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lunedì 10 novembre 2014

Lo scontro tra Sunniti e Sciti

Medio Oriente
Iran e Arabia Saudita, la distensione è un miraggio? 
Roberto Iannuzzi
24/10/2014
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Nel fosco clima di conflitto che opprime il Medio Oriente, recenti segnali di apertura fra l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita hanno fatto sperare in un’imminente distensione fra i due paesi divisi da una rivalità strategica e ideologica che storicamente risale alla Rivoluzione Islamica del 1979 e che geograficamente si estende dal Libano all’Afghanistan.

Negli ultimi mesi i segnali sono stati molteplici, dallo scambio di nuovi ambasciatori agli incontri bilaterali ad alto livello, tra cui recentemente il colloquio fra i rispettivi ministri degli esteri, a margine dell’Assemblea generale dell’Onu a New York.

Simili contatti si affiancano alla comune ostilità di Riyadh e Teheran nei confronti dell’autoproclamatosi Stato islamico (Is), affermatosi tra Siria e Iraq, visto da entrambi come una minaccia ai rispettivi interessi regionali e, nel caso saudita, addirittura alla propria stabilità interna.

Il ramoscello di ulivo di Rouhani
La politica di apertura nei confronti del mondo arabo - in particolare della monarchia saudita - è stata un obiettivo dichiarato del presidente iraniano Hassan Rouhani fin dal suo insediamento nell’estate del 2013.

Questa linea è però osteggiata dalla Guardia Rivoluzionaria iraniana. La Guida Suprema Ali Khamenei si comporta come un arbitro tra i due fronti, sebbene sia ritenuta più vicina alla seconda.

A rafforzare il campo di Rouhani vi è la crescente consapevolezza negli ambienti politici iraniani che il paese rischia di apparire, a seguito degli attuali conflitti regionali, sempre più come una potenza settaria sciita. Come tale, potrebbe vedersi progressivamente isolato in un mondo islamico a maggioranza sunnita.

Ad ogni modo, il ramoscello d’ulivo offerto all’Arabia Saudita da Rouhani non è affatto incondizionato, essendo accompagnato dalla piena consapevolezza iraniana dei propri punti di forza.

L’Arabia Saudita perde terreno
In effetti, a partire dall’invasione americana dell’Iraq nel 2003, il regno saudita ha costantemente perso terreno nei confronti dell’Iran a livello regionale, mentre quest’ultimo stabiliva un “arco sciita” dall’Iraq ai Territori palestinesi, comprendente la Siria ed il Libano.

Le rivolte arabe del 2011 hanno ulteriormente posto sulla difensiva la casa regnante di Riyadh. Essa si è vista minacciata da una possibile ribellione interna oltre che dall’ascesa dell’Islam politico targato Fratelli Musulmani, fautori di un sistema di governo elettivo che, come tale, è nemico del modello monarchico saudita.

Inoltre, la decisione statunitense di abbandonare il presidente egiziano Hosni Mubarak nel 2011, l’annunciato “pivot” di Washington verso il Pacifico, la riluttanza della Casa Bianca a intervenire militarmente in Siria, hanno aumentato la sfiducia saudita nei confronti dell’alleato Usa. Riyadh tuttavia non dispone di un ombrello militare alternativo a quello statunitense.

La parziale distensione fra Stati Uniti e Iran ha ulteriormente peggiorato le prospettive saudite. La monarchia vede un eventuale accordo nucleare fra Washington e Teheran come una sconfitta per le proprie ambizioni regionali.

Un Iran liberato dalle sanzioni sarebbe un rivale energetico ed economico per Riyadh, un polo di attrazione per le comunità sciite della penisola araba e un avversario in grado di minacciare lo status regionale del regno saudita e forse di sottrargli il ruolo di alleato privilegiato di Washington nel Golfo.

Iran assente nella coalizione anti-Is
La natura “familiare” del processo decisionale saudita lo rende opaco e difficilmente decifrabile. Tuttavia la visibilità del principe Bandar bin Sultan a Gedda, durante la conferenza che ha abbozzato la coalizione internazionale contro l’autoproclamatosi Stato islamico, non lascia presagire una linea più morbida di Riyadh nei confronti dell’Iran e dei suoi alleati regionali.

In qualità di capo dell’intelligence, Bandar fu l’artefice della politica saudita volta a rovesciare a ogni costo il presidente siriano Bashar al-Assad amico dell’Iran, anche tramite un’alleanza con i gruppi ribelli più estremisti.

Ad eccezione della decisione di combattere l’Is, la posizione saudita nei confronti del regime di Damasco non è cambiata. Sia a Gedda che alla successiva conferenza di Parigi, la monarchia ha perciò fatto in modo di escludere Teheran dalla coalizione internazionale contro l’Is.

Dal canto suo, l’Iran ha condannato la coalizione in quanto costituita da quegli stessi paesi - gli Stati Uniti e le monarchie del Golfo - che avrebbero determinato l’ascesa dell’Is, rispettivamente occupando militarmente l’Iraq e finanziando i gruppi jihadisti in Siria.

La recente presa della capitale yemenita Sana’a da parte del movimento ribelle sciita Ansar Allah, considerato dai sauditi una pedina dell’Iran, rappresenta l’ennesima ragione di conflitto fra i due paesi.

Si può dunque ritenere che i recenti contatti diplomatici fra Riyadh e Teheran costituiscano più che altro una mossa tattica da parte di due potenze che, sebbene per motivi differenti, si sentono entrambe minacciate dagli sviluppi regionali.

Tale mossa è finalizzata a tastare le intenzioni dell’avversario, ma probabilmente ancora non rappresenta un cambiamento di strategia, né una disponibilità a fare concessioni dolorose.

Roberto Iannuzzi è ricercatore presso l’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”, di recente pubblicazione.
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