza ad un livello conseguente.

C’è poi il problema, fondamentale, di capire cosa possa spingere un immigrato di seconda o terza generazione, a prima vista del tutto inserito in un modello di vita occidentale, ad abbandonare un bel giorno il suo posto fisso, la sua casa borghese col giardino, il tennis e la scuola dei figli, per farsi esplodere davanti ad un autobus a Gerusalemme, o in una stazione di metropolitana a Londra, o farsi riprendere mentre decapita un “nemico” nel deserto iracheno.

Modelli difettosi di integrazione
In Europa sono stati avanzati due modelli di integrazione che si richiamano, rispettivamente, all’esperienza francese e a quella britannica: di assimilazione totale il primo, di autonomia nella pari dignità il secondo.

Le differenze rispecchiano esperienze storiche e strutture sociali diverse, ma certamente democratiche: per lungo tempo si è ritenuto che potessero funzionare, pur con inevitabili carenze e ritardi.

Il melting pot Usa si situa in qualche misura a cavallo dei modelli europei; ha mille carenze e conosce punte di violenza rilevanti, che si collocano per lo più all’interno di una american way of life percepita come un obiettivo da perseguire, ancorché negato. Le frange di rifiuto totale appaiono in termini relativi meno rilevanti, anche se il fenomeno è in rapida crescita.

I paesi europei hanno a lungo vantato la loro superiore capacità di integrare realtà profondamente diverse, rifuggendo dalla violenza dei processi in Usa e riconoscendo piena legittimazione alle diversità etniche e culturali.

Che questa sia stata una lettura corretta è ragionevole dubitare: i processi di integrazione non hanno seguito l’andamento che illuministicamente taluni avevano pronosticato e, dinanzi all’esplodere di fenomeni di totale e aprioristico rifiuto, si è dovuto prendere atto di un complessivo fallimento.

Come salvare società multiculturali?
Cercare di porre rimedio a una crisi, che rischia di essere devastante, dovrebbe rappresentare una priorità assoluta: strumenti e scenari restano tutt’altro che definiti. L’emarginazione che caratterizza banlieues che costituiscono una deformazione grottesca del progetto multiculturale, è una concausa importante, ma non è di per sé sufficiente a spiegare l’implosione di modelli della cui forza di attrazione siamo stati a lungo convinti.

Un’implosione, per di più, causata non tanto da una prima, confusa e incerta generazione di immigrati, quanto dalla seconda o dalla terza, che si riteneva avessero introiettato i canoni della loro nuova cittadinanza, contestandoli magari con forza, ma dall’interno.

L’analisi rischia di tracimare verso la slippery slope della critica del multiculturalismo, della crisi della rappresentanza democratica e della rivendicazione dell’omogeneità storica - e al limite religiosa - come unico dato identitario di società funzionanti.

Una china pericolosa, che ignora il fatto che tutte le società occidentali - in Europa e non solo - non possono che convivere con la complessità che ne costituisce una parte inscindibile. Opporre al miraggio delle Umma la rivendicazione di una diversa supremazia vorrebbe dire rinunciare a secoli di progresso civile: la risposta però non c’è e va cercata con urgenza.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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TECNOLOGIA E RAPPORTI CON LA RUSSIA

Sicurezza e tecnologia in Europa
Frenata francese verso la Russia, stop alle Mistral 
Jean-Pierre Darnis, Alessandro Ungaro
04/09/2014
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Un comunicato della presidenza della Repubblica francese ha annunciato la sospensione della consegna della prima nave portaelicotteri da assalto anfibio classe Mistral alla marina militare russa, invocando come causa principale il deterioramento della situazione in Ucraina.

Una notizia salutata positivamente da tutti quelli che si auspicavano una forte presa di posizione di Parigi nei confronti del regime di Vladimir Putin.

Con il rapido peggioramento della situazione sul fronte ucraino sembrava insostenibile che un alleato, membro della Nato, potesse fornire materiale bellico di elevate prestazioni a Mosca.

Questa operazione soddisfa in primis l’amministrazione statunitense, desiderosa di isolare la Russia all’interno della comunità internazionale ed è la prova del nove dell’indipendenza di Parigi e della sua capacità di lasciarsi alle spalle affascinanti tentazioni realiste nei rapporti con Mosca, rafforzando invece la sua sintonia con Washington, già molto forte da alcuni anni.

Si tratterebbe quindi di una vittoria delle tendenze filo occidentali, che permette a François Hollande di presentarsi al summit Nato con la fedina pulita per esercitare pienamente il suo ruolo all’interno dell’Alleanza.

Importazioni russe di tecnologiche strategiche
Tutto bene quel che finisce bene? La mossa francese lascia sul tavolo una serie di questioni aperte. Che dire della difficile coesione europea e occidentale? A fronte di una sostenuta mobilitazione occidentale contro le operazioni militari russe in Ucraina, sono state adottate una serie di discutibili sanzioni economiche per cercare di riportare Mosca sulla via della diplomazia.

La Russia è però fornitrice di razzi spaziali, i vettori Soyouz, strumenti essenziali sia al programma spaziale europeo che a quello statunitense e rappresenta un provider fondamentale di servizi militari.

D’altro canto, Mosca dipende da alcuni materiali e tecnologiche strategiche che sono largamente importati dall’Occidente. Inoltre, secondo alcune fonti, diversi paesi europei - come la Gran Bretagna - hanno ancora dei contratti di fornitura militare in corso con la Russia.

Spada di Damocle per le finanze francesi 
La Francia, sospendendo la consegna delle navi Mistral, mette a rischio un contratto da 1,2 miliardi di euro con la possibilità di dover pagare una penale che alcuni indicano in 5 miliardi.

Lo stop alla consegna rappresenterebbe quindi un’ulteriore spada di Damocle per le finanze pubbliche francesi, già malmesse dalla crisi. Cosa ben più grave, potrebbe pregiudicare e compromettere la credibilità politica e imprenditoriale nei mercati internazionali, soprattutto in quelli emergenti, nei quali la Francia ha fortissimi interessi. Primo fra tutti, il contratto per la vendita di 126 caccia Rafale all’India, ancora non finalizzato del tutto.

Il possibile danno non è soltanto la mancata consegna a quello che viene ormai considerato un nemico e l’eventuale buco nelle finanze pubbliche (il 75% del gruppo industriale Dcns, a cui è stata affidata la commessa, appartiene allo stato francese) ma le reazioni a catena che questa decisione può attivare, ossia un repentino aumento di meccanismi e iniziative concorrenziali sui mercati emergenti con aziende britanniche, italiane o tedesche.

Si è spesso giustamente rimproverato alla Francia di coltivare un orientamento da “potenza nazionale”, pronta a difendere la sua sovranità, anche militare, nel contesto globalizzato. In ambito europeo, questa critica è stata formulata per accusare Parigi della sua reticenza al processo di integrazione comunitario.

Il caso delle Mistral dovrebbe quindi fornire un ulteriore esempio dell’impellente necessità di accelerare lo sviluppo di una maggiore integrazione europea.

Maggior integrazione per sicurezza e difesa europee 
Esiste una tale connessione fra la posizione strategica e gli interessi economici che anche nel caso di una condivisione della percezione di minaccia russa in Ucraina, le posizioni nazionali possono risultare in una politica da “scarica barile” potenzialmente disastrosa.

È pressoché condivisibile ritenere che il mantenimento delle capacità militari e tecnologiche francesi, anche nucleari, rappresenti un fattore di sicurezza e di stabilità per l’Europa nel suo complesso.

Parigi però, attuando una scelta giusta politicamente, sta mettendo a rischio una filiera industriale fondamentale nel comparto navale e militare, non solo di rilevanza francese, ma soprattutto europea. Ecco perché la decisione deve essere discussa con i partner del vecchio continente con l’obiettivo di salvaguardare tali capacità industriali e tecnologiche.

Il mercato della difesa europeo è insufficiente a garantire la sopravvivenza delle aziende del settore, le quali dipendono in larga misura da contratti extraeuropei, spesso con paesi emergenti.

Le tensioni nell’est dell’Europa e in Medio Oriente generano instabilità e potenziali rotture politiche e commerciali con alcuni clienti chiave che possono essere efficacemente affrontate solo attraverso un rafforzamento della coesione politica occidentale per salvaguardare le capacità produttive e il know-how europei.

Anche gli Usa devono fare la loro parte; la chiusura de facto del mercato interno ai competitor europei può rivelarsi un calcolo miope e azzardato, generando pericolosi deficit per il mantenimento delle capacità di difesa alleate.

L’attuale crisi ucraina ci deve quindi spingere a una visione fine e complessiva della necessità del mantenimento delle capacità tecnologiche europee in materia di sicurezza e difesa, valutando al tempo stesso i paradossi delle posizioni nazionali - come appunto il “beau geste” francese nel caso delle Mistral. Anche in questo caso, come in altre circostanze, la parola chiave è integrazione.

Jean-Pierre Darnis è professore associato all’Università di Nizza e vice direttore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @jpdarnis).
Alessandro R. Ungaro è Ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @AlessandroRUnga)
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martedì 16 settembre 2014

Aiuti Umanitari: che cosa significano e a che cosa servono

La questione degli interventi “umanitari”
Ucraina e Medio Oriente, in cerca di una logica
Stefano Silvestri
19/08/2014
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Un convoglio di profughi è stato bombardato in Ucraina, mentre cercava di lasciare la zona dei combattimenti: forse sono stati i miliziani filo-russi, ma questi accusano l’Esercito ucraino.

Il gigantesco convoglio di aiuti umanitari messo insieme dalla Russia è ai confini con l’Ucraina, ma ancora non passa, anche se sembra sia stato raggiunto un accordo sulle procedure di ispezione e distribuzione.

Ma la Croce Rossa, che dovrebbe prendere il controllo dell’operazione, continua a parlare di tempi lunghi. Nel frattempo cresce il coinvolgimento “umanitario” (ma anche esplicitamente militare) degli occidentali in Iraq, e forse in un futuro prossimo anche in Siria.

Ci sono tutti gli elementi per suggerire il rischio di uno “scambio ineguale”, che lascia agli Usa ed alleati mano libera in Medio Oriente, e consente a Mosca di intervenire ancora più apertamente di quanto già non faccia (ma sempre per ragioni “umanitarie”) nella guerra civile ucraina.

Attenzione all’uso distorto dei precedenti
Questo è il rischio dei “precedenti”, che possono essere piegati e strumentalizzati ai fini più diversi, ma in questo caso essi pongono un problema evidente ed irrisolto: come bloccare o almeno moderare i conflitti, in un mondo più multipolare e quando Russia e Stati Uniti non sono perfettamente allineati? E le altre potenze che fanno, in particolare la Cina?

Il Consiglio Affari Esteri dell’Ue ha cercato di affrontare la questione, in una riunione straordinaria a Ferragosto, da un lato chiedendo a tutte le parti di facilitare l’accesso degli aiuti umanitari in Ucraina e dall’altro invitando la Russia a porre immediatamente fine alle sue attività ostili ai confini con la zona di crisi e a ritirare le forze che ha accumulato nell’area.

In particolare ha ammonito la Russia chiedendole di rinunciare ad usare qualsiasi pretesto, incluso quello “umanitario”, per giustificare un suo intervento militare. In cambio ha proposto una conferenza di pacificazione con la partecipazione di tutti i maggiori attori (Usa, Russia, Ucraina, Ue e Osce).

Nella stessa riunione peraltro il Consiglio ha lodato l’intervento militare americano in Iraq, ha chiesto un più sostenuto aiuto umanitario alle popolazioni, incluse operazioni per facilitare l’evacuazione di profughi, e ha appoggiato la decisione di fornire armamenti ai curdi.

Nel contempo ha incoraggiato il nuovo premiere designato iracheno, Haider Al Abadi, a compiere ogni sforzo per formare un governo aperto a tutte le componenti politiche, religiose e etniche. È evidente la diversità politica delle due situazioni, ma anche la difficoltà di esplicitare una strategia del tutto coerente ed universalmente accettata.

La definizione del terrorismo
Non è certo la prima volta che questo accade. Conflitti analoghi hanno diviso le Nazioni Unite negli anni della decolonizzazione, e per lunghissimo tempo hanno impedito la stessa formulazione di una definizione condivisa del termine “terrorista”, secondo la formula sin troppo abusata che il terrorista dell’uno può essere il combattente per la libertà dell’altro.

C’è voluto l’arrivo del terrorismo internazionale in tutta la sua ferocia per spazzare via queste resistenze “politichesi” e arrivare all’apprezzamento della minaccia comune e condivisa. Ora l’IS cerca di confondere le acque dando una forma pseudo-statuale alla sua identità: ma in realtà la rivendicazione del “califfato” non ha limiti territoriali e non si distingue che tatticamente dal terrorismo internazionale degli altri gruppi jihadisti.

Più tradizionale è il principio della immutabilità delle frontiere mediante l’uso della forza. Questo principio giustifica certamente (in aggiunta a tutte le altre ragioni) la sconfessione dell’IS, ma è già stato violato dalla Russia in Crimea (e, secondo il Presidente Putin, dalla Nato in Kosovo) e potrebbe creare problemi in futuro con i curdi.

In effetti sembra difficile riuscire a trovare una soluzione che non sia in primo luogo politica, e questo significa arrivare ad un accordo con paesi quali la Russia e l’Iran, che sia accettabile insieme per le maggiori potenze e per i paesi dell’area.

Sino ad allora bisognerà prepararsi ad affrontare con decisione, e senza troppe illusioni, ogni sorta di distorsione tattica del diritto internazionale. Ciò non dovrà impedire, quando necessario, l’uso della forza militare. Al contrario: è in situazioni confuse di questo genere che è necessario riportare con decisione i fatti essenziali al centro della questione, spazzando via gli opportunismi collaterali.

Tuttavia bisognerà anche ricordarsi di mantenere bene aperti e funzionanti tutti i canali politici e diplomatici necessari per arrivare a una soluzione del conflitto che le armi, da sole, non riusciranno a garantire.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
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Euro: una riglessione

conomia
L’introduzione dell’Euro, i vincitori e i vinti
Alessandro Giovannini
05/08/2014
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Con l'introduzione dell'euro non si è deciso solo di creare la prima e unica unione monetaria non legata ad un solo Stato. Dietro, vi è una scelta politica più profonda che ha portato i paesi membri a trasferire gradualmente la loro autonomia sulle politiche fiscali e a perdere sempre più il controllo su molte dinamiche finanziarie, produttive e salariali interne.

Dopo più di dieci anni dalla sua introduzione e soprattutto durante la crisi del debito sovrano, il dibattito sui costi e benefici dell’euro è più che mai intenso. È quindi opportuno tentare una parziale analisi sul tema che sia il più possibile rigorosa e completa.

Gli effetti redistributivi dell’euro tra paesi
La maggior parte della letteratura economica si è finora focalizzata sulla valutazione degli effetti redistributivi dell’euro a livello nazionale, vale a dire come l'euro ha avuto un impatto sulla disuguaglianza tra stati membri.

L'introduzione di una moneta comune in Europa è stata trainata dalla fede idealistica che il conseguente aumento del commercio e una più sana politica monetaria avrebbero portato gli stati membri a godere di sempre maggiori livelli di prosperità, ad accelerare il processo di convergenza e a favorire la creazione di un unico comune e il mercato più efficiente.

Allo stesso tempo, questo avrebbe favorito un processo di catch up - raggiungimento - tra gli stati membri, beneficiando quindi di più i paesi relativamente meno sviluppati.

L’analisi economica finora non ha raggiunto tuttavia una risposta univoca sull’effettività di questo processo. Nel periodo tra il 2000 e il 2007 vi è stato un notevole grado di convergenza delle variabili nominali, suggerendo forti progressi nel benefico processo di convergenza già in corso prima del 1999. La crisi, tuttavia, sembra aver invertito questo meccanismo: considerando in tutto il periodo 2000-2014, i paesi con il più alto livello iniziale di Pil pro capite sono infatti cresciuti relativamente di più.

Gli effetti redistributivi dell’Euro all’interno dei paesi
È ora giusto chiedersi se l'euro ha aumentato la parità economica all'interno degli stati, cioè la distribuzione del reddito all'interno degli stessi paesi. Analizzando l'andamento delle disparità di reddito nella zona euro nel suo insieme, dopo il 1999, il coefficiente di Gini che misura la diseguaglianza di una distribuzione è aumentato da 0,28 nel 2000 a 0,30 del 2007, un livello che in qualche modo uguale rispetto all’indicatore medio Gini dei paesi dell'Ocse.

Tuttavia, il solo indicatore aggregato non è necessariamente corretto, dal momento che esso nasconde importanti differenze interne. Consideriamo i due paesi che ora appaiono più lontani dal punto di vista di performance economica, Grecia e Germania.

Nel primo, tutti i decili (le dieci frazioni in cui è stata divisa la popolazione) hanno visto il loro reddito crescere più di quanto ogni decile tedesco ha visto fare negli ultimi dieci anni. La crescita del reddito disponibile è stata molto bassa in quasi tutta la distribuzione in Germania, ma in particolar modo nei decili più bassi: questo è particolarmente evidente dalla partenza del processo di convergenza al 2008 quando il 30% dei tedeschi più poveri ha subito una crescita negativa del reddito reale.

In direzione opposta, è il caso della Grecia, dove i decili più bassi hanno guadagnato nello stesso periodo rispetto al resto della popolazione.

Inoltre, osservando la quota di reddito nazionale equivalente di ciascun quintile, emerge come nel periodo 1999-2007 (barra blu), il quintile superiore della popolazione tedesca ha guadagnato circa il 4 per cento, nonostante una diminuzione in tutti gli altri quintili di reddito.

In Grecia, invece, il primo, il secondo e il quinto quintile hanno tutti guadagnato prima dello scoppio della crisi. Considerando anche il periodo della crisi (barra rossa), emerge come in Grecia i quintili centrali della distribuzione (2-4) sono riusciti a guadagnare relativamente il massimo in termini di quota di reddito nazionale, compensando i guadagni degli altri prima del 2007.

Questa tendenza di contro-bilanciamento delle evoluzioni 1999-2007 non è presente in Germania, dove negli ultimi anni il guadagno relativo del quintile superiore è diminuito solo parzialmente.

Un più serio dibattito sull’Euro
Queste mere statistiche necessitano un’analisi più attenta e completa per determinare vincitori e vinti dell’introduzione dell’euro. Tuttavia, essi suggeriscono come sia necessario un dibattito diverso e più completo di quello a cui abbiamo assistito negli ultimi anni e che ha portato a forti contrapposizioni ideologiche alquanto inconcludenti.

Solo grazie ad un’analisi simile, accompagnata dalla definizione dei componenti principali attraverso i quali la moneta comune ha avuto un impatto sulla distribuzione del reddito, sarà possibile ottenere indicazioni utili su quelle politiche necessarie per migliorare il funzionamento della zona euro e assicurare una maggiore prosperità condivisa.

Alessandro Giovannini è Associate Researcher al Centre for European Policy Studies.
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Calma piatta ad agosto

eoeconomia e geopolitica 
Lo strano torpore dei mercati
Cesare Merlini
04/08/2014
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È impressionante la bonaccia dei mercati finanziari e commerciali a fronte dei venti di guerra che segnano i nostri giorni. Le pagine di cronaca internazionale e quelle di economia sembrano appartenere a giornali di epoche diverse.

Eppure quello che si usava chiamare "arco delle crisi" è tornato prepotente, dai trecento morti dell'aereo di linea malese abbattuto nei cieli della "drole de guerre" ucraina fino al caos libico, passando per lo scontro mortale fra etnie in Iraq e Siria e il devastante attacco israeliano a Gaza.

Volatilità mercati finanziari 
Il "ritorno della geopolitica" è stato ripetutamente proclamato, in particolare in occasione dell'annessione russa della Crimea, pur avvenuta senza quasi colpo ferire. Da parte sua, il ministro degli esteri britannico ha parlato di "systemic disorder".

Per contro, l'indice di volatilità dei mercati azionari si muove intorno a un quarto dei valori dell'inizio di febbraio (al tempo delle brutte notizie dalle economie emergenti), a loro volta situati a circa un quarto di quelli attorno a cui oscillavano alla fine del 2008, allo scoppio della Grande Recessione.

Il calo degli indici di borsa nel mese di luglio è attribuito principalmente a valutazioni economiche. E i manager degli hedge funds non coinvolti nel default argentino fanno sapere di essere andati in vacanza.

E, malgrado le instabilità coinvolgano duramente importanti produttori di idrocarburi, i prezzi del petrolio tendono a situarsi verso il basso delle forchette previste dagli analisti.

Due letture si possono dare di questo stato di cose un po' sorprendente. La prima è quella del fenomeno contingente. I mercati sono relativamente calmi anche grazie all'attuale larghezza della banche centrali.

Ad ogni momento, a partire dall'indomani della redazione di queste note, una più forte percezione dell'instabilità a causa dell'acuirsi di una qualsiasi di queste crisi può portare a oscillazioni e cadute dei corsi. Cosa che peraltro alcuni osservatori finanziari danno comunque per molto probabile entro la fine dell'anno, ma più per effetto di un cambio di rotta di Janet Yellen, governatore del Fed, che di un'alzata di ingegno del presidente russo, Vladimir Putin.

La seconda lettura è di sistema, in quanto contempla uno spostamento dell'asse del sistema internazionale dalla geo-politica all'interdipendenza economica.

Mercato della sicurezza in declino
Per usare un gergo da borsa, si potrebbe sostenere che oggi il mercato della sicurezza è in declino. La domanda non tira. Morire per la Crimea? Immischiarsi fra sciiti e sunniti? Meglio Assad o i jihadisti? Eccetera.

Ma anche l'offerta è debole: il presidente americano è restio a usare la forza (fra le critiche di politologi e oppositori, ma con il consenso di gran parte dell'opinione pubblica nazionale); dell'Europa non parliamo.

Dall'altra parte, l'economia mondiale è impegnata nel tentativo di uscire dalla crisi e dai conseguenti sconquassi che hanno reso fragili tante delle sue componenti nazionali. La globalizzazione non è morta e i mercati danno prova di callosità rispetto alle guerre, ai rifugiati e ai morti.

E se mai, è l'economia a invadere il terreno della sicurezza, dal momento che le sanzioni sono spesso chiamate a fungere da protesi sostitutive delle armi tenute in serbo, per una logica fondata sull'interdipendenza.

Non necessariamente le due letture sono alternative. Il declino della geo-politica non può che essere parziale e graduale. Ma forse è irreversibile, e già sembra dirci che l'asticella delle crisi oltre la quale si ha lo sconquasso, o comunque l'instabilità, dei mercati è adesso più alta.

L'Unione europea può beneficiare di un maggior peso dell'economia nella sicurezza internazionale, data la sua poca consistenza in materia di "hard power".

Ma questo non significa potersi adagiare nell'irresponsabilità. Significa elaborare una concezione più strategica dell'economia, inclusa la valutazione dei costi (economici) e dei ritorni (in termini di sicurezza) nell'uso dei suoi strumenti. A cominciare dalle sanzioni.

Cesare Merlini è Presidente del Comitato dei Garanti dello IAI.
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mercoledì 10 settembre 2014

Come affrontare l'emergenza immigrazione

Immigrazione
Un Commissario Ue per il Mediterraneo 
Filippo di Robilant, Nathalie Tocci
14/07/2014

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“Viviamo intorno ad un mare come rane intorno ad uno stagno”, diceva Socrate del Mediterraneo. Non un mare che separa, quindi, ma uno stagno che unisce: un’immagine di comunità che oggi, quasi duemilacinquecento anni dopo, stentiamo a riconoscere. 

Già gli antichi romani parlavano in maniera rivendicativa di Mare Nostrum, la cui retorica ha resistito fino a oggi, al punto che si è arrivati a farne paradossalmente il nome di un’operazione navale per fronteggiare i flussi di migranti provenienti dalla sponda sud.

Compiti della Presidenza italiana
La Presidenza italiana dell’Ue si è aperta in un momento particolarmente drammatico e bene ha fatto a porre l’immigrazione come tema centrale.

Tema caldo che in Europa dovrebbe interessare anche i paesi freddi perché in questi anni non poche crepe si sono aperte nelle loro democrazie avanzate e nel loro “modello sociale” universalmente ammirato per come combinava, in modo virtuoso, crescita economica e welfare, tradizioni nazionali e apertura verso l’esterno.

Un progetto sistematico e coerente di rilancio di una società aperta in chiave liberale e democratica (ed europea) non è stato elaborato da nessuna delle principali famiglie politiche del continente e neppure da singoli governi. La Presidenza italiana, invece di presentarsi con un’agenda unilaterale, dove chiede solo per sé, meglio farebbe a proporre un progetto nell’interesse di tutti.

Regolamento di Dublino, Mare Nostrum e Frontex Plus
Da dove cominciare, allora? Respingendo il paradigma lanciato a suo tempo dalla destra xenofoba “immigrato uguale criminale” che ha ottenuto molto successo, al punto che ancora oggi il fenomeno viene affrontato soprattutto attraverso la lente securitaria, ma anche aggiustando quello lanciato dalle parti politiche e sociali più sensibili al tema e cioè “immigrato uguale forza lavoro”. 

Aggiustarlo, come ha scritto il demografo Massimo Livi Bacci, in quanto “zoppo”: occorre aprirsi agli immigrati sia per ragioni funzionali alla crescita economica e come contrappeso al processo d’invecchiamento della nostra società, sia per considerazioni umanitarie, per definizione non selettive.

Se è vero, come stigmatizzato da alcuni stati membri, che “il tasso di dispersione” dei migranti che arrivano in Italia è troppo alto, è velleitario pensare di superare, in questa fase, il principio di Dublino - secondo cui il paese di primo ingresso è competente per l’esame della domanda di asilo - perché si incontrerebbero troppe resistenze (il principio di Dublino è stato di recente rivisto, ma solo parzialmente).

La proposta di introdurre un altro principio, quello del mutuo riconoscimento delle decisioni di asilo - che avrebbe in futuro permesso di aggirare la norma - è stato infatti subito bloccato dai paesi nordici, quegli stessi che chiedono una maggior ripartizione nei reinsediamenti, soprattutto per i siriani.

Né il phasing out di Mare Nostrum in Frontex Plus appare di facile e rapida realizzazione perché, ammesso che si raggiunga un accordo di principio, occorrerebbe trovare le cospicue risorse necessarie, essendo vuote le casse di Frontex. 

Anche gli screening centers in loco sono fuori discussione finché i paesi di transito, Libia in primis, non avranno trovato quel minimo di stabilità per garantire la sicurezza delle operazioni. Analoghe ragioni - mancanza di stabilità e di interlocutori istituzionali - non consentono, con l’eccezione della Giordania, ulteriori accordi di partenariato sulla sicurezza e la mobilità sul modello di Marocco e Tunisia.

L’idea vacua di un Commissario all’Immigrazione
Tutte obiezioni che si oppongono alla creazione di un Commissario Ue all’Immigrazione, idea che circola nelle cancellerie europee, sponsorizzata, non si sa in quale misura, dal governo italiano. 

Tale funzione sarebbe solo di facciata, non essendo previsti mezzi, strutture e strumenti per spalleggiare in maniera credibile un ruolo che rischia di rivelarsi controproducente. Sarebbe un classico della politica: quando non si sa o non si vuole risolvere un problema spinoso, ma di grande impatto pubblico, ci s’inventa una nuova funzione ad hoc.

Meglio creare allora un Commissario Ue per il Mediterraneo, a cui affidare le politiche di settore per quell’area geografica (commercio, cooperazione, agricoltura, pesca, formazione), con capitoli di bilancio già esistenti e personale qualificato già operativo nelle diverse direzioni generali. 

Strumenti con cui il Commissario per il Mediterraneo potrebbe presentarsi come un interlocutore unico, capace di trattare e - del caso - di imporre. In altre parole, quella che oggi chiameremmo governance mediterranea, con una visione che inglobi tutta l’area del “grande mediterraneo”.

Politica di vicinato al capolinea
Ma è essenziale che al contempo si riveda la Politica europea di vicinato (Pev), nel suo complesso. Le crepe interne della Pev, abbinate alla crisi ucraina a est e alle rivolte arabe a sud, segnalano che questa politica, figliastra della politica di allargamento, ma priva della stessa forza trasformatrice, è ormai giunta al capolinea.

È inconcepibile che le politiche a est continuino a essere disegnate sulla falsariga delle politiche di allargamento. Sia per il Sud che per l’Est l’Unione europea dovrà elaborare nuovi schemi mentali e nuove strategie. Intraprendere questo complesso processo di ripensamento attraverso un disegno istituzionale chiaro - un Commissario per l’Europa orientale e un Commissario per il Mediterraneo - sarebbe un buon inizio. 

Filippo di Robilant è membro del Comitato Direttivo dello IAI; Nathalie Tocci è vicedirettore dello IAI.

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lunedì 8 settembre 2014

IAI: Newletter 17 luglio 2014

Oggetto Newsletter :
Flop nomine Ue, South Stream congelato, negoziati Hamas-Israele
Newsletter n° 329 , 17 luglio 2014

Slitta a fine agosto l’intesa sulle nomine Ue. A opporsi alla candidatura di Federica Mogherini a Mrs Pesc sono in primis alcuni paesi dell'Europa centro-orientale diffidenti per la posizione ‘filo-russa’ dell'Italia, che è ora sulla difensiva.
A nutrire la diffidenza di questi stati è anche il futuro di South Stream, pomo della discordia nel cuore dell'Ue il cui progetto è stato ieri sospeso.
Difficile anche l'intesa su una tregua tra Hamas e Israele. A cercare la mediazione è ancora una volta l'Egitto.

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Gli intrecci tra politica e sport

Dal calcio alla politica vincono i rigoristi 
Cesare Merlini
17/07/2014
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Se i risultati delle elezioni europee hanno consacrato la centralità della Germania nella geopolitica dell’Unione europea (Ue), la Coppa del Mondo vi ha aggiunto la centralità nel “geo-calcio globale”.

Germania vs Argentina: rigoristi vs debitori
La stampa si è sbizzarrita sulle coincidenze che hanno accompagnato la finale del Maracanà fra le nazionali argentina e tedesca. Dalle corrispondenti origini dei due papi, quello in carica e quello emerito, ai leader-donna di entrambi i paesi.

Tutte coincidenze senza precedenti nella storia - non solo del calcio. Meno inaudita, forse, una terza coincidenza, quella della partita di pallone che si disputa fra la “powerhouse” economica dell’Europa e la nazione più a sud del continente americano che è spesso, come ora, sull'orlo della bancarotta. Detto così, sembra ovvio che la vittoria sia andata alla prima.

Di coincidenze se ne erano avute anche prima delle finali. A cominciare da quelle riguardanti noi del Vecchio Continente. Fin dal primo girone sono state espulse da una parte una Russia che si allontana per la crisi ucraina e dall'altra il cuore inglese di una Gran Bretagna che contempla l'uscita dalle istituzioni comuni dell’Ue.

Campioni di austerità e di pallone
Per l'area euro la fase eliminatoria si è tradotta in un impietoso stress test di economie indebitate e annaspanti. Italia, Portogallo e Spagna, illustri protagonisti della storia del calcio, sono stati bocciati al primo turno, la Grecia al secondo e la Francia al terzo.

A disputarsi il podio sono rimasti i paesi virtuosi, i campioni della riforma e dell'austerità, prima che del pallone. Germania e Olanda finiscono poi in prima e terza posizione, come si conviene alla gerarchia di potenza economica.

A conferma di una percezione diffusa che il denaro conta negli esiti del calcio, dopo la drammatica sconfitta della Selecao brasiliana ospite da parte dei futuri vincitori del trofeo, qualcuno ha fatto furore nei social media brasiliani “postando” la cancelliera tedesca Angela Merkel che dice alla al presidente brasiliano: “mi dispiace, Dilma, è che io pago in euro”.

Eppure Daniel Kaufman della Brookings Institution ha fatto un'analisi degli esiti delle suddette fasi eliminatorie negli stadi del Brasile per concludere che l’avanzare delle squadre non è per niente correlato con il prodotto interno lordo dei rispettivi paesi, mentre sembra esserlo, in senso positivo, con il grado di democrazia, misurato e definito come “voice & accountability” dai Worldwide Governance Indicators.

Solo un'altra coincidenza propria dell’anno del signore 2014 o qualcosa di più?

Geo-calcio globale 
La Coppa del mondo 2014 ha consacrato la crescente visibilità internazionale di questa competizione, caricandola di significati e simbolismi che vanno ben oltre il gioco e il colore. L’espressione “geo-calcio globale” potrebbe meritare di essere liberata dalle virgolette. Il calcio non è globale come le Olimpiadi, tanto che le due nazioni più popolose della terra, Cina e India, erano assenti da questa edizione. Tuttavia, più delle Olimpiadi, gode di grande popolarità.

Negli Stati Uniti, il semplice passaggio della nazionale agli ottavi di finale è stato sufficiente ad attirare un'audience domestica superiore a quella della finale di basket della storica Nba. Anche nei paesi non partecipanti si legge di gente incollata agli schermi. Né si deve dimenticare l’attenzione riservata dal pubblico - ormai non solo europeo - ad altre gare di calcio, come quelle della Coppa dei Campioni, che ha il pregio di svolgersi ogni anno anziché ogni quattro.

Le competizioni sportive ad alta visibilità incidono sulle opinioni pubbliche mondiali. Ciò contribuisce all’evoluzione in atto delle relazioni internazionali, che sempre meno si limitano a quelle fra stati, mentre cresce il ruolo delle società e delle interazioni fra di esse. Il conseguente coinvolgimento di interessi e passioni comporta sia dei rischi sia delle opportunità.

Fra i primi vi è innanzitutto la violenza, la politicizzazione e il razzismo delle tifoserie, delle cui manifestazioni locali abbiamo avuto tragici esempi in Italia e in Israele di recente (ma assai poco, è giusto rilevarlo, nel corso della manifestazione brasiliana). In aggiunta, ci sono i ricorrenti casi di corruzione, manipolazione di gare per scommesse e interferenza nell’organizzazione di eventi.

Vi sono anche potenzialità positive insite nell’impatto della visibilità delle competizioni sportive sulle relazioni internazionali ed è il loro essere manifestamente sottoposte a regole condivise (che anzi si tende a rendere ancora più stringenti con l'ausilio della tecnologia).

Ne deriva che anche per il calcio mondiale si pone sempre più un problema di “governance”, di sistema di governo atto ad agire sistematicamente e coerentemente per disinnescare o combattere i rischi e per coltivare le opportunità.

Su di esso si devono confrontare le sedi preposte, a cominciare dalla Fifa che è notoriamente affetta da immobilismo. Non saranno gli striscioni, esposti negli stadi con qualche ipocrisia, ad avvicinarci alla soluzione. Di maggiore aiuto sarebbe leggere attentamente il significato delle coincidenze e dei simboli.

Cesare Merlini è Presidente del Comitato dei Garanti dello IAI.
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venerdì 5 settembre 2014

Che cosa è la Guerra Culturale di Amedeo Maddaluno

Da ISAG.


Amedeo Maddaluno Geopolitica & Teoria 0 commentI
Che cos’è la “guerra culturale”
È possibile immaginare una guerra simmetrica e di massa tra nazioni strettamente collegate tra loro dal commercio e dalla finanza? Difficile, eppure la globalizzazione rimane incompiuta: non conduce alla “pace perpetua” dei mercati ma anzi viaggia in parallelo col un ritorno della regionalizzazione. Uno dei temi sempre più all’attenzione degli analisti è quello della proxy war, cioè la guerra per procura combattuta su teatri locali per conto delle potenze regionali e globali da parte di guerriglieri, terroristi, spie e mercenari.
Le grandi operazioni coperte, dalla Baia dei Porci e dagli eserciti segreti come la struttura Gladio fino all’Afghanistan, sembravano un ricordo della Guerra Fredda. Con il suo apparato ideologico, essa poteva contare su “quinte colonne” che ciascun schieramento infiltrava in quello avversario e con le imponenti risorse che le due superpotenze potevano destinare per mantenerle raggiungere i propri obiettivi. In realtà l’uso massiccio dell’attività di intelligence, di propaganda e di infiltrazione tra le popolazioni locali non è mai caduto in disuso ed è tutt’altro che circoscritto alla guerra al terrorismo dove il nemico è asimmetrico o comunque non solo costituito da un’altra entità statale. Le grandi potenze, ferite dai conflitti vietnamita, ceceno, dal primo e dal secondo conflitto afghano e da quello iracheno, si sono anzi rivolte in tempi recenti sempre più al modello della guerra aerea a distanza, della proxy war e dell’infiltrazione. Della proxy war il conflitto ucraino ha tutte le caratteristiche, con il proprio contorno di infiltrati e sabotatori, forze speciali e mercenari. Si sospetta e sovente si accredita la presenza negli scontri di membri delle forze speciali russe, di mercenari di compagnie americane oltre che di guardie ed eserciti privati degli oligarchi schierati sui differenti fronti: come distinguere il mercenario dal consigliere militare e “addestratore” a pagamento? A ciò si aggiunge inoltre il contorno della guerra di propaganda sui media – inclusi quelli 2.0 – la diffusione di false notizie, gli attacchi hacker della nuova cyber war, l’uso a tutto campo della guerra ideologica collegato attivamente con l’infiltrazione di agenti e l’attività di intelligence. Soprattutto, il conflitto ucraino è un conflitto per procura in quanto sopportato quasi interamente da forze locali, per quanto eterodirette.
Molti dei principali attori globali si trovano ad affrontare problemi concreti di flessione demografica: non parliamo solo dei paesi dell’Europa Occidentale e dello spazio ex-sovietico o di Paesi ormai entrati a far parte a pieno titolo della modernità come la Cina. Ad esempio, un rilevabile calo delle nascite interessa anche l’India, il Sud Est Asiatico e il Sud America e sembra non riguardare solo l’Africa e la parte meno ricca del mondo arabo. Insieme alle necessità di efficientazione delle spese militari, questi fenomeni sociali stanno conducendo molti eserciti ad una fase di riorganizzazione e ricerca di strutture più snelle, appunto più efficienti e tra loro coordinate al fine di puntare sempre di più sull’utilizzo di corpi speciali e Task Forcesinterforze. L’esercito industriale dalla struttura estesa ma rigida sta mutando: nel contesto NATO il modello della Divisione, con la sua completa autonomia tattico/strategica, viene integrato (per non dire) sostituito da un modello organizzativo basato sulla più agile e snella Brigata. Si assiste ad un fenomeno circolare: eserciti più piccoli necessitano di maggior potenza di fuoco e tecnologia; tecnologia e potenza di fuoco richiedono di sostenere costi sempre più importanti che conducono alla scelta di contenere le dimensioni degli eserciti.
Nonostante l’implementazione dell’alta tecnologia e l’uso dell’arma aerea rappresentino due nitide tendenze operative e tattiche, su questi due livelli – e spesso anche su quello strategico – si conferma la difficoltà strutturale degli eserciti tradizionali ad affrontare nemici “asimmetrici” – terroristi, guerriglieri, criminali. Si tratta di nemici non necessariamente più poveri, ma spesso più agili e attivi su territori di difficile accesso come gli ambienti geografici estremi o le cosiddette “giungle urbane”. Nelle moderne megalopoli, ad esempio, armi semplici, robuste ed affidabili come un Kalashnikov vincono sui più sofisticati sistemi d’arma e sui più complessi apparati bellici proprio in virtù delle minori necessità di manutenzione, della più rapida possibilità di dispiegamento, delle contenute esigenze logistiche. Da qui la tendenza, da parte delle potenze globali e regionali, a “delegare” la guerra ai mercenari e a forze locali supportate e coordinate da propri reparti speciali e Task Forces.
Le Potenze hanno dunque appreso a fatica una lezione: si risponde asimmetricamente al nemico asimmetrico, senza più cercare di imporre le proprie regole tattiche ed operative su un terreno di scontro che egli conosce e domina. Possiamo trovare diversi esempi concreti: nel conflitto russo in Afghanistan, tra le poche operazioni sovietiche definibili come di buon successo vi furono quelle che impiegavano reparti speciali aviotrasportati forti della sorpresa e con alto addestramento e motivazione. Truppe speciali di professionisti – non militari di leva “costretti” – con alto addestramento che si servivano in modo preciso e chirurgico di una delle poche armi non facilmente a disposizione del guerrigliero: l’aviazione. Più di recente, nella War on Terror americana l’eliminazione dei terroristi non avviene tramite il velleitario tentativo di occupazione di vasti territori sconosciuti e abitati da popolazioni più o meno ostili (o comunque diffidenti e portatrici di un lingua e di una cultura “altra”), ma tramite l’uso di intelligence, di corpi speciali e dell’impiego specifico, calcolato e mirato di alta tecnologia (i droni). Anche se fondate su un forte controllo del territorio, le mafie si fanno forti della loro capacità di mimetizzarsi tra i civili e non possono essere considerate “nemico simmetrico”: anche in questo caso la risposta militare degli Stati cerca di rendersi flessibile e prevede l’uso massiccio di corpi ad hoc: oltre all’intelligence, si può far riferimento al BOPE e alla Policia Pacificadora in Brasile e alla la Marina in Messico. Deve far riflettere il seguente dato di fatto: le più efficaci operazioni antimafia condotte in Italia hanno carattere investigativo e non puramente militare. La lotta contro il crimine organizzato più ancora di quella contro il terrorismo – per quanto il confine tra i due fenomeni divenga via via più labile a partire dalla seconda metà del Novecento fin quasi ad annullarsi nei giorni nostri – ci guida nel nostro ragionamento: l’esempio italiano è di maggior successo rispetto a misure sudamericane ancora troppo “simmetriche”, specie quando trascurano l’azione preventiva a livello sociale e culturale rispetto a quella puramente militare.
Eccoci arrivati dunque all’aspetto sociale. Un elemento impossibile da trascurare è appunto quello della guerra ideologica e culturale, versione ancora più soft ma assai potente, penetrante ed efficace sul medio e lungo termine nell’aggredire la reputazione di un Paese e la sua immagine, assai più incisivo dell’ information warfare a colpi di TV, YouTube e social networks. Anche dopo la fine delle grandi ideologie del Novecento, anzi, forse proprio in virtù della perdita di appigli ideologici “immediati” (almeno in Occidente, dove sono stati sostituiti dal ripiego individualistico liberaldemocratico), questa rimane la battaglia per i cuori e per le menti delle popolazioni coinvolte ovvero l’humus primario che genera “l’avversario” e in cui l’avversario si mimetizza. Non solo: è la battaglia per i cuori e le menti delle opinioni pubbliche “terze”, distanti dai campi di battaglia fisici ma dotate di potenziale di influenza sui propri governi. In Italia è ormai consegnato alla storia il caso del quotidiano Il popolo d’Italia, fondato da Mussolini e finanziato dalle potenze dell’Intesa per agire sull’opinione pubblica italiana in senso interventista e contrario agli Imperi Centrali: per quanto lampante, questo è solo uno degli esempi.
Torniamo ad utilizzare il recentissimo modello rappresentato dal caso ucraino, dove le potenze giocano la propria partita supportando con le proprie forze economiche e di intelligence attori ideologicamente affini: l’Occidente con le forze politiche sensibili al richiamo del modello liberista rappresentato da USA e UE e – legittimo sospettarlo – anche con l’ultradestra nazionalista ucraina, non gradita e nemmeno simpatetica sul piano ideologico ma comunque assai utile in un campo dove invece i servizi e gli apparati militari e politici Russi operano a supporto dei separatisti. Da tempo sui media occidentali si assiste all’intensificarsi della campagna di immagine antirussa, che ora si trova a correre in parallelo alla crisi ucraina. Per esempio, nell’immaginario occidentale ad essere “mangiati” oggi in Russia non sarebbero più i bambini ma gli omosessuali che per converso ottengono sempre più spazio nel dibattito politico e sociale di Europa ed USA. Tale spazio ha il suo contraltare nella campagna russa contro l’“Occidente in decadenza”: entrambe queste tendenze sembrano difficilmente catalogabili come casuali o dettate da semplici motivi ideali, pur essendo ravvisabili anche precedentemente allo scoppio della crisi ucraina, quasi a trovarsi già pronte “in caso di necessità di un nemico moralmente deprecabile”. È molto difficile elidere l’aspetto di dibattito interno su questo o altri temi socialmente sensibili dalla strumentalizzazione propagandistica. La Russia ex-sovietica, dove sempre più strumenti e metodi sovietici di gestione del potere godono di successo ed uso, coglie l’opportunità di accreditarsi come custode dei valori della tradizione. Un Occidente che attraversa la più grande crisi dei diritti acquisiti della storia contemporanea – il diritto al lavoro e in generale tutti i diritti di sicurezza sociale – coglie invece la doppia occasione di confermarsi alla propria opinione pubblica proprio come baluardo di diritti, ovviamente non più i diritti “sociali” e “di comunità”, pericolosi per le logiche liberiste, ma dei diritti dell’individuo, consacrati come gli unici inderogabili: una guerra culturale doppia, valida quindi anche per il fronte interno.
La “guerra culturale” mira a presentare al mondo i valori di fondo del proprio schieramento come “i” valori universali al fine di isolare l’avversario. I mujaheddin afghani non erano certo i migliori vindici dei “valori occidentali” ma erano anticomunisti; l’estrema destra ucraina è un pessimo esempio di tolleranza liberale ma è antirussa. D’altro canto, l’America fa ottimi affari con Paesi non certo classificabili come tolleranti verso gli omosessuali – basti pensare all’Arabia Saudita. Eppure mentre la logica che vuole “il nemico del mio nemico come mio amico” è orientata inesorabilmente al breve termine, la guerra culturale è strategicamente lungimirante e, lo ripetiamo, punta a forgiare la mentalità di interi popoli sul lungo periodo. Ogni giornalista, atleta, blogger, scrittore o famoso intellettuale – che magari fa professione di mite pacifismo – è un soldato, consapevolmente o meno. La “cultura” ed i “valori” sono un’arma, anche dopo la fine della contrapposizione tra blocchi della Guerra Fredda, contrapposizione per l’appunto fondata e spesso nutrita dall’ideologia – ideologia ovviamente asservita alla politica. Consapevolmente o meno.

È presto per dire se una guerra fatta principalmente di propaganda e di ideologia, di sabotaggi ed infiltrazioni, di spie e hacker, di controllo dei media e degli strumenti internet denoti debolezza o mancanza di una visione strategica chiara e forte da parte delle potenze – statuali ed economiche – o se invece rappresenti l’esatto contrario: una disponibilità a combattere con ogni mezzo per raggiungere i propri scopi. Una cosa è chiara: i poteri economici e politici (abbiano essi o meno dopo la fine della Guerra Fredda una chiara visione del mondo) lottano per conquistare come sempre non solo i corpi ma anche i cuori e le menti, come insegnano i manuali di guerriglia e di contro-insorgenza. Lo stratega militare e politico dei prossimi decenni dovrà considerare l’uso delle tecnologie, l’uso della guerra coperta condotta da agenti segreti e corpi speciali e l’uso della guerra ideologica e culturale come strumento bellico ancora forte e trainante nei conflitti e delle rivalità tra potenze: tutt’altro che un semplice supporto “esteriore”. Si tratta di tre dimensioni di una “guerra di infiltrazione”, che molto probabilmente è l’unica – insieme alla assai simile “guerra per procura” di cui parlavamo in principio – che si può combattere in un mondo dove le economie sono strettamente interdipendenti.

giovedì 4 settembre 2014

Geopolitica del Cibo. La questione della Sicurezza alimetare

30/06/2014 Simona Bottoni Geoeconomia 0 commentI
Il problema della sicurezza alimentare nel nuovo paradigma geopolitico multipolare
Viene qui riportata la relazione della Dott.ssa Simona Bottoni, ricercatrice dell’IsAG, presentata in occasione della conferenza “Geopolitica del cibo. La questione della sicurezza alimentare“, tenutasi a Roma, presso la Sala delle Colonne (Camera dei Deputati) di Palazzo Marini il 16 maggio 2014.

La definizione di sicurezza alimentare comunemente accettata a livello internazionale è quella elaborata nel World Food Summit del 1996, e cioè una situazione in cui: “tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico, sociale ed economico ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti, che garantiscano le loro necessità e preferenze alimentari, per condurre una vita attiva e sana”. Lo sradicamento della malnutrizione è uno degli obiettivi basilari della politica di Sicurezza Alimentare e Nutrizionale nel mondo. Il principale obiettivo di sviluppo fissato a livello internazionale per il nuovo millennio è l’eliminazione della povertà. In passato gli interventi di sicurezza alimentare erano tra gli ultimi punti dell’agenda politica internazionale e la problematica era affrontata quasi esclusivamente nelle situazioni di emergenza, mentre oggi le politiche per la sicurezza alimentare siano diventate un elemento fondamentale delle strategie di sviluppo delle aree arretrate.
Nel 1996 il World Food Summit si è posto l’obiettivo ambizioso di dimezzare il numero dei sottonutriti al 2015, riducendolo – se così si vuol dire – a circa 400 milioni di persone sottonutrite (essendo stimato in oltre 840 milioni il numero di quelle che risultano esserlo nel 2013).
Secondo le proiezioni della Fao i progressi compiuti verso la riduzione della fame sono troppo lenti per raggiungere la soglia fissata dal World Food Summit del ‘96. Se le attuali tendenze non si modificheranno, nei Paesi in via di sviluppo avremo 170 milioni in più di persone sottonutrite rispetto all’obiettivo stabilito dal Summit e i divari saranno particolarmente severi in termini assoluti per l’Africa Sub-Sahariana e il Sud Asia. Per il futuro abbiamo sicuramente una certezza: nonostante i progressi compiuti verso l’eliminazione della fame, nessuno degli obiettivi posti dalla comunità internazionale sarà sicuramente raggiunto.
Negli ultimi decenni si è verificata un’inversione di tendenza nella formulazione originaria dell’economia globale: prima avevamo un basso costo del cibo ed una sostanziale autonomia alimentare dei maggiori Paesi del Terzo Mondo (arabi e dell’Africa sub Sahariana).
Oggi, per la prima volta dopo la fine del mondo bipolare, le aree periferiche si trovano inserite, in posizioni di debolezza, in un mercato del cibo globale che va verso un’industrializzazione che non è quella del sistema di fabbrica.
Oggi tutto cambia: c’è la globalizzazione, l’aumento demografico, la penetrazione dei mercati mondiali nell’agrifood africano ed asiatico, l’aumento dei prezzi dei prodotti non alimentari.
I nuovi equilibri sono semplici:
- L’espansione dei mercati interni a prezzi elevati – da un lato;
- Lo stretto collegamento del costo del cibo prodotto nel Terzo Mondo con quello degli idrocarburi, che servono sia come fertilizzanti che per gestire le coltivazioni ed i trasporti – dall’altro.
Quindi:
- più aumenta la bolletta energetica del Terzo Mondo, più diminuisce la disponibilità di cibo da acquistare sull’open market globale;
- più aumentano la popolazione locale e l’asimmetria con cui è distribuita tra città e campagne, più diminuisce la produttività dei suoli ed aumenta la schiavitù degli usi e consumi di tipo occidentale da parte dei nuovi poveri nelle periferie del mondo, coi relativi costi.
In termini strettamente quantitativi, c’è cibo a sufficienza per sfamare l’intera popolazione mondiale che attualmente è di oltre 7 miliardi di persone. E’ corretto, dunque, chiedersi perché nel mondo – nel 2013 – 842 milioni di persone – circa il 15% dell’intera popolazione del pianeta – soffrono la fame; perché 1 persona su 8 è affamata; perché nei PVS 1 bambino su 6 è sottopeso. Oggi si calcola che, nel mondo, muoiano ogni anno 40 milioni di persone per cause legate alla fame o alla malnutrizione e sottonutrizione. Eppure il Diritto all’alimentazione è uno dei principii sanciti nella “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” del 1948.
Insomma è giusto chiedersi perché esiste la fame.
Le cause sono diverse, tutte importanti allo stesso modo, e su ciascuna di esse dovrebbe essere operato un correttivo ai competenti livelli della gestione politica dei vari sistema-paese e globali.
Una delle cause della persistenza della fame è senz’altro l’aumento dei disastri naturali, come le inondazioni, le tempeste tropicali e i lunghi periodi di siccità, con terribili conseguenze per la sicurezza alimentare nei paesi poveri e in via di sviluppo. I cambiamenti climatici causati dalle emissioni nocive (gas serra) e dai cambi di uso del suolo hanno provocato il riscaldamento degli oceani, la fusione dei ghiacci e la riduzione della copertura nevosa, l’innalzamento del livello medio globale marino e modificato alcuni estremi climatici, favorendo l’aumento della temperatura media del globo (+1-2,3%) che causa siccità . Secondo l’IPCC “Le emissioni di gas serra che continuano a crescere provocheranno ulteriore riscaldamento nel sistema climatico. Il riscaldamento causerà cambiamenti nella temperatura dell’aria, degli oceani, nel ciclo dell’acqua, nel livello dei mari, nella criosfera, in alcuni eventi estremi e nella acidificazione oceanica. Molti di questi cambiamenti persisteranno per secoli”. L’estensione dei ghiacci continuerà ad assottigliarsi, tanto che probabilmente sarà possibile una fusione totale dei ghiacciai artici già entro il 2050. La siccità è oggigiorno la causa più comune della mancanza di cibo nel mondo. Nel 2006, siccità ricorrenti hanno causato il fallimento dei raccolti e la perdita di ingenti quantità di bestiame in Etiopia, Somalia e Kenia. In molti paesi, il cambiamento climatico sta inasprendo le già sfavorevoli condizioni naturali: gli agricoltori poveri in Etiopia o Guatemala, in assenza di piogge, tendono generalmente a vendere il bestiame per coprire le perdite ed acquistare cibo. Ma anni consecutivi di siccità, sempre più frequenti nel Corno d’Africa e nel Centro America, stanno mettendo a dura prova le loro risorse.
Altra causa della persistenza della fame nel mondo sono certamente i Conflitti. Dal 1992 la percentuale delle crisi alimentari causate dall’uomo, di breve o lunga durata, è passata dal 15 al 35% e molto spesso sono i conflitti ad esserne la causa scatenante.
Dall’Asia all’Africa all’America Latina, i conflitti costringono milioni di persone ad abbandonare le proprie case, causando emergenze alimentari globali. I dati della FAO indicano che i disastri indotti dall’uomo rappresentavano non più del 10% delle emergenze totali a metà degli anni ‘80, mentre hanno superato il 50% all’inizio del nuovo millennio. Sempre la FAO stima che tra il 1970 e il 1997 le perdite medie annue nella produzione agricola causate dalla guerra (senza considerare le perdite nella dotazione di capitale e altri costi indiretti) siano state pari a 4,3 miliardi di USD, registrando poi un trend crescente. Lo stesso ammontare di risorse finanziarie sarebbe stato sufficiente ad assicurare adeguata nutrizione a 330 milioni di persone povere malnutrite e si sarebbero risparmiate molte risorse finanziarie destinate agli aiuti alimentari d’emergenza.
Solo 3 dei 56 principali conflitti armati registrati tra il 1990 e il 2000 sono stati di tipo inter-statuale, in tutti gli altri casi si è trattato di conflitti interni, anche se in ben 14 casi sono state assoldate forze militari straniere da una o più parti in conflitto. Africa ed Asia sono i continenti maggiormente interessati sia dai nuovi conflitti che dall’insicurezza alimentare. La pace e lo sviluppo e la lotta alla povertà e alla fame si rafforzano reciprocamente: la costruzione di un mondo di pace si lega indissolubilmente ad un mondo libero dalla fame.
Il recente passato ha sperimentato molto frequentemente tragedie alimentari che si sono intrecciate al venir meno di condizioni di pace e di sicurezza. Dal 2004, oltre 1 milione di persone ha dovuto abbandonare le proprie abitazioni a causa del conflitto nel Darfur (regione del Sudan), provocando una grave crisi alimentare, in un territorio dove solitamente non mancavano piogge e buoni raccolti. In periodo di guerra il cibo diventa un’arma: i soldati inducono alla fame i nemici rubando o distruggendo loro cibo e bestiame e colpendo sistematicamente i mercati locali. I campi vengono minati ed i pozzi contaminati per costringere i contadini ad abbandonare la propria terra. E’ un dato di fatto che dove c’è una guerra in corso la percentuale di persone che soffrono la fame aumenta; mentre la malnutrizione diminuisce nelle zone più pacifiche.
Ulteriore causa della fame nel mondo è la povertà. Nei paesi in via di sviluppo gli agricoltori spesso non possono permettersi l’acquisto di sementi sufficienti a produrre un raccolto che soddisferebbe i bisogni alimentari delle proprie famiglie. Agli artigiani mancano i mezzi per acquistare il materiale necessario a sviluppare le proprie attività. Gli indigenti non hanno abbastanza denaro per comprare o produrre il cibo necessario al sostentamento delle proprie famiglie. Essi diventano, quindi, troppo deboli per produrre il necessario per procurarsi più cibo. I poveri sono affamati ed è la stessa fame ad intrappolarli nella povertà, che diventa un circolo vizioso.
C’è, poi, il problema delle infrastrutture agricole: nel lungo periodo, il miglioramento delle tecniche agricole rappresenta una delle soluzioni alla povertà ed alla fame. Secondo il Rapporto “Lo Stato dell’insicurezza alimentare nel mondo”, pubblicato dalla FAO nel 2013, tutti i paesi che sono sulla buona strada per raggiungere il primo Obiettivo di Sviluppo del Millennio condividono una crescita agricola migliore della media. Tuttavia, ancora troppi paesi in via di sviluppo non hanno infrastrutture adeguate a sostenere l’agricoltura, come strade, depositi e canali d’irrigazione. Di conseguenza, i costi dei trasporti sono alti, mancano le strutture per l’immagazzinamento, e le risorse idriche sono inaffidabili. Tutto ciò limita lo sviluppo agricolo e l’accesso al cibo. Inoltre, anche se la maggioranza dei paesi in via di sviluppo dipende dall’agricoltura, le politiche economiche dei Governi si concentrano spesso sullo sviluppo urbano.
Ulteriore elemento è dato dall’eccessivo sfruttamento dell’ambiente: tecniche agricole arretrate, deforestazione ed eccessivo sfruttamento dei campi e dei pascoli stanno mettendo a dura prova la fertilità della terra. I terreni coltivabili del nostro pianeta sono, costantemente e sempre più, in pericolo di erosione, salinazione e desertificazione. La Rivoluzione verde che c’è stata tra il 1960 e il 1990 nei paesi in via di sviluppo ha portato ad un boom nella produttività agricola. In quel periodo, la produzione di grano, riso e mais è stata più che raddoppiata, particolarmente in America Latina ed in Asia.
I fattori che hanno consentito questo enorme incremento della produzione agricola sono stati:
- l’uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi,
- il miglioramento del metodo di irrigazione,
- l’utilizzo di macchinari per l’automazione di tutti i processi agricoli,
- le selezioni dei semi, che hanno reso possibile lo sviluppo di colture ad alta produttività.
L’aumento della produttività, però, ha avuto il suo costo e non ha risolto il problema della fame nel mondo. Infatti, con la scelta selezionata di nuove sementi sono state enormemente ridotte le biodiversità agricole nel mondo. E l’uso indiscriminato di pesticidi (sostanze chimiche utilizzate per combattere gli organismi viventi dannosi alle coltivazioni) ha prodotto un degrado ambientale ed ha arrecato problemi di contaminazione chimica, minacciando la salute pubblica e l’ecosistema. La Rivoluzione Verde, quindi, ci insegna che per risolvere la questione della fame nel mondo non è sufficiente aumentare semplicemente la produttività agricola, soprattutto se questa non è una produzione agro-alimentare sostenibile, cioè una produzione che non solo aumenti la redditività e la competitività del settore agricolo dei paesi in via di sviluppo, ma migliori anche le condizioni di vita delle popolazioni che abitano le zone rurali coinvolte, promuovendo buone pratiche ambientali e creazione di servizi per la conservazione degli habitat, della biodiversità e del paesaggio.
Per eliminare la fame nel mondo occorrerebbe ripensare il modo di produzione agricolo di tutto il Terzo Mondo, visto che la produzione di cibo delle grandi major dell’agribusiness globale viene indirizzata ai gusti ed alle necessità dei mercati ricchi del Primo Mondo.
La liberalizzazione agricola operata dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) a metà degli anni ’90 ha causato una modifica enorme del mercato alimentare globale; infatti, le terre dei Paesi terzi, meno sfruttate di quelle dei Primo e Secondo Mondo, sono state utilizzate per prodotti da export adatti ai mercati Occidentali; mentre le terre per produrre alimenti adatti alle popolazioni locali sono state riprogrammate progressivamente per questo nuovo sistema del global food market.
La produzione di cibo nei Paesi terzi sulla base delle pressioni dell’agribusiness globale porterà probabilmente ad un disastro ambientale che conosceremo presto.
All’agribusiness periferico viene applicato lo stesso modello “mordi e fuggi” che ha caratterizzato la delocalizzazione delle aziende produttive non-food: salari al ribasso, eliminazione del welfare, contrazione del mercato interno.
La crisi alimentare che colpisce le aree dove l’Occidente ha delocalizzato gran parte delle sue prime e seconde lavorazioni, in virtù del basso costo della manodopera, produrrà un’altra vittima della crisi della catena alimentare: il Primo Mondo.
Non è da sottovalutare anche un altro fenomeno che si sta già verificando: la necessità di espandere il mercato non alimentare dei Paesi del Terzo Mondo per assorbire la sovraproduzione dell’Occidente avrà come effetto non solo che diminuirà la disponibilità delle masse locali a lavorare a salari bassi, ma anche che diminuirà la superficie e la produttività dei terreni disponibili.
Di fronte a questo paradosso economico e sociale occorre senza dubbio pensare ad un altro modello di sviluppo, che preveda anche di essere disponibili a scontare un maggior prezzo medio dei fattori della produzione nel Terzo Mondo, pur di evitare una crisi irrecuperabile dovuta, come si è visto, all’elevata crescita demografica, alla distruzione dell’habitat agricolo, al depotenziamento della forza lavoro locale.
Possiamo individuare 3 criticità nelle nuove direzioni che ha intrapreso l’economia globale:
1) la necessità di fornire cibo sia alle periferie del mondo (in forte crescita demografica ed economica), che al Primo Mondo (che non potrà più mantenere i costi della sua agricoltura protetta);
2) il mix di protezionismo e di deindustrializzazione che ha colpito da tempo le economie mature;
3) l’impossibilità di sostenere il mercato alimentare dei Paesi del Terzo Mondo a spese dei ricchi consumatori finali dei loro prodotti selezionati (es. ananas e banane di un solo tipo; gamberetti in aree di pesca protette; etc.)
Altra criticità importante per la sicurezza alimentare è che il boom economico di alcuni BRIC’S, primo tra tutti il Brasile, si è sviluppato per gran parte con l’incentivazione, anche fiscale, del carburante organico.
Il combustibile derivato dall’agricoltura, la cui produzione è sostenuta ed incentivata dai sussidi:
- sta causando la diminuzione delle aree destinate alla produzione di cibo;
- è il legame tra il mercato dei petroli Opec e non Opec e quello dell’agrifuel, provocando un aumento dei prezzi già sussidiati del petrolio vegetale;
- è l’inizio, su questa base, di una speculazione sui future agricoli ed alimentari che sconta l’aumento dei prezzi e concorre alla finanziarizzazione malata dell’economia globale.
Le recenti crisi alimentari del 2008 e del 2012 sono state causate dalle forti speculazioni dei mercati finanziari sui prodotti agricoli: quando il mercato petrolifero e quello della speculazione non alimentare sono di scarsa redditività, i capitali si rivolgono ai titoli del mercato agricolo, determinando un aumento dei prezzi che è puramente finanziario e non influenza in alcun modo l’accumulazione di capitale agricolo. Secondo alcuni economisti , lo scoppio della bolla dei prezzi agricoli è determinato unicamente dalla speculazione finanziaria e dalla massiccia conversione all’etanolo di molti terreni, soprattutto nei paesi del Terzo mondo.
Nei paesi del Primo Mondo il costo del cibo assorbe solo il 20-25% della spesa mensile delle famiglie; mentre nel Terzo Mondo assorbe il 60-70% del loro reddito mensile.
Secondo uno studio della FAO, un aumento del 10% del prezzo dei cereali sul mercato comporta per i Paesi importatori netti di cibo, in particolare quelli del Terzo Mondo, un costo aggiuntivo di 4,5 miliardi di USD.
In questo modo, un Paese finanziariamente debole non può permettersi nessun altra spesa se non quella per la sopravvivenza, ed una quota sempre maggiore di poveri resta esclusa dalla distribuzione del cibo.
Occorre pensare il nuovo: col grano o con la soia non può funzionare quel che vale per i titoli bancari o per i pezzi di ricambio delle auto.
L’aumento record dei consumi è dovuto alla crescita della popolazione, all’aumento della ricchezza ed alla conversione degli alimenti in combustibile per auto.
Se non si riuscirà ad invertire queste tendenze i prezzi del cibo continueranno a salire, portando il nostro sistema al collasso, in una lotta di potere globale per la sicurezza alimentare.
Sul piano economico, stabilire il prezzo del cibo, un bene così necessario alla sopravvivenza, è paradossale: al cibo non si può rinunciare, e ciò ha dato luogo ad un mercato oggi determinato dal prezzo dei petroli, che influisce sul costo dei fertilizzanti, su quello del trasporto, e sul meccanismo che spinge il mercato a favorire il passaggio dei terreni dalla produzione alimentare a quella del biocombustibile. Ogni anno viene perso circa 1/3 delle superfici arabili e produttive senza che, per la velocità del processo, sia possibile la ricostituzione delle superfici fertili.
Negli USA, una delle principali agricolture del pianeta, i sussidi per la produzione di etanolo ricavato dalle granaglie hanno comportato che circa 1/3 del grano prodotto sia utilizzato per gli idrocarburi, con l’effetto di far rialzare di molto il prezzo delle granaglie destinate all’alimentazione.
La combinazione di carenza idrica – che nei paesi del Medio Oriente è strutturale – di crisi di produttività dei suoli e di aumento dei costi dei fertilizzanti farà sì che, entro il 2015, alcuni paesi, anche se ricchi (come l’Arabia Saudita), saranno totalmente dipendenti dalle importazioni per soddisfare le necessità nutrizionali primarie delle loro popolazioni, con rilevanti conseguenze politiche e strategiche .
Secondo la Banca Mondiale, circa 150 milioni di persone in Cina e circa 180 milioni in India sono nutrite con granaglie irrigate da acquedotti che si stanno disseccando. La combinazione di crisi idrica ed alimentare coinvolgerà un numero rilevante di persone arrivando a lambire anche le economie agricole dell’UE.
Non trascurabile è il problema delle malattie del grano: negli ultimi anni, sono state identificate 7 nuove malattie come causa di distruzioni bibliche dei raccolti, che si aggiungono a quelle provocate da locuste ed insetti vari, oltre che dai disastri naturali. Questa situazione spinge verso l’alto il prezzo dei beni alimentari primari ed implica grossi investimenti che solo l’agribusiness può permettersi e, al contempo, mette fuori mercato i produttori piccoli e medi, mettendo in crisi le classi povere e quelle medie. La disponibilità dei fertilizzanti fosforici, secondo una ricerca della Global Phosphorus Research Initiative, sarà esaurita entro i prossimi 30-40 anni, il che sta incidendo sul continuo aumento dei loro prezzi.
Uno studio della Banca Mondiale del 2011 ha calcolato un aumento globale dei prezzi alimentari del 36% medio annuo.
A far salire i prezzi alimentari concorrono diversi fattori:
- la diversione verso i biocombustibili, che fa salire il costo medio del cibo di base;
- l’aumento del costo dei fertilizzanti e del costo dei componenti della produzione agricola, che colpisce di più i paesi del Terzo Mondo rispetto agli altri, dove l’agricoltura è protetta e più rappresentata politicamente;
- la diminuzione della produttività, dovuta al progressivo impoverimento dei suoli;
- la scarsità di investimenti nella produttività dei terreni, visto che siamo ancora ossessionati da un’economia del superfluo che distruggerà la nostra capacità di produrre il necessario;
- l’effetto negativo del riscaldamento globale e del cambiamento climatico.
Abbiamo visto che la spinta verso l’alto dei prezzi del cibo è soprattutto dovuta al costo dei petroli ed al suo collegamento col prezzo alternativo dell’etanolo. Per contenerla bisognerebbe non tanto modificare il prezzo del petrolio ma riuscire a controllare la sua imprevedibilità nel breve periodo, che è il motivo della speculazione sul prezzo del cibo. Riducendo la volatilità dei mercati si potrebbe anche gestire meglio il prezzo dei prodotti agricoli.
Si è modificata anche la struttura di distribuzione del cibo: con la massificazione e l’allungamento della catena distributiva del cibo destinato al mercato globale (il c.d. global food) le grandi catene di vendita al dettaglio alimentare, fanno il prezzo e pagano il meno possibile la materia prima, a danno dei piccoli e medi produttori sui quali scaricano tutta la volatilità dei prezzi.
Sarebbero ipotizzabili diverse contromisure per uscire da questa difficile situazione:
- non fare entrare nel mercato finanziario operatori non appartenenti alla catena del cibo;
- obbligare i paesi più deboli dal punto di vista finanziario ed alimentare a costituire riserve strategiche, che siano, poi, controllate da Enti internazionali terzi.
Nell’UE, secondo l’Eurostat, ci sono 7.300.000 aziende agricole, ed ulteriori 6.400.000 con dimensioni inferiori alla c.d. Unità di Dimensione Economica (ESU= European Size Unit). Gran parte delle aziende che vivono allo stato di sussistenza si trova in Romania, Polonia ed Italia. Nel settore agricolo ed alimentare primario della UE lavorano 11.700.000 cittadini. Le aziende attive in Italia sono 1.680.000 ma il numero è in costante diminuzione.
Si tratta di un’agricoltura sussidiata, che viene sostenuta economicamente per il raggiungimento di alcuni obiettivi dell’UE quali:
- la sicurezza alimentare che eviti l’apertura senza protezioni all’agribusiness ed all’industria globale del cibo, con ripercussioni sulla crisi occupazionale del settore e sulla salute dei consumatori;
- la garanzia di una base politica stabile.
La diffusione delle industrie alimentari in Europa non è omogenea rispetto a quella delle aziende agricole: la Francia è il paese a maggiore densità d’imprese di food & beverage processing (1/5 di tutto il settore nell’UE), seguita da Italia, Germania e Polonia. Nel sistema del cibo l’UE tende a favorire prodotti ad alto costo unitario, elevata qualità, mercato determinato e interno (comunitario); al contrario, negli USA la catena del cibo tende a favorire il business intermedio ed a rendere ottimali gli investimenti nello stoccaggio e nel trasporto.
Il comparto della distribuzione ed elaborazione del cibo occupa, nell’UE, ben 6.600.000 addetti, producendo un valore aggiunto di 188 miliardi di Euro per il sistema industriale. Il c.d. “field to fork” (dal campo alla tavola) è un’industria di trasformazione, fortemente legata alle importazioni di materiali primari, che ha un’alta produttività media ed ottimizza – superandoli – i costi della protezione dei prodotti agricoli UE. Le imprese agricole dell’UE sono 310.000, occupano 4.700.000 addetti ed hanno una capacità di generare surplus per 850 miliardi di Euro.
L’export di cibo di alta qualità dall’UE verso i BRIC’S tende ad essere un valore anelastico (la domanda non cambia molto al variare del prezzo), dato che la crescita dei potenziali consumatori locali non è tale da accendere il mercato: si tratta, quindi, di evitare il rischio di un export debole verso aree che, invece, rendono l’UE importatrice netta di materie alimentari ad alto e crescente costo, come il cacao, il tè, il caffè, come pure di evitare il rischio di un’impennata dei prezzi del grano americano e canadese dovuta anche ad una siccità crescente.
La speculazione sui prodotti agroalimentari in ambito europeo fa uscire capitali necessari all’aggiornamento tecnologico e produttivo e li dirige verso la rendita; che è esterna al mercato dell’agroalimentare e, in particolare, allo stesso mercato finanziario europeo. Questo perché l’UE, sul piano delle decisioni finanziarie ed economiche, non ha le strutture organizzative per evitare operazioni speculative sulle commodity dell’alimentare, che, solo nel 2008, hanno generato rendimenti per oltre 204 miliardi di Euro .
Si tenga presente che il comparto del food & beverage è il più importante dell’industria manifatturiera dell’UE a 27, con una quota di export che nel 2010 è stata pari a 63,10 miliardi di Euro, ed una presenza di piccole e medie imprese per oltre il 90% ; che sono, poi, le più deboli e meno adatte a gestire attacchi finanziari sui mercati esteri (attacchi che possono riguardare l’immagine, i marchi, le barriere non tariffarie etc.).
La UE è il principale esportatore di cibi e bevande al mondo, ma le sue quote di mercato sono progressivamente in calo: si va dal 20,1% registrato nel 2000, al 17,8% nel 2010: questo perché l’UE sconta la propria scelta politica e culturale di non declinare in termini di mercato di massa quei prodotti che non hanno eguali in mercati di nicchia e in condizioni di protezione del marchio e di sostegno ai prezzi.
Negli USA è molto diverso: lì operano le forze che fanno aumentare i prezzi dell’alimentare, come i prezzi elevati dei petroli, l’aumento dei salari e dei redditi nei Paesi emergenti, il riscaldamento globale, la modifica delle dinamiche nelle aree di produzione agricola e di allevamento. Tutti fenomeni che legano l’economia del cibo negli USA a quella nell’UE.
La rete dell’economia del cibo negli USA è fatta da marche private che hanno bisogno, per la propria sopravvivenza d’impresa, di abbassare rapidamente i costi di produzione e di adattarsi a mercati ormai frazionati. Dal 2008 ad oggi i prezzi al dettaglio sono aumentati ogni anno del 2-3%, con una tendenza alla polarizzazione delle imprese: da un lato le grandi aziende dell’alimentare che riescono a gestire le tendenze avverse dei mercati; dall’altro le piccole aziende che possono soltanto ricorrere al retail (=vendita al dettaglio) di marchi globali. Questo perché il marchio globale paga il meno possibile la materia prima, e guadagna sul rapporto tra lavorazione ed abbattimento dei costi di produzione.
Crea, così, il mercato che desidera: un proletariato globale che mangia male e, in proporzione, paga molto il proprio cibo. Un cibo che sarà di basso livello nutritivo ma molto reclamizzato (si stima che la pubblicità comporti un ricarico di almeno il 13% sul prezzo finale).
Negli USA, nel 2011, è stato venduto cibo confezionato per 331,86 miliardi di USD: di questo, il 21% è costituito da prodotti da forno; il 16% da latticini; il 10% da cibo congelato; un ulteriore 10% da dolci e snack.
Questi ultimi hanno registrato un aumento delle vendite, sempre nel 2011, del 6,6%. Il cibo fresco, quello delle uova, della frutta e della verdura, negli USA è un mercato stagnante, sebbene valga 77,5 milioni di tonnellate di derrate: si tratta di cibi o troppo cari per il consumatore medio; oppure poco pratici per nuove categorie di consumatori che si affermano a seguito del cambiamento delle abitudini di vita (si pensi ai single, alle donne che lavorano e curano la casa, al nomadismo lavorativo che induce al consumo di cibi precotti e confezionati).
Il nesso tra grandi catene di vendita del cibo e retail negli USA è essenziale; mentre nell’UE crea contrasti.
La UE ha modulato la propria economia del cibo posizionandosi in una dimensione che va dalla sussistenza alla produzione per le fasce medio-alte dei mercati globali, privilegiando la protezione del proprio mercato interno all’espansione del suo potenziale export di massa.
Gli USA proteggono il loro mercato-base delle granaglie, gestiscono una catena del valore imbattibile sui prezzi per il proprio mercato interno di massa, gestiscono una rete distributiva che esclude, di fatto, tra retail e grandi catene, ogni concorrenza.
Anche nella Federazione Russa la questione del cibo è molto diversa dagli USA. Mosca importa in media circa il 40% del proprio fabbisogno nutritivo dall’estero; oltre il 50% delle carni e dei latticini, soprattutto nelle grandi città . I grandi magazzini detengono una quota di mercato del 50%, le piccole reti di retail circa il 35%, i negozi di nicchia il 20,5%: una distribuzione frazionata segno del frazionamento della società e dell’economia russa. Le grandi reti di distribuzione internazionali del food & beverage si sono tutte ritirate dal mercato russo, a parte la tedesca METRO AG, a causa del controllo di buona parte del mercato finale da parte delle organizzazioni criminali: la rete dell’alimentare è ideale per il riciclaggio perché tutti mangiano e bevono (mentre non tutti, per fortuna, consumano droghe!). La necessità di denaro cash nella catena distributiva, poi, completa il quadro.
Le sfide per la Federazione Russa saranno:
- di rimettere in attività le grandi fattorie comuni dell’epoca sovietica, migliorandone produttività ed efficienza economica;
- di riproporre una piccola proprietà contadina che si svincoli dalla semplice autosufficienza alimentare (diversamente da ciò che accade nell’UE);
- di evitare di distribuire aiuti diretti ai produttori per i quali sembra non ci siano disponibilità finanziarie rilevanti.
In Cina la questione alimentare è stata affrontata negli ultimi anni attraverso un “socialismo con caratteristiche cinesi”. Vista la grande capacità di risparmio delle famiglie cinesi, il consumo di cibo del cinese medio è aumentato nel 2012 del 12,5%, con previsioni di rialzo di un ulteriore 10%. Il consumo di bevande alcoliche è cresciuto dell’8,9%, di cui i soft drink – simbolo dell’occidentalizzazione di massa del Paese di Mezzo – hanno aumentato le vendite del 10%. Le vendite di alimentari al dettaglio sono aumentate del 12%. Le prospettive, però, non sono rosee come i numeri appena letti farebbero pensare: infatti, lo sviluppo economico urbano delle aree a maggiore industrializzazione è avvenuto a scapito del terreno ad uso agricolo. Il problema è che alla diminuzione dei suoli agricoli non è corrisposto un aumento della produttività media in agricoltura, per cui ci sarà un punto di non ritorno, raggiunto il quale Pechino dovrà:
- importare più cibo, soprattutto prodotti base, con ripercussioni sulla sua bilancia dei pagamenti;
oppure
- far diminuire la propensione al consumo delle masse urbane e far diminuire il limite di sopravvivenza alimentare di quelle agricole, altrimenti parte dei risparmi delle famiglie deve essere utilizzato per la nutrizione, con effetti depressivi sull’economia.
Il mercato interno dei latticini è coperto per il 70% da sole 5 imprese; mentre circa 1.200 aziende produttrici sono state chiuse a seguito di diversi scandali: si è verificata, quindi, una verticalizzazione del sistema alimentare che ne permette un maggiore controllo politico.
Al contrario di quanto accade in Occidente, poi, Pechino sta finanziando massicciamente la ricerca scientifica sull’agroalimentare, soprattutto sugli OGM, che saranno l’asse produttivo della Cina futura. L’interesse cinese per l’abbattimento dei costi di produzione e per l’incremento della produttività media è massimo; quasi inesistente, invece, quello per la protezione della salute.
Il settore della piccola distribuzione in Cina vale 707,2 miliardi di USD, con una crescita annua del 7%. Il settore della ristorazione vale 366 miliardi di USD, con tasso di crescita del 7,6% annuo. Il mercato del processed food – il cibo trattato – vale 140,4 miliardi di USD, con un tasso di crescita del 13,3% che è indice dell’occidentalizzazione dei consumi e della società cinese. La Cina, inoltre, è il 1° produttore e consumatore al mondo di pesce, con una quota del 35% del prodotto globale. L’acquacoltura è diffusissima anche se è stata verticalizzata, ed ora è gestita da pochi e grandi produttori. Nel complesso, quindi, la linea seguita dalla Cina è la stessa di Mao: l’autosufficienza alimentare; che, oggi, il Paese ha raggiunto al 98% .
Ancora diversa, dal punto di vista geoeconomico, è la situazione dell’India: la crescita del PIL al 7,3% annuo non ha generato un aumento sensibile di potere d’acquisto nel settore alimentare che c’è stato in Cina, con effetti caotici nel rapporto tra città e campagne.
Nel 2011 il consumo di cibi e bevande è stato per circa 367 miliardi di USD. Per questioni religiose, il 70% del cibo trattato e confezionato riguarda i latticini e vale un giro d’affari da 25,4 miliardi di USD nel 2011. L’acquacoltura è scarsamente diffusa ed è gestita da una rete di produttori piccoli e medi (come in UE). La carne, sempre per motivi religiosi, non può essere importata e da ciò deriva che molti settori della popolazione versino in gravi condizioni alimentari. La distribuzione della carne è scarsamente legata alle grandi catene, il che comporta l’aumento dei costi d’intermediazione e di trasporto che rendono i prezzi rigidi. La fame resta in molte aree del Paese: nell’India rurale 1 bimbo su 3 è malnutrito; dal 1997 al 2013 sono stati registrati circa 200.000 suicidi di contadini , che accumulano debiti e finiscono in mano agli usurai che immettono denaro fresco nelle casse della malavita cittadina.
Il Sistema della Distribuzione Pubblica del Cibo (Public Distribution System) in India ha continuato, quindi, a mantenere le sue caratteristiche di mercato nazionale protetto, anche se c’era sempre meno da proteggere, visto che gran parte del cibo da distribuire doveva essere comprato all’estero a caro prezzo; il che andava a sommarsi ad una rete di sussidi – anche per il carburante – sempre meno disponibili data la fase di crisi finanziaria globale.
Cosa fare, dunque?
Occorre senz’altro rivedere i criteri di liberalizzazione degli scambi alimentari ed agricoli nel mondo (l’unico criterio non può continuare ad essere la semplice valutazione dei prezzi ottimali); e non si deve abbandonare la politica protezionistica adottata da UE e Cina, anche in presenza di alti tassi di importazione.
Si potrebbe pensare, in linea teorica, ad una serie di iniziative, come ad esempio:
- escludere dal commercio globale, calcolandolo annualmente, delle quote di prodotto alimentare da prezzare in modo diverso;
- promuovere una nuova cultura alimentare anche in Occidente, come già sta facendo la Cina, che non privilegi più i prodotti esotici provenienti dai campi e dalle imprese alimentari del Terzo Mondo;
- formare il proletariato urbano per utilizzarlo nelle aree agricole (il che abbasserebbe la disoccupazione nelle città e farebbe diminuire il costo della mano d’opera);
- interrompere gli aiuti di Stato al biocombustibile, riconvertendo i finanziamenti verso progetti agricoli ecosostenibili che favoriscano la piccola e media proprietà.
La volatilità dei prezzi, cioè la loro rapida variazione nel tempo e nello spazio, aumenta i rischi d’insolvenza degli operatori. Nel caso del cibo, la volatilità dei prezzi è una minaccia anche per la sicurezza alimentare. Tale volatilità, dal 2000 in poi, è stata molto più alta che nei 20 anni precedenti; pur tenendo conto che il mercato agricolo e quello delle carni sono di per sé imprevedibili, sia per la stagionalità che per il clima, gli eventi atmosferici, le politiche.
Tra le cause dell’aumento unitario di tutte le tipologie di commodity alimentari e della maggiore volatilità dei prezzi del cibo a livello mondiale vanno senz’altro citate:
- l’aumento della popolazione;
- l’aumento dei redditi medi di alcuni Paesi, la c.d. global middle class;
- la creazione del mercato protetto e sussidiato dei biocombustibili;
- il sempre maggiore collegamento strutturale tra mercato petrolifero e trading alimentare. I prezzi dei petroli e dei loro derivati influenzano direttamente il costo di produzione del cibo a causa dei carburanti e dei fertilizzanti, ma anche perché molti investimenti nel settore alimentare si muovono tra le transazioni con un indice di redditività calcolato sul modello dei prodotti finanziari, in cui il prezzo del petrolio e del gas naturale è sempre determinante;
- l’incertezza, da parte degli operatori più esperti del mercato-mondo, nel valutare la dimensione degli stock di prodotto; valutazione che deve essere fatta tenendo conto del clima e della variabilità geografica dei prodotti, non sempre tenuti nella debita considerazione. Ad aiutare l’incertezza dei prezzi e la speculazione c’è anche la dimensione sempre più piccola di alcuni stock di generi alimentari primari sul mercato-mondo.
L’aumento dei prezzi, però, ha ripercussioni gravi: infatti, se nei Paesi del Primo Mondo il cibo vale il 20% della spesa mensile delle famiglie, in quelli del Terzo la spesa per il cibo assorbe oltre il 40% del reddito mensile.
Il mercato del cibo è stato quello che per primo ha fatto uso dei derivati finanziari; ma il meccanismo ha dato luogo alla polarizzazione dei valori di mercato: più aumenta la volatilità e l’uso dei contratti derivati, più aumenta il prezzo finale al dettaglio dei beni e diminuisce il rendimento netto dei produttori di cibo (finanche a diventare negativo). I rendimenti negativi alla fonte (cioè per i produttori) portano a 2 conseguenze: o si chiedono sostegni allo Stato; o si innescano politiche protezionistiche. Entrambe comportano l’aumento della volatilità dei prezzi.
Il problema, oggi, non può più risolversi con azioni di Governo come quella di porre una limitazione legale alle transazioni; il “mercato nascosto” dei titoli a termine può aggirare facilmente ogni limitazione legale delle transazioni e la tecnica dell’over the counter – la transazione bilaterale diretta tra operatori – lascerebbe campo libero alle speculazioni sui titoli a termine alimentari.
Il mercato dei derivati sui prodotti alimentari e non muove ogni giorno 800 trilioni di USD e sarebbe impossibile controllare tutta questa massa di contratti. Il Dodd-Frank Act, la legge che regola le attività di Wall Street dopo la crisi dei subprime, stabilisce che si possa tenere al massimo il 25% del capitale in contratti a termine sui prodotti alimentari di base. Ma la quota del 25% stabilita è quasi del tutto speculativa: infatti, soltanto il 2% dei contratti a termine si conclude con la cessione fisica del bene sottostante al future.
I fondi guadagnano comunque perché, tenendo i contratti a lungo o comprandone in grande quantità, hanno creato un mercato del compratore dei titoli derivati alimentari che è indipendente dalle dimensioni degli stock alimentari o dalle eventuali crisi climatologiche locali.
Il volume degli investimenti speculativi nel settore, dopo la deregulation post Reaganiana del 2000, con l’introduzione di prodotti finanziari dedicati, prima da parte della Goldman Sachs e poi da altre Banche d’affari globali, è passato da 1,5 miliardi di USD nel 1995 ad oltre 300 miliardi di USD del 2011 .
Se proibire serve a poco, allora cosa fare?
Alcune possibili azioni sono:
- aumentare la sicurezza alimentare, per limitare le posizioni “lunghe” degli speculatori;
- diminuire la pressione della domanda proveniente dai Paesi del Primo Mondo che tendono a fare e ad aumentare il prezzo unitario dei prodotti alimentari;
- organizzare un’informazione immediata ed on line delle scorte, per scoraggiare le operazioni a breve o a lungo termine di carattere eminentemente speculativo, che si basano su un’informazione ristretta e limitata dei mercati e dei compratori, la cui unica informazione reale è spesso l’imitazione del comportamento degli altri operatori (il c.d. “effetto gregge”).
I produttori di cibo orientato alla speculazione hanno tutto l’interesse a favorire le grandi monocolture che, però:
- inficiano la biodiversità;
- sono l’attività agricola e di allevamento più dannosa ed invasiva dal punto di vista ecologico;
- creano l’illusione della scarsità;
- favoriscono il passaggio dei terreni al biofuel.
Quali sono le soluzioni per limitare la crescita automatica della speculazione sui future alimentari o delle commodity?
Per esempio:
- evitare i contratti a lungo termine, che nel settore alimentare non hanno senso;
- favorire i mercati locali e quelli “spot”, dove sia gli strumenti finanziari che i beni sottostanti sono trattati per la loro immediata soluzione, proibendo l’over the counter;
- estendere a tutto il Primo Mondo, dopo che è stata proposta in Gran Bretagna, la Robin Hood Tax: un mix di tassa sulle transazioni finanziarie, tassa sulle attività finanziarie ed oneri vari a carico delle Banche attive nel settore.
Secondo un recente studio della Banca Mondiale l’aumento dei prezzi alimentari – del 130% dal 2002 al 2008 – è dovuto per il 25-30% all’aumento del costo del carburante, e, quindi, dei fertilizzanti derivati da idrocarburi, e per il 70-75% dal biocombustibile. Secondo la FAO, nel periodo dal 1967 al 2007 c’è stata un’espansione dei terreni arabili del 115%; mentre dal 2008 ad oggi la terra disponibile per l’agricoltura è aumentata soltanto dell’8%. Dal lato del consumatore, invece, si prevede che:
- il consumo di carne salirà dai 32 Kg annuali pro capite di oggi, ai 52 Kg nel 2035;
- il consumo di pesce avrà un incremento del +45% annuo pro capite.
Alla crescita dei consumi ed al quasi raddoppio dell’allevamento fa da paradossale contraltare la riduzione inevitabile del terreno arabile, prima vittima in quanto primo fornitore di materiale essenziale per l’allevamento degli animali. Questi dati sono una spinta ulteriore alla speculazione: in un contesto di mercato in espansione lo stock disponibile dei beni non può che diminuire, e questa è la condizione primaria per ogni operazione finanziaria a termine di successo.
Fino al 2030 anche la richiesta di energia aumenterà, del 45%, il che aumenterà la volatilità delle transazioni petrolifere che si porteranno dietro gran parte dei future alimentari. La pesca è fortemente dipendente dal prezzo dei carburanti sia per ciò che riguarda i costi che per i rendimenti: un altro brokeraggio a favore della speculazione sui titoli dell’alimentare.
Ci stiamo preparando a situazioni molto simili a quelle che causarono la crisi alimentare nel 2007-2008: quando l’ascesa della speculazione sui titoli alimentari fece aumentare i prezzi del cibo dell’83% in un triennio (2005-2008) e crescere la popolazione mondiale in condizioni di fame del 12% portandola a 963 milioni di persone.
Mentre India e Cina sono quasi del tutto autosufficienti nella produzione di carni alimentari, il problema riguarda la produzione industriale di carni nel Primo Mondo che, oggi, interessa circa il 40% del totale ed è finanziata dai Governi e dagli interventi degli enti finanziari internazionali, e che comporta anche un processo d’integrazione verticale dei produttori che ha raggiunto un tasso particolarmente elevato.
Negli USA l’83,4% di tutto il mercato delle carni bovine è nelle mani di 4 produttori; e 5 aziende controllano il 48% dell’intera linea del retail alimentare (dato del 2009). La carne di maiale è lavorata da 3 sole aziende che coprono il 66% del prodotto totale. Soltanto 3 multinazionali controllano il 90% del mercato mondiale delle granaglie. Il mercato del cibo è di fatto un oligopolio in cui un cartello di produttori specializzati in un segmento vi esercita un monopolio di fatto. L’esclusione dei piccoli e medi produttori dal mercato ha fatto sì che esso non fosse permeabile alla formazione dei prezzi reali, ed invece fosse prono a sostituire i costi effettivi con le remunerazioni dei fattori di produzione, generate dai calcoli delle grandi imprese.
Nell’UE la concentrazione produttiva nel settore alimentare è meno diffusa di quanto non lo sia negli USA.
I motivi sono rinvenibili nel maggior potere delle associazioni dei produttori che hanno un forte peso politico; nel maggior peso dei sussidi comunitari e nazionali che, col sistema dei pagamenti diretti, possono adattare rapidamente l’offerta alimentare alle dimensioni ed alle trasformazioni del mercato; nella diversa configurazione della domanda di cibo, più variegata, più attenta alla qualità degli alimenti, ai loro effetti sulla salute del consumatore.
I costi reali sono maggiori rispetto al sistema statunitense perché il meccanismo dei sussidi e degli aiuti diretti fa aumentare i costi fiscali di finanziamento della Politica Agricola Comunitaria, e non libera il mercato dell’UE dagli effetti dell’aumento speculativo dei prezzi dei prodotti-base, che è nelle mani di entità del tutto esterne alla finanza ed alla politica comunitaria.
Cosa si può fare?
Ad esempio:
- eliminare progressivamente i biocarburanti, che, secondo il Fondo Mondiale, causano l’aumento del 70% dei prezzi del granturco e del 40% di quelli della soia;
- controllare la vendita degli OGM da parte delle multinazionali ai farmers, poiché essi non aumentano la produttività media dei suoli ma sono solo adatti alle grandi produzioni intensive;
- cambiare le normative che riguardano le multinazionali del cibo, modificando le quote internazionali ed aumentando i controlli;
- evitare la progressiva ulteriore liberalizzazione semplice del sistema alimentare.
Si potrebbe anche prevedere un’Autorità specifica sanzionatoria a livello globale, magari in collaborazione con la FAO.
Come pure si potrebbe procedere alla stipulazione di un Accordo con Cina e Russia, paesi in cui il mercato finanziario dell’alimentare è in grande sviluppo: Accordo sulla base del quale loro potrebbero dare una quota del proprio surplus alimentare, quando c’è, a prezzi di mercato, e noi potremmo permettere loro di entrare, pro quota, nel mercato finanziario dei future del cibo alle condizioni stabilite dalla nuova Autorità Globale di cui anche loro farebbero parte.
Sarebbe auspicabile anche creare dei mercati regionali per i produttori locali, con prezzi stabiliti dal “vecchio” liberalismo della domanda e dell’offerta reali.
La tendenza alla concentrazione delle imprese andrà avanti ancora per molto tempo: fino al 2009 ci sono state 283 fusioni ed acquisizioni. Negli USA la DuPont, insieme a Monsanto e Pioneer, controlla il 58% del mercato delle sementi di grano, OGM e non OGM. La Monsanto da sola controlla il 70% del grano transgenico, il 90% della soia OGM, il 90% dei semi del cotone OGM. Soltanto 3 società, la Archer Daniels, la Midland e la Bunge & Cargill, controllano il 90% del mercato dei grani nel mondo. Soltanto 3 società, la JBS, la Cargill e la Tyson, gestiscono la lavorazione ed il confezionamento delle carni. E’ facile immaginare il potere di pressione e di gestione dei mercati che questi monopolisti possono esercitare sui governi e sulle organizzazioni internazionali deputati a trattare le questioni dell’agricoltura e del cibo.
In Europa il 99% delle imprese del settore del cibo e bevande è di piccola e media dimensione localizzate per lo più nel Sud Europeo; mentre alcune grandi imprese operano nell’Europa del Nord. I 10 maggiori produttori europei detengono solo il 15% del mercato; ma 2 aziende con sede in Europa sono tra le maggiori al mondo: la Nestlè e la Unilever. Non mancano fenomeni di verticalizzazione delle imprese, che imitano il sistema americano: ad esempio, più del 40% dei dipendenti del settore opera nelle grandi aziende, e solo il 26% nelle piccole e medie imprese. Ma soltanto l’1% delle aziende del settore può essere catalogato come “grande impresa”. La grande quantità di piccole e medie aziende europee riescono a sopravvivere al ciclo del mercato ed al meccanismo di gestione dei gusti e dei comportamenti di massa che i colossi alimentari determinano tramite i mass media, tramite la forte normativizzazione del mercato ed al protezionismo statale che spesso vengono favoriti dalle stesse multinazionali.
La concentrazione della catena del cibo riguarda in Europa soprattutto la grande distribuzione, con Tesco e Carrefour che riescono a fare pressione sui produttori per abbattere i prezzi creando bassi livelli di rendimento sui prodotti di massa che spingono le aziende verso la concentrazione verticale. La tendenza generale invece è quella di una progressiva frammentazione del mercato e di una creazione di mercati di nicchia ad alto rendimento ma di difficile predittività.
Nell’UE, cioè, anche le grandi imprese del cibo mantengono un alto livello di qualità dei prodotti, hanno grande facilità nel gestire la distribuzione (data la dimensione e le infrastrutture dell’UE), generano molto valore per unità di prodotto, ma mantengono – al contrario di ciò che fanno negli USA – una bassa produttività del lavoro, un basso livello di investimenti in Ricerca e Sviluppo, un basso tasso di qualificazione della forza-lavoro.
La concentrazione delle imprese porta alla globalizzazione del cibo, della sua produzione, dei gusti e dei comportamenti alimentari. La globalizzazione del cibo porta verso nutrimenti semplici, molto simbolici perché oggetto di pubblicità martellanti, verso cibi semipronti. Il cibo sano, raro e destinato a fasce di mercato più evolute, costa di più del fast food di strada o del cibo standard offerto dalle catene di hamburger e panini.
Il Primo Mondo quando paga lo fa lentamente, mentre la Cina, il Brasile o gli altri paesi BRIC’S hanno moltissima liquidità che serve a pagare subito un bene primario come il cibo, spesso simbolo per le masse degli ex poveri di un irrinunciabile nuovo status: la Cina sarà nei prossimi anni il maggior mercato per i prodotti alimentari di grande diffusione; il Brasile è già oggi il 5° mercato per il cibo; l’India entro il 2015 sarà il 3° consumatore mondiale per snack e dolciumi. Andremo verso una semplificazione e globalizzazione del cibo, dove la composizione del prodotto sarà la più semplice possibile e l’adattamento inevitabile ai mercati locali sarà determinato da dolcificanti, coloranti, esaltatori di sapidità. In Occidente mangeremo sempre peggio, a prezzi medi più elevati per via di criteri di pagamento meno rapidi rispetto a quelli dei BRIC’S, avremo periodi ciclici di carenza di cibo industriale per la forte concorrenza dei mercati emergenti in espansione. Il mercato di trading del riso è ristretto perché i maggiori paesi produttori assorbono quasi completamente la produzione annuale con la loro domanda interna. Il mais è la produzione agricola più intermediata finanziariamente; dopo seguono il grano e la soia. La soia, però, è destinata solo in parte all’alimentazione, ed è spesso utilizzata per il biofuel. DuPont e Monsanto controllano il 65% del mercato mondiale del mais; il 44% di quello della soia; ed il 91% del mercato delle sementi geneticamente modificate. Negli ultimi 2 anni le 2 imprese hanno acquistato il 65% del mais non OGM prodotto in Brasile. La logica è di costituire l’egemonia in entrambi i mercati, quello OGM e quello naturale, ai
quali vendere prodotti diversi ma in regime di controllo pressoché completo della domanda.
I produttori OGM se la passano apparentemente meglio; mentre quelli ancora legati ai sistemi naturali – ancora la maggioranza – sono indotti nella tentazione OGM nel momento in cui i primi subiscono le condizioni, apparentemente amichevoli, del big business. Le grandi aziende del settore food & beverage operano sull’economizzazione della materia prima, che è e deve essere certa. Normalmente, dato che si tratta di fatto di monopolisti, sono le grandi multinazionali a fare il prezzo; ed anche il tipo di pagamento lo fa l’acquirente: ed è sempre la condizione meno agevole per il creditore, che deve accettare ritardi, pagamenti in titoli, saldi che tardano a venire.
Il sistema delle grandi multinazionali del cibo – c.d. Big Food – sul piano sanitario è un costo, non certo una risorsa: interpolando i dati attuali della diffusione dell’obesità (generata dalla tecniche pubblicitarie), il moltiplicarsi delle malattie correlate al diabete, la diffusione delle allergie alimentari e delle malattie autoimmuni dipendenti dall’alimentazione, possiamo calcolare una media globale di costi sanitari indotti dalle politiche di Big food che va induttivamente dai 250 ai 456 miliardi di USD. Dal 1995 ad oggi nel mondo ci sono 65 milioni di persone malnutrite in più, con 1 adulto su 5 in grave sovrappeso.
C’è poi il fenomeno del Land grabbing, le acquisizioni di terreni posti in un’area di guerra o di sostegno umanitario, dopo che sono stati confiscati, depopolati delocalizzati rispetto alle risorse primarie. Il fenomeno riguarda soprattutto l’Africa Subsahariana, ma si registra anche altrove nei paesi più poveri, con Governi deboli e dove la corruzione è diffusa. La corsa alla terra è conseguenza di una serie di fattori: l’enorme crescita demografica che sta interessando il pianeta ed il cambiamento in corso dei paradigmi geopolitici che hanno già prodotto la formazione di nuovi poli di potenza da cui è emerso lo sviluppo di una nuova classe media con abitudini alimentari in evoluzione. Sul versante istituzionale e politico, la domanda crescente di terre, ripensate come asset strategico degli interessi vitali di un paese per soddisfare la domanda alimentare (con gli effetti indotti da un consumo crescente di carne) e quella energetica, si è tradotta nel nuovo fenomeno degli acquisti e concessioni internazionali – da parte di imprese e governi – di vasti terreni arabili, il cosiddetto land grabbing, che coinvolge soprattutto i paesi emergenti come acquirenti. Seppure se ne sia cominciato a parlare dal 2008, si mostra già come un fenomeno importante: in particolare, Stati, Cina ed India, oltre ad Arabia Saudita, Qatar e Bahrein, sono tra i maggiori acquirenti di territori dei paesi africani.
Questa corsa alla terra praticata dai grandi gruppi internazionali, oltre a creare dispute con le popolazioni locali che sfociano in gravi crisi sociali, ha prodotto la marginalizzazione dei piccoli produttori in quanto il sistema, così come è congegnato, conferisce solo alle grandi aziende il potere di determinare il mercato.
Il fenomeno del land grabbing è significativo anche in Brasile. Il Paese, che al momento è la 6^ economia ed il 2^ produttore agricolo del mondo, ha in un primo tempo “subito” l’arrivo degli investitori esteri che hanno acquistato i terreni aumentando notevolmente la loro presenza nell’economia locale e generato la crescita esponenziale di capitale internazionale nell’industria agricola brasiliana, che, nel giro di dieci anni – dal 1995 al 2005 – è aumentato dal 16% al 57%. Tale situazione è stata arginata sotto la Presidenza Lula, che, nel 2007, ha varato, nell’agosto del 2010, una nuova legislazione che limita la possibilità di acquisire appezzamenti di terra a compagnie controllate per il 50% (o più) da capitale straniero. Anche in Brasile l’espansione dell’agri-business ha comportato la conversione delle colture tradizionali in coltivazioni di soia, mais, canna da zucchero ed allevamenti intensivi, come pure l’intensificarsi di conflitti per le terre su cui vivono e lavorano popolazioni indigene e comunità locali.
Il Brasile, tuttavia, oltre a subire il fenomeno del land grabbing, negli ultimi anni ha iniziato a praticarlo. A tal fine ha sviluppato una propria politica di acquisizione di terreni agricoli al di fuori dei suoi confini nazionali come, ad esempio, in Paraguay, dove su 31 milioni di ettari di terra arabile (il 29% della quale è destinata alla produzione di soia) è stato concesso il 25% a investitori stranieri, di cui il 15% ai soli brasiliani. La duplicità del ruolo del governo brasiliano ha portato ad un concatenarsi di eventi che hanno interessato diverse regioni del Sud America. In particolare, la crescita della produzione di soia negli anni ’70-’80 è stata responsabile del dislocamento di 2,5 milioni di persone nello stato di Paraná e di 300.000 nel Rio Grande do Sul. Non si tratta di contrapporre la modernizzazione agricola alla difesa della tradizione, ma di assicurare che gli interessi ed i diritti sulla terra degli agricoltori di piccola scala non siano esclusi da interessi di gruppi forti che siglano accordi e contratti con piena valenza legale.
Scorrendo i dati riportati nello studio di Verie Aarts, intitolato “Unravelling the Land Grab: How to protect the livelihoods of the poor?” pubblicato nel 2009 tra 15 ed i 20 milioni di ettari di terra coltivabile sono stati oggetto di transazioni ed accordi negli ultimi due anni e mezzo, e dal 2004 oltre 2,5 milioni di ettari sono stati assegnati ad operatori stranieri in 5 paesi africani (Etiopia, Sudan, Mali, Ghana e Madagascar).
Il Fatto nuovo non è la vendita o concessione di terre in sé, ma l’estensione dei lotti (contratti su superfici superiori ai 100.000 ettari) e la destinazione d’uso (per garantire la sicurezza alimentare ed energetica degli investitori internazionali) che sono rilevanti per la questione della sicurezza alimentare dei paesi poveri, al punto che il Segretario generale della FAO, nonostante la FAO stessa avesse per anni incoraggiato gli investimenti esteri in agricoltura, teme che questa nuova forma d’investimento sia di fatto un tipo di neocolonialismo da parte dei paesi emergenti che hanno seri limiti di terra e acqua ma significative dotazioni di capitale finanziario (si pensi ai paesi del Golfo), di paesi con popolazione numerosa e seri problemi di approvvigionamento alimentare (Cina, Corea del Sud e India), oltre che di Stati Uniti, Giappone, Sudafrica e Libia.
La qualità degli investimenti, come dimostra il fenomeno del land grabbing, non è un aspetto trascurabile; il settore pubblico potrebbe svolgere un ruolo prezioso per incentivare investimenti non nocivi alla sicurezza alimentare.