Si riporta l'articolo che ra stato dato per la Rivista "II Risorgimento" e poi, non essendovi stato pubblicato in quanto la rivista ha cambiato il suo Direttore Responsabile, è stato proposto per
"Le porte della Memoria"
Lo si riporta qui per dargli un minimo di diffusione
Le implicazioni Strategiche della presenza delle Aziende Cinese all’Estero
Heino KLINCK[1]
I Parte
Introduzione -Il contesto storico
Il 18 dicembre 2008 ha
segnato il trentesimo anniversario dell'inizio in Cina di riforme economiche
che hanno spinto il paese all'epicentro dell'economia mondiale dopo un'assenza
di diversi secoli. In quella stessa data di 30 anni prima, infatti, l’11°
Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese (di seguito indicato con la
sigla PCC) aveva votato l’adozione di significative riforme economiche invocate
da Deng Xiaoping. L’attuale presidente cinese, Hu Jintao, ha definito
quella decisione come “un grande risveglio del partito comunista.”[2] Dopo il caos della rivoluzione culturale,
Deng ammise che se l’intento della Cina era quello di ristabilire l’economia,
costruire la propria potenza nazionale e riconquistare un legittimo posto al
sole, allora era necessario procedere ad importanti riforme. Egli
affermò che la Cina avrebbe dovuto seguire una strategia di “apertura verso il
mondo esterno”. [3] Deng sostenne che con le riforme e l’apertura,
la Cina avrebbe avuto accesso ai capitali internazionali, alle competenze di
gestione, alla tecnologia ed ai mercati. Questi furono i primi passi
che, trent'anni dopo, avrebbero portato la Cina a superare la Germania,
divenendo il primo esportatore al mondo, nonché a scalzare il Giappone dalla
seconda posizione nell’economia globale complessiva e, infine, a rilevare il
posto degli Stati Uniti quale maggiore consumatore mondiale di energia.
Durante i primi due
decenni di apertura economica della Cina, il focus è stato principalmente
incentrato sull’enorme crescita economica, sulla massiccia attrazione di
investimenti esteri diretti (di seguito indicati con la sigla ODI: Overseas
Direct Investment), l’enorme surplus commerciale con l'Occidente e l’emersione
di una classe media di grandi dimensioni. Negli ultimi 20 anni l'economia cinese
è cresciuta ad una velocità 7 volte maggiore rispetto a quella degli Stati Uniti
e del Giappone durante le fasi preliminari del loro sviluppo economico. Il
Giappone ebbe bisogno di 25 anni per crescere di 6 volte durante il periodo dal
‘60 all’85, mentre gli Stati Uniti dovettero attendere più di 60 anni per
crescere di 3,5 volte negli anni dal 1870 al 1930. Inoltre,
si prevede che il tasso annuale di crescita del
PIL cinese si manterrà ad almeno il 7% per tutto il prossimo decennio e anche
oltre.
Tuttavia, un fenomeno
relativamente nuovo ha assunto un ruolo centrale nello scorso decennio e in
particolare negli ultimi cinque anni: l’ODI cinese è divenuto uno dei più
grandi fenomeni economici del 21° secolo. In un
arco di tempo relativamente breve, la Cina è diventata il primo investitore tra
i paesi in via di sviluppo ed il sesto al mondo con 150 miliardi di dollari
investiti nei mercati esteri.[4]
Questa condizione segna uno sviluppo di rilevanza strategica, con implicazioni
che vanno ben oltre l’aspetto economico. In passato, l’ODI cinese è stato
irrisorio rispetto agli standard globali. Ancora nel 2004 la Cina si era
classificata solo al 28° posto in
termini di ODI nel mondo.[5] Negli anni 2003-2008 il tasso di crescita annuale
dell’ODI cinese è stato pero del 60%, ma probabilmente è più interessante notare
che, mentre la crisi finanziaria globale raggiungeva il suo culmine nel 2008 e l’ODI
mondiale si contraeva del 20%, il corrispettivo dato cinese arrivava
addirittura a raddoppiarsi.[6]
A similitudine
dell’iniziativa Deng, anche questa notevole enfasi strategica sull’ODI è stata
una decisione top-down assunta a Pechino. La strategia d’apertura, nota in mandarino
come qu chu zou, fu inaugurata a metà degli anni ‘90 dalla Commissione
Statale dell’Economia e del Commercio che selezionò 120 campioni nazionali da spedire fuori dai confini nazionali come punte
di diamante rappresentative dell’impegno commerciale cinese all'estero.[7] Nel 1997, il 15° Congresso del PCC spinse le imprese
statali (SOE: State Owned Enterprises) ad entrare nel mondo della concorrenza
investendo all'estero. L'allora presidente Jiang Zemin rese nota la
volontà del governo di “stabilire dei
gruppi di imprese di grandi dimensioni, altamente competitivi, trans-regionali
e inter-commerciali, mediante operazioni transnazionali e proprietà incrociate”
al fine di incoraggiare “gli investitori cinesi ad investire all'estero, in
aree che possano mettere in gioco il vantaggio competitivo cinese in modo da
utilizzare al meglio le risorse e i
mercati cinesi e stranieri.”[8] Con una mossa correlata, Jiang consigliò
alle aziende di Stato di andare all'estero in cerca di risorse naturali. Questa
spinta dall'alto verso scambi con paesi ricchi di risorse quali le regioni del
Sud-Est Asiatico, dell’America Latina e dell’Africa, portò l’economia cinese ad
un’incredibile crescita del 600% durante il periodo 2001-200[9].
Nel 2000, la politica di going global fu ufficialmente formulata dal Premier Zhu Rongji che,
nel suo discorso di policy annuale, incoraggiò le imprese cinesi ad investire
all'estero mentre era contemporaneamente in fase di definizione l’ingresso
della Cina nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o anche WTO: World
trade Organization). Zhu immaginava il going
global come una piattaforma riservata alle imprese cinesi desiderose di diventare
più competitive nell'economia mondiale. L’integrazione nell’OMC ha
rappresentato un passaggio fondamentale per la Cina. Sebbene, infatti,
comportasse una maggiore concorrenza straniera sul mercato interno, ha di
contro permesso alle aziende cinesi una maggiore possibilità di accesso al capitale
umano, gestionale e tecnologico introdotto da investitori stranieri e da
concorrenti che, a quel punto, erano in grado di operare nella Cina.
Il 10° piano quinquennale (2001-2006) cinese
indicò nella politica di going global
una delle aree chiavi necessarie per il percorso della Cina verso la
globalizzazione,
come espressamente dichiarato da un’autorità cinese, Andrew
Leung, che affermò: “Going global è
molto più che una strategia nazionale”.[10] L'obiettivo di questa politica era quello
di preparare il terreno per alcune società cinesi affinché potessero competere
con le migliori aziende straniere e affermarsi pienamente, entrando nel novero
delle aziende elencate da Fortune Global 500. Nel 1995, infatti, questa classifica elencava
soltanto due società cinesi, ma nel 2007 la cifra era gia’ aumentata a 22. Proprio
come il Giappone negli anni ‘80 e la Corea del Sud negli anni ‘90, il primo
decennio del 21° secolo ha visto le aziende cinesi trasformarsi da organismi
caratterizzati da un’elevata intensità di lavoro a sistemi operativi ad alto
valore aggiunto riverberatosi nel loro desiderio di investire all’estero, sospinto
da una miriade di ragioni.
L’enorme crescita economica
della Cina è stata rapidissima ed è stata descritta come “la crescita improvvisa
di ricchezza piu’ dinamica nella storia dell'umanità”.[11] Questa situazione rappresenta un ritorno
all’ordine mondiale pre-colombiano in cui la Cina era il centro del sistema
economico globale. E’ vero che gran parte di questa crescita si basa su una
strategia economica imperniata
sull’esportazione; tuttavia, gli ultimi anni hanno visto un cambiamento dettato
dall’aumento degli ODI particolarmente
focalizzato sulle fusioni e acquisizioni (M & A: Merge & Acquisitions) tra
aziende straniere e cinesi.
Questo vettore di
crescita è sostenuto da una solida teoria macroeconomica. La
Cina non può fare esclusivo affidamento sulle esportazioni per il tipo di
crescita che ha visto nel corso degli ultimi 30 anni. Con
il going
global, le imprese cinesi possono evitare le tariffe e le restrizioni
commerciali tipiche di altre economie e possono quindi penetrare nuovi mercati
con tutti i vantaggi che ne conseguono, ivi incluso l'accesso a nuove
tecnologie, a risorse naturali e al capitale umano. Inoltre,
lo tsunami finanziario globale del 2008, accoppiato con l’incredibile riserva di
dollari posseduta della Cina, ha permesso alle imprese cinesi di agire
aggressivamente all’estero acquistando attività a prezzi relativamente scontati.
Questa situazione ha attirato l'attenzione dei commentatori stranieri i quali
non sempre si sono espressi favorevolmente.
Il ritorno della Cina
alla ribalta della scena geopolitica è un corollario al suo ritorno economico
sulla scena mondiale. Sin dalle riforme di Deng, risalenti alla fine degli anni
’70, l'espansione del Prodotto Nazionale Lordo è stata una componente
principale della strategia tesa ad accrescere la potenza globale cinese e la
capacità di influenzare gli affari internazionali. Un
aumento della capacità economica è naturalmente accompagnato da un aumento del
potere complessivo nazionale. Eppure la Cina respinge con forza ogni
accusa di voler utilizzare aggressivamente il proprio potere e non perde occasione
per affermare che la sua ascesa nel mondo è del tutto pacifica e non ha alcuna
ambizione territoriale.[12] Tuttavia, è incontestabile che l’ODI si aggiunga
effettivamente all’influenza e al capitale politico che la Cina esercita direttamente
e indirettamente a scala globale. E’ significativo notare che le imprese
cinesi spesso investono in stati molto particolari quali la Birmania, l’Iran, il
Sudan e lo Zimbabwe, tutti paesi che l'Occidente avrebbe bollato come paria. Grazie al sostegno del governo, le
aziende cinesi sono in grado di prendere decisioni aziendali e commerciali che
nelle democrazie occidentali sarebbero considerate moralmente inaccettabili e
politicamente insostenibili. Ciò consente alle società cinesi di operare con quella
flessibilità e agilità che in determinati mercati consente loro di acquisire il vantaggio della
prima mossa.
E’ ragionevole collegare
la politica economica cinese alla politica estera, ma occorre prestare attenzione a non
enfatizzare eccessivamente questa correlazione. In un famoso articolo, il giornale The
Economist ha definito la Cina come un drago
famelico alla spasmodica ricerca di
energia e di altre risorse naturali per alimentare fabbriche e centrali
elettriche.[13] La Cina ha un bisogno
così forte di energia per sostenere la crescita economica e una popolazione
talmente grande che, inevitabilmente, giungerà a un punto in cui si troverà a
corto di risorse naturali. La continua ricerca di fonti di energia
all’estero per garantirsi la sicurezza energetica è quindi diventata uno dei
più pressanti obiettivi della politica estera cinese. Inoltre, un articolo di Foreign Affairs[14] ha sostenuto che,
attualmente, la politica estera cinese è guidata da un bisogno di risorse senza
precedenti nella storia. L’affermazione potrebbe apparire un po’ esagerata, ma
ciò non toglie che esista un’evidente connessione tra i due elementi. Le decisioni
di politica estera sono certamente indici di crescita del potere nazionale e
delle capacità della Cina dovute al suo sviluppo economico.[15]
Una delle fonti di
legittimazione del PCC è la crescita economica sostenuta che necessita di un
flusso regolare e affidabile di energia
e materie prime. Se venisse meno,
porterebbe ad un’inevitabile contrazione della crescita economica cinese e
quindi alla messa in discussione del ruolo stesso del PCC. Nel caso peggiore, quindi,
si potrebbero creare incertezze e sconvolgimenti interni capaci di minacciare proprio
quegli elementi che la leadership cinese ritiene da sempre indispensabili per
lo sviluppo armonico della società. Quanti conoscono la storia cinese sanno che
più di una dinastia è caduta a causa di vicende simili ed il PCC è profondamente
consapevole di essere esposto agli stessi rischi dei loro predecessori
dinastici.
In tale prospettiva, il presente lavoro si prefigge di
delineare la strategia economica cinese del going
global e le sue implicazioni geopolitiche, economiche e diplomatiche per la
sicurezza nazionale degli Stati Uniti e degli altri paesi. Il Capitolo 1 si
concentrerà sulla decisione cinese di diventare globale, ovvero la politica di going global, per poi procedere ad un
esame della teoria macroeconomica che sostiene la decisione della leadership
cinese di supportare le attività commerciali globali, guardando anche agli
imperativi politici. Nel Capitolo 2 saranno illustrate le principali giustificazioni
che hanno portato alla decisione di puntare alla globalizzazione, analizzandole
da varie prospettive, e si individuerà il ruolo delle imprese e degli enti
commerciali nella politica estera cinese. Il Capitolo 3 analizzerà più in
profondità questo tema, al fine di spiegare le ragioni economiche e commerciali
del forte attivismo cinese all'estero che poggia, fondamentalmente, sulla possibilità di accedere alle risorse, ai
mercati, alle tecnologie e al capitale umano, ivi compresa la proprietà
intellettuale. Il Capitolo 4 specificherà i settori industriali di particolare
interesse per le imprese cinesi all'estero e analizzerà i profili di importanti
operatori commerciali cinesi oltremare e le aree ove concentrano le loro
attività. Il Capitolo 5 esaminerà le implicazioni soft power delle aziende cinesi tese alla globalizzazione; il Capitolo
6 quelle hard power. Il Capitolo 7
tratterà le reazioni regionali alle attività commerciali cinesi nelle varie
aree geografiche, misurandone la presenza in Africa, Americhe, Asia, Europa e
Medio Oriente. Il Capitolo 8 valuterà le implicazioni per gli Stati Uniti conseguenti
alle aziende cinesi impegnate nel going global. Infine il Capitolo 9 concluderà
l’elaborato fornendo un’analisi del potere nazionale secondo il quadro dei
fattori DIME definiti dagli USA: diplomatico, informativo, militare ed
economico.
Capitolo 1 - La
decisione di Pechino di "Go Global"
1.1 La teoria macroeconomica.
I benefici della crescente
partecipazione cinese all'economia mondiale sono diventati evidenti molto prima
che “globalizzazione” diventasse un termine familiare e di riferimento. Le priorità
economiche cinesi sono cambiate in maniera significativa nel corso degli ultimi
30 anni, passando da una economia basata soprattutto sulle esportazioni a una
in cui l’ODI ha assunto un ruolo in progressiva crescita, fondato su solidi
principi di logica macroeconomica. In ultima analisi, i limiti naturali del
commercio internazionale vincolano un’economia imperniata prioritariamente sull’esportazione. Le
imprese cinesi possono raccogliere vantaggi commerciali, spostando le loro
attività all’estero in varie forme e modi, onde annullare l'impatto delle
barriere commerciali e tariffarie. La globalizzazione del business cinese
permette l’ingresso in nuovi mercati, l'accesso a economie più sviluppate e fornisce
elevati margini potenziali di profitto e crescita della catena del valore. Come
precedentemente affermato, dietro l’ODI si pone un consistente ragionamento
macroeconomico volto ad acquisire know-how tecnologico e altri assetti basati
sulla conoscenza.
Gli economisti hanno
discusso a lungo se il percorso della Cina fosse un modello originale o se,
come in molti paesi in via di sviluppo, avesse seguito la teoria di Dunning
degli investimenti per lo sviluppo (IDP: Dunning’s investment development path theory).[16] La teoria IDP è
stata ampiamente applicata per spiegare la massa degli investimenti ODI che i
vari paesi hanno fatto dilagare nel mondo, mettendola in relazione con il
livello di sviluppo economico dei singoli stati. Semplificando
il concetto, la teoria IDP associa i livelli ODI al PIL pro capite, anche se,
nei successivi affinamenti teorici elaborati nel 1996 e nel 2001, Dunning ha introdotto anche il capitale umano
accanto ai tipi di prodotti e di industrie.
Il particolare approccio
graduale alle riforme economiche ha prodotto un massiccio aumento degli ODI in
Cina, delle esportazioni verso altri mercati e del PIL pro capite che, tra il
1979 e il 2002, è addirittura quadruplicato. Ciò ha certamente portato a maggiori
investimenti domestici nel capitale umano sottoforma di istruzione e
formazione. Inoltre,
un aumento così significativo del PIL pro capite ha permesso di diversificare
prodotti, industrie e mercati. Questi fattori dimostrano la rilevanza
degli affinamenti apportati alla teoria originale di Dunning e ora si sostiene
convintamente che ciò ha portato ad un aumento dell’ODI cinese.
L’ipotesi IDP di Dunning
è derivata dalla teoria “OLI”. Le imprese multinazionali (IMN) possiedono
numerosi vantaggi basati sulla proprietà (ownership - O) di specifiche tecnologie
o altre conoscenze, nonché del potere di mercato ottenuto nei paesi di origine.
I paesi esteri ospitanti offrono potenziali vantaggi di localizzazione
(localization - L) ad alcune multinazionali. Tra le IMN e l'economia del paese
ospitante si possono avere parecchi vantaggi di internalizzazione
(internalization - I). Alla fine, i vantaggi L possono trasformarsi in vantaggi
O nei paesi di accoglienza inizialmente considerati come obiettivi per l’ODI.
Quindi, i vantaggi O possono diventare la base per la generazione di ODI dal
paese ospitante originale che di conseguenza riceve vantaggi. Tutto questo può
essere visto chiaramente nel modello cinese di sviluppo economico. Un simile ciclo
incrementa una serie di investimenti diretti esteri che poi si trasformano in ODI
verso mercati geograficamente e culturalmente vicini, prima di diffondersi in altre
aree.
Sin dalla metà degli
anni ‘80, l’ODI cinese riflette una crescente integrazione con l'economia
regionale e globale. L’aumento della potenza economica cinese, particolarmente
in rapporto alle riserve in valuta straniera, ha consentito un rapido aumento
dell’ODI cinese verso i paesi d'oltremare.
1.2 Il legame
politico-economico in Cina
A livello
internazionale, la dimensione globale della Cina dipende in parte dall’appartenenza
ad importanti organizzazioni internazionali come l'Organizzazione Mondiale del
Commercio (WTO) ed altri organismi economici. Il dibattito interno sull'opportunità
di intraprendere il tentativo di affiliazione a tali organizzazioni ha
contrapposto le parti favorevoli ad una maggiore integrazione nell'economia
mondiale con quelle piu’ inclini a tendenze isolazioniste dettate dalla preoccupazione
per i potenziali pericoli dovuti ad un’eccessiva influenza straniera. Chiaramente,
una maggiore integrazione nell'economia mondiale fu vista come un requisito indispensabile
per una crescita sostenuta dell'economia cinese. In
tal modo emersero due pericoli paralleli per il governo cinese e per il PCC. Se il
governo non avesse deciso di abbracciare con convinzione l'economia globale e
con esso le minacce di una maggiore esposizione ai valori democratici
occidentali, avrebbe rischiato di ritardare fortemente lo sviluppo. La continua
stagnazione economica porta con sé costi sociali reali e costi politici
potenziali. La
storia cinese è piena di problemi economici e politici che hanno portato a
crisi sociali.
Ciononostante, permaneva
la preoccupazione che se il governo avesse deciso di perseguire la
globalizzazione economica e l’interdipendenza internazionale, avrebbe dovuto
subire i rischi derivanti da una maggiore
esposizione alle influenze politiche e culturali straniere. Queste
considerazioni preoccupavano molti
esponenti del PCC che temevano fortemente l’avvento di nuovi costumi sociali e
di una diversificazione del pensiero politico che avrebbe potuto inquinare la
Cina e mettere a rischio il monopolio del potere politico del Partito Comunista.
Per questo motivo il
dibattito fu davvero serio e gravido di rischi, poiché la priorità assoluta del
PCC era quella di mantenere il monopolio del potere. Di conseguenza, il
perseguimento degli interessi economici sulla scena internazionale è stato
realizzato in modo graduale, valutando le esigenze caso per caso con l'obiettivo
di massimizzare il profitto e minimizzare costi e rischi.[17] L’apertura economica e la partecipazione dei
cinesi all’ODI è stata vista come un'arma a doppio taglio per ragioni sia politiche
che economiche.
Ciò ha inciso a fondo sul
ruolo dell’ODI cinese nell’evoluzione economica del paese com’anche sul processo
decisionale governativo orientato ad una gradualità che consentisse di
incrementare l’ODI, attenuandone tuttavia i rischi.
1.3 Panoramica sulle decisioni del governo cinese
Quasi in concomitanza
con la decisione di aprire la Cina all'economia di mercato, anche se in forma
limitata, fu presa la decisione di avviare il processo di investimento diretto
all’estero. I
leaders cinesi riconobbero che l'integrazione nell'economia mondiale era un
elemento di vitale importanza per la crescita economica. Tuttavia, nonostante
la riconosciuta importanza dell’ODI per questo processo di integrazione, nutrivano
ancora una forma di apprensione riguardo ai mercati esteri, preoccupati com’erano dalla possibilità di
eccessivi deflussi di capitale e dalle restrizioni di cambio, nonché da una
sensazione di inadeguatezza della Cina ad operare efficacemente all'estero e soprattutto
dal pericolo di perdere il controllo del patrimonio statale. Pertanto,
nelle prime fasi il Governo adottò un approccio molto cauto nei confronti
dell’ODI che, inizialmente, costituì soltanto una minuscola parte, insignificante
in termini economici globali. Nel 1979, l’ODI cinese ammontava soltanto
a 0,8 milioni di renminbi,[18] ma quello fu solo l'inizio di un processo
che, al suo apice nel 2008, ha raggiunto i 73 miliardi di dollari.[19]
La massiccia crescita
cinese dell’ODI è stato il risultato di un processo evolutivo sviluppatosi per
circa 30 anni e guidato fin dal primo momento dal governo centrale. Questo
processo è stato caratterizzato da cinque fasi:[20]
- Fase
1 (1979-1983): Il Consiglio di Stato era l’unica autorità deputata
all’approvazione dell’ODI che avveniva dopo aver esaminato ad una ad una le
singole esigenze. Solo le entità statali erano autorizzate ad investire
all'estero. Non furono promulgate norme sull’ODI;
- Fase
2 (1984-1992): in questo periodo furono autorizzate a richiedere l'approvazione
per l’ODI anche le imprese non-statali e vennero promulgate le prime norme
standardizzate. L'allora Ministero del Commercio Estero e della Cooperazione
Economica (MOFTEC), precursore dell’attuale Ministero del Commercio (MOFCOM), nel maggio 1984 promulgò la “Comunicazione sui principi e lo scopo dell’Autorità per l'esame e l'approvazione della
creazione di imprese non commerciali in paesi esteri, Hong Kong, e Macao”. Nel
luglio 1985, il MOFTEC attuò il “Regolamento
provvisorio sulle misure amministrative e procedure di esame e approvazione per
l’istituzione di imprese non commerciali all'estero”;
- Fase
3 (1993-1998): il verificarsi di importanti perdite di ODI a Hong Kong nel
settore immobiliare e nei mercati azionari portò all’emanazione di misure più
rigorose per il monitoraggio e il controllo dell’ODI. Lo scopo consisteva nel formalizzare
le modalità di deflusso del capitale cinese oltremare, al fine di assicurarne
il corretto investimento. La Commissione di Pianificazione
Statale (di seguito indicata con la sigla CPS) e l’Amministrazione Statale di
Controllo dello Scambio Estero (di seguito indicata con la sigla ASCSE) furono
incaricate di rivedere e valutare le proposte di ODI superiori al milione di
dollari. Il MOFTEC
manteneva ancora a sè l’autorità di approvazione definitiva ed emanò il “Regolamento di Amministrazione di
imprese oltremare”, nel 1993, e le
“Misure per l'Amministrazione delle Società commerciali e dei loro uffici di
rappresentanza all’estero”, nel
1997;
- Fase
4 (1999-2002): questa fase segnò una svolta importante nell’incoraggiare ogni tipo di impresa cinese ad andare all'estero. Il
Consiglio di Stato iniziò infatti ad offrire incentivi quali sgravi fiscali,
assistenza per il cambio e altre forme di sostegno finanziario. Inoltre, pubblicò
“Consigli per incoraggiare le imprese a sviluppare affari oltreoceano nel
settore della trasformazione e dell’assemblaggio di materiali” con l’obiettivo di promuovere la
creazione di progetti di produzione, lavorazione e montaggio di materiali cinesi all'estero;
-
Fase 5 (2002-oggi): Il 16° Congresso del PCC formalizzò nel 2002
la politica going global a sostegno
di una strategia onnicomprensiva volta ad aprire l'economia cinese ai mercati
esteri. La precedente normativa che disciplinava l'approvazione in maniera alquanto
bizantina fu ottimizzata per favorire la strategia going global. Nel 2004, il Consiglio di Stato attuò un’importante
dichiarazione con la “Decisione
sulla riforma del sistema di investimento”
in cui il governo mutò il proprio ruolo da ente di approvazione a organo di supervisione e
sostegno delle imprese cinesi all'estero. Inoltre, la Commissione nazionale di
sviluppo e riforma della Cina (di seguito indicata con la sigla CNSRC), il
Ministero degli Affari Esteri e il MOFTEC diffusero il “Catalogo Guida ai paesi e alle
industrie per gli investimenti all'estero”, che individuava determinati obiettivi
per gli investimenti cinesi. L'elenco, suddiviso in specifiche aree geografiche e settori
d’interesse, prevedeva che: “Qualsiasi impresa che risulti conforme al Catalogo
guida e sia titolare di un certificato di approvazione per l’investimento
all'estero...deve avere priorità nel godere di un trattamento preferenziale
nell'ambito delle politiche dello Stato in relazione a finanziamenti, valuta
estera, oneri fiscali e doganali, import ed export, ecc.”[21] E’ evidente che la pubblicazione di un simile catalogo
e delle annesse raccomandazioni, tuttora in vigore, crea una possibilità di incidere sui mercati
decisamente maggiore per un paese come la Cina rispetto ad un’economia
occidentale. Circa tre quarti degli ODI cinesi riguardano le imprese statali. Il
catalogo governativo mira ad indirizzare la strategia delle imprese e in
particolare delle aziende di Stato che intendono recarsi all'estero. Il
catalogo 2004 comprendeva raccomandazioni per 67 paesi (26 in Asia, 13 in
Africa, 12 in Europa, 11 nelle Americhe e 5 in Oceania) e 7 settori industriali
tra cui elettronica, manifatturiero e risorse naturali. La CNSRC ha aggiornato
i cataloghi nel 2005 e nel 2007.[22]
L'evoluzione della
posizione governativa rispetto all’ODI ha comportato un graduale allentamento
di norme in Cina, volte ad evitare la concorrenza e la duplicazione delle
attività commerciali in paesi stranieri, perseguendo contemporaneamente il potenziamento
e l’espansione del commercio in generale. In sintesi, il governo ha assunto delle
decisioni tese a facilitare gli investimenti cinesi all'estero mediante:
l'introduzione di incentivi finanziari e di altra natura; lo snellimento dei
requisiti amministrativi e di approvazione; l’alleggerimento dei controlli per
il deflusso di capitali, l’informazione e l’orientamento per le aziende che
vogliono andare all'estero; la riduzione dei rischi di investimento per le
aziende cinesi sui mercati esteri. La CNSRC
e la Banca Export-Import Cinese hanno istituito un sistema di prestito
preferenziale per progetti chiave all'estero che devono contemplare almeno uno
dei seguenti aspetti:
-
progetti di sviluppo all'estero che coinvolgano risorse
scarsamente disponibili in patria;
-
produzione all'estero e progetti
infrastrutturali che fungano da sprone all’esportazione dalla Cina di
tecnologia, prodotti, servizi e manodopera;
-
ricerca all'estero e progetti di sviluppo che
forniscano accesso a tecnologie avanzate straniere e alle competenze di
capitale umano;
- fusioni
e acquisizioni di società estere che migliorino la competitività delle aziende
cinesi a livello globale e forniscano l'accesso ai mercati esteri.
Il governo cinese offre
incentivi fiscali per le aziende cinesi affiliate all’estero che vengono
dapprima esentate dalle imposte nei primi cinque anni di costituzione e, successivamente,
vengono tassate soltanto al 20%.[23] La CNSRC e il MOFCOM esaminano e approvano le richieste di ODI. Nel
2004 queste organizzazioni hanno rispettivamente emanato le “Misure
provvisorie per l’amministrazione di esami e approvazioni di progetti di
investimento all'estero” e le “Disposizioni in materia di esame e
approvazione di investimenti per la conduzione di imprese all'estero” che hanno
introdotto 3 importanti elementi: decentramento a livello locale del potere di approvazione
dei progetti all'estero; semplificazione delle procedure tramite
l’eliminazione degli studi di fattibilità e altri documenti giustificativi;
aumento della trasparenza mediante un maggior ricorso a risorse online.
Il governo centrale
cinese ha voluto collegare l’ODI rivolto a specifiche località e settori
industriali con le strategie di lungo periodo della Cina. L’ASCSE
è responsabile dei controlli sul capitale. L’enorme crescita del surplus di capitale ha provocato un aumento degli investimenti esteri. Nel corso
degli anni, l’ASCSE ha gradualmente riformato e liberalizzato le procedure onde
consentire alle imprese cinesi operanti all'estero di reinvestire più
facilmente i profitti in loco. Nel 2005 ha permesso ai suoi uffici locali di
gestire tutte le operazioni fino a 10 milioni di dollari e ha assegnato ai suoi uffici cambi una quota di 5
miliardi. In
sintesi, l'evoluzione delle politiche ASCSE ha permesso alle aziende cinesi di
accedere ad una maggiore quantità di valuta estera e di prestare denaro alle
loro filiali all'estero.
Il MOFCOM ha pubblicato
nel 2004 le “Linee guida per gli investimenti in industrie dei paesi d'oltremare”, stabilendo che le imprese
cinesi dotate di certificati di approvazione per gli investimenti all'estero
sarebbero state autorizzate a trattamenti di favore riguardanti l'acquisto di
capitale in valuta estera, la fiscalità, i dazi doganali e altri trattamenti
governativi preferenziali. Inoltre, il MOFCOM ha creato una banca
dati online per informare le imprese cinesi circa le opportunità di
investimento all'estero.
Nello stesso anno, il MOFCOM
ha definito anche i “Sistemi di riporto
per gli investimenti e gli ostacoli al funzionamento”, mirati a diminuire i rischi di
investimento sostenuti dalle società cinesi all'estero. Il MOFCOM sfrutta le
missioni diplomatiche e le altre
attività commerciali cinesi all'estero, per evidenziare i problemi e le sfide che
le aziende affrontano all’estero in modo da avvertire e proteggere i potenziali
investitori. In caso di problemi, inoltre, il MOFCOM può anche ergersi a protezione
delle imprese cinesi all'estero, facendone
le veci nei contatti con il paese ospitante.
Sempre nell’intento di ridurre
i rischi di investimento per le imprese cinesi,
il MOFCOM ha inoltre collaborato
con alcune agenzie governative per emanare, a partire dal 2003, i seguenti cinque
documenti:“Sistema statistico per gli investimenti
diretti all'estero; “Misure per la valutazione complessiva e l’ispezione
congiunta annuale relative agli investimenti oltremare”; “Sistema di registrazione
via internet per l’esplorazione delle risorse minerarie nei paesi esteri”;
“Sistema di riporto profasico per le questioni riguardanti la fusione e
l’acquisizione delle imprese oltremare.”
Il sostegno statale è cruciale
per le imprese cinesi che vogliono andare all'estero. L'assistenza
pubblica non si limita soltanto alla semplificazione delle procedure di
approvazione necessarie per le imprese intenzionate a diventare globali. Oltre
alle varie misure già introdotte, nel maggio 2009 il governo ha delegato a
livello provinciale, e anche inferiore, il processo di approvazione degli
investimenti fino a 100 milioni di dollari.[24]
Pechino fornisce inoltre sovvenzioni e crediti alle imprese che tentano di penetrare
i principali mercati d'oltremare con progetti nel settore energetico e
nell’acquisizione di tecnologia.
Alcune Banche di Stato hanno ampliato la
loro presenza all'estero, al fine di facilitare l’ODI e incrementare gli
investimenti nei mercati finanziari d'oltreoceano. Dal
2007 al 2008, ad esempio, gli investimenti nei settori finanziari stranieri
sono aumentati di 7 volte e hanno raggiunto il valore di circa 14 miliardi di
dollari che, secondo
il Ministero del Commercio, hanno rappresentato il 25,1% dell’intero ODI cinese
di quel periodo.[25]
Nel mese di aprile
2009, il MOFCOM ha emanato nuove linee guida per gli investimenti all'estero.
Questa volta, il pseudo-catalogo di mete consigliate per l’ODI cinese ha
coperto oltre 160 sedi estere e, sfruttando i suggerimenti delle missioni
diplomatiche, ha indicato opportunità, rischi e fattori mitiganti.[26]
Sempre nel 2009, il
governo cinese ha anche annunciato che avrebbe destinato una quota delle sue
riserve estere per sostenere “le imprese cinesi che si muovono sui mercati
esteri”. Inoltre, il fondo sovrano China Investment Corporation (CIC), ha lanciato
una campagna per ampliare le acquisizioni azionarie di società straniere.[27]
Come dimostrano tali
dati, il governo centrale ha intrapreso passi concreti fin dai primi giorni dell’ODI
cinese. La
sua politica si è evoluta e riformata nel corso degli anni con semplificazioni e
liberalizzazioni di procedure, politiche,
servizi e condizioni volte a incoraggiare, facilitare e proteggere gli
investimenti cinesi all'estero. Senza
dubbio ciò ha prodotto un notevole aumento delle imprese cinesi all'estero e ovviamente
degli investimenti Secondo dati MOFCOM del 2010, la presenza cinese all'estero
conta circa 14,400 imprese.[28]
Capitolo 2 - Il ruolo
delle imprese e degli enti commerciali nella politica estera cinese
Il ruolo dell’impresa
nella liberalizzazione dell’economia cinese post-Mao è stato centrale sin dalle
fasi iniziali e, da allora, le grandi aziende cinesi si sono dovute evolvere, per
diventare competitive a livello internazionale. I
leaders cinesi sapevano che avrebbero dovuto costruire potenti compagnie a
livello mondiale affinché l'economia del Paese potesse crescere in modo
sostenibile. Nell’agosto del ‘98, l’allora Vice Premier Wu Bangguo affermò che:
“La nostra posizione nazionale nell’ordine economico internazionale sarà in
gran parte determinata dalla posizione dei
nostri grandi gruppi e imprese.”[29]
Influenzato
dall'esperienza del modello sud coreano chaebol e del giapponese keiretsu, Pechino decise di selezionare
ciò che Nolan ha chiamato una Nazionale
delle grandi imprese industriali, per alimentarle, favorirle e supportarle in
modo da renderle competitive a livello
globale. Questi
pochi eletti che The Economist ha definito campioni
nazionali, sono stati sostenuti con politiche industriali favorevoli, prezzi
immobiliari ridotti, prestiti preferenziali e quotazioni privilegiate in borsa.[30] Tra i prescelti comparivano la Sinopec
(China National Petrochemical Corporation) e la CNPC (China National Petroleum
and Gas Corporation), per il settore petrolifero e petrolchimico; l’AVIC
(Aviation Industries of China) per il settore aerospaziale; le città di
Shanghai, Harbin e Dongfang per gli apparati elettrici; le città di Yiqi, Erqi
e Shanghai, per il settore auto; la China Mobile e la China Unicom per il
settore delle telecomunicazioni.[31]
In Cina, alcuni settori
industriali e commerciali sono considerati il cuore dell'economia nazionale e,
pertanto, la legge prescrive che tutte le imprese ivi operanti siano di
proprietà dello Stato o da esso controllate, a prescindere dalla struttura
azionaria (tab.1). I settori in argomento sono: energetico (generazione e distribuzione);
petrolifero, carbonifero, petrolchimico; gas naturale; macchinario;
automobilistico; ferroso, acciaifero e metallifero; edile; informazione; telecomunicazioni;
armamenti aerei e marittimi.[32]
Tabella 1: Imprese
cinesi collegate al governo
Attività
|
Quota governativa
|
|
Produzione e distribuzione di
petrolio
|
||
Produzione e distribuzione di petrolio
|
||
Telefonia
mobile
|
||
Esplorazioni petrolifere
|
||
Informatica
|
||
Fonte:
BusinessWeek, agosto 22/29, 2005
La crescente diffusione
di entità commerciali al di fuori dei confini nazionali è divenuta un elemento importante per la Cina
dove gli attori di politica estera non si limitano al governo, al PCC e ai
militari, ma si estendono, nell’attuale panorama, alle aziende di Stato, agli
istituti finanziari e alle società del settore energetico. Questo fenomeno non
riguarda esclusivamente la Cina, ma i suoi effetti sono molto piu’
appariscenti, poichè esiste una relazione simbiotica tra imprese, governo e
leaders del partito. Inoltre, la particolare attenzione della Cina ad
assicurarsi il flusso di materie prime provenienti da sedi offshore è
accompagnata da implicazioni commerciali
di carattere politico, economico e di sicurezza. L’ imperativo di far crescere l'economia cinese con i suoi
associati ODI, come descritto in precedenza, comporta anche l'importante ruolo di
politica estera svolto dalle aziende commerciali. La diplomazia
del “libretto di assegni” di Pechino si
basa sulla presenza economica all'estero e quindi le imprese interessate sono
un perno fondamentale intorno al quale
ruota la diplomazia.
Le aziende cinesi
coinvolte nei settori di importanza strategica per lo Stato, ovvero il petrolio, i minerali e la difesa, hanno un
ruolo di rilievo nella politica estera cinese. Pertanto, quando si procede a formulare
la politica di sicurezza energetica, i leaders delle grandi aziende di Stato
(SOE) competenti in materia partecipano in qualità di membri al ciclo
decisionale ufficiale. I dirigenti di queste aziende ricadenti sotto il
governo centrale come la China National Petroleum Corporation (CNPC), ad
esempio, sono nominati dal Dipartimento Organizzazione del Comitato Centrale
del PCC e hanno rango di ministro o vice ministro e sono membri supplenti del
Comitato centrale.[33]
La partecipazione dei vertici
delle aziende SOE sia al sistema statale sia a quello partitico costituisce un
importante legame politico, detto guanxi, che
consente loro di contribuire alle decisioni politiche relative agli specifici
settori di attività ed interesse. A volte, il confine tra azienda e governo
è davvero molto labile. Negli ultimi anni, ad esempio, due
funzionari degli Esteri sono stati assegnati agli uffici della CNPC ubicati in un
particolare paese, per poi divenire funzionari diplomatici in quello stesso
paese in cui avevano prestato servizio come funzionari CNPC.[34] Ciò sarebbe pressoché impossibile nel
corpo diplomatico di altri paesi, perché la maggior parte delle economie
sviluppate lo considererebbe un inaccettabile
conflitto di interessi.
Le aziende sono strumenti frequentemente usati
per attuare la politica estera di Pechino come nel caso degli aiuti ai paesi
del terzo mondo che, molto spesso, consistono nel realizzare grandi progetti
infrastrutturali con imprese e finanziamenti bancari forniti dalla stessa Cina.
Molte strade, stadi e ospedali in Africa, Asia Centrale, Sud Pacifico e nel
bacino dei Caraibi sono stati costruiti dalla diplomazia del dollaro cinese. L'ambito
e la portata delle attività commerciali cinesi all'estero dettano certamente fino
a che punto esse devono essere considerate elementi di politica estera, com’e’
di solito molto evidente nel caso delle aziende energetiche cinesi in Africa e
in Asia centrale.
Inoltre, altri accordi concernenti le
risorse naturali sembrano rafforzare l’interdipendenza tra imprese e governo. In
Afghanistan, nel 2007, la China Metallurgical Construction Corporation acquistò
la miniera di rame Aynak e i media diedero ampia informazione riguardante le
forti pressioni cinesi sul governo afgano e le presunte tangenti versate per
ottenere il sostegno dei principali leaders afgani. L’affare da 3,5 miliardi di dollari
prevedeva un impegno cinese a lungo termine per sviluppare infrastrutture ferroviarie,
energetiche e sanitarie del paese.[35]
Tutte le imprese cinesi
hanno un’organizzazione del PCC parallela alla struttura societaria, nel
rispetto di un requisito standard che permette al PCC di essere sempre ben presente,
vigile e visibile nelle attività commerciali. Sebbene decenni di riforme
abbiano prodotto un’evoluzione delle aziende di Stato in molti settori, il
ruolo del partito risulta ancora determinante. Il
Chief Executive Officer (CEO) di un’azienda di Stato deve considerare alcuni fattori
politici che non rientrano tra le competenze delle multinazionali e degli amministratori
delegati di altri paesi. I CEO delle più grandi SOE sono in
realtà nominati dal Dipartimento Organizzazione Centrale del PCC. La Commissione
di Supervisione e Amministrazione degli Assetti Statali (CSAAS) controlla registra e valuta le
attività di circa 200 imprese statali. La CSAAS
ha ruotato senza alcun preavviso la
leadership tra alcune compagnie telefoniche rivali (China Telecom, China Unicom
e China Mobile).[36] Ciò assicura che
le attività delle aziende cinesi, sia in patria sia all'estero, siano in linea
con gli obiettivi del governo e del PCC che decide la regolare rotazione dei funzionari
tra governo e cariche aziendali.[37]
Come indicato nel precedente
esempio relativo ai diplomatici cinesi, l’influenza dell’apparato centrale è
evidente anche in altri settori. Nell'ottobre 2003, ad esempio, Wei
Liucheng divenne Governatore Provinciale dell'isola di Hainan dopo essere
stato, nel suo precedente incarico, Amministratore Delegato, Presidente del
Consiglio e Segretario di Partito della China National Offshore Oil
Corporation.[38]
Il significativo legame
tra partito e settore privato è ancora più evidente nel caso di una delle società di maggior successo, l’Haier
Group, produttore di elettrodomestici. Probabilmente questa società non ha una rilevanza
strategica, ma negli Stati Uniti e’ molto famosa per i piccoli frigoriferi
ideali sia per i vini sia per gli alloggi universitari, e ha dunque un ruolo di rilievo dettato
dall’enorme successo internazionale. Pertanto, il suo presidente,
Zhang Ruimin, è stato nominato membro supplente del PCC dal Comitato Centrale del
2002, divenendo uno dei pochi imprenditori che ricoprono un simile incarico,
segno evidente delle sue connessioni politiche.[39]
La Export Import Bank
of China (Eximbank) e la China Development Bank (CDB) sono le principali banche
cinesi controllate dal governo. L’Eximbank
è indirizzata all’espansione del commercio internazionale, mentre la CDB ha il
compito di promuovere lo sviluppo delle infrastrutture economiche in Cina. Entrambe
sostengono direttamente la politica governativa del going global, attraverso l’erogazione di prestiti, garanzie e crediti
per le esportazioni a favore delle imprese cinesi operanti all'estero. Sia
l’Eximbank sia la CDB sono concentrate sulle società interessate allo
sfruttamento delle risorse e dei progetti di sviluppo delle infrastrutture
all'estero; pertanto, hanno assunto un ruolo importante per il supporto alle
aziende dedicate alle risorse minerali, al petrolio, alle telecomunicazioni e al
lavoro all'estero.
L’Eximbank è l'unica banca cinese autorizzata
a concedere prestiti agevolati ed è il principale finanziatore di prestiti ai governi
stranieri; quindi, è anche uno dei principali attori nell’allocazione degli aiuti
all’estero. Sul
proprio sito web, nel 2007 ha così descritto la sua missione:“Attuare le
politiche statali nel settore industriale, del commercio estero, diplomatico,
economico, finanziario ...” [40] Nel
2009, ha elargito un prestito di 5 miliardi di dollari alla Banca per lo
sviluppo del Kazakistan, per realizzare un progetto petrolifero. L’operazione
era parte di un accordo che ha concesso alla CNPC una quota del 50% in uno dei
più grandi progetti relativi al gas e al petrolio Kazaki. L’Eximbank
è anche una banca di policy del
Consiglio di Stato, condizione che unita al suo ruolo di aiuti all’estero, le
dà voce in capitolo nel processo di formazione della politica estera per quanto
riguarda il commercio e gli investimenti.
La CDB, invece, nel 2004 ha concesso un
prestito agevolato di 10 miliardi di dollari all’Huawei Technologies, produttore
di apparati di telecomunicazione, al fine di favorirne l'espansione all'estero.
Nel 2007 ha investito 5 miliardi per costituire il Fondo di Sviluppo
Cina-Africa, teso a finanziare e migliorare i rapporti commerciali sino-africani.[41] Nel 2009 ha concesso un prestito di 25
miliardi alle società russe Transneft e Rosneft, gestrici di oleodotti, che ha
immediatamente permesso di raggiungere l’accordo inerente a un oleodotto
russo-cinese che sino ad allora era stato oggetto di aspri e inutili negoziati risalenti
addirittura al 1994. Sempre nel 2009, la CDB ha anche erogato un prestito
di 10 miliardi al più grande produttore petrolifero brasiliano, la Petrobras,
ricevendo in cambio una fornitura decennale di petrolio. Inoltre,
ha costituito una joint venture con una
banca in Pakistan destinata a supportare le aziende cinesi coinvolte nelle infrastrutture
e nella produzione, mentre sul versante occidentale ha stanziato 3 miliardi, nel 2007,
per acquisire un’importante quota della banca inglese Barclays.[42]
La particolare rilevanza
e influenza della CDB, che ha un suo
braccio di ricerca di policy e si concentra sullo sviluppo economico, è
ulteriormente sottolineata dal rango ministeriale del Presidente della Banca.
E’ un evidente
vantaggio che gran parte degli investimenti cinesi all’estero vengano effettuati
da imprese statali. Le SOE non sono infatti obbligate alla trasparenza
richiesta ai concorrenti occidentali, che viceversa sono tenuti a pubblicare
relazioni annuali per gli azionisti; inoltre, possono avere accesso immediato al
capitale governativo e possono permettersi una visione strategica a lungo termine,
integrata nelle priorità governative, senza l’assillo di dover inseguire i profitti
a breve termine e doversi preoccupare di indirizzi che non provengano dal governo
e dal Partito.[43]
Capitolo 3 - Motivi del
"Going Global"
Gli investimenti esteri
sono diventati una realtà crescente dell'economia cinese. Alcuni sostengono che
ciò rappresenti un ampio processo di liberalizzazione economica e di ristrutturazione
in cui gioca un ruolo di primo piano il governo centrale anziché l'imprenditoria
privata. La spinta di Pechino agli investimenti all'estero è radicata nelle
caratteristiche fondamentali del mercato e nelle realtà della globalizzazione e
della regionalizzazione, oltre alle considerazioni geopolitiche e strategiche.[44]
Vi è un’ampia
letteratura sugli obiettivi e le motivazioni dell’ODI. L’United Nations’
Department of Economic and Social Development, Transnational Corporations and
Management Division (UN TCMD) individua 5 categorie principali di investimenti realizzati
da imprese di paesi in via di sviluppo: ricerca di mercati per l’ODI; focus
sull’esportazione; ricerca di risorse, tecnologie ed efficienza.[45] Nel caso cinese, l'OCSE fissa 5 grandi categorie di ricerca: risorse,
mercati, risorse strategiche, diversificazione ed efficienza.[46] Zhan cita le seguenti motivazioni
dell’ODI cinese: sicurezza e stabilità di approvvigionamento delle risorse
naturali indisponibili in Cina nelle quantità richieste; incremento delle
riserve; opportunità di aumento delle esportazioni; accesso alle tecnologie
avanzate e al capitale umano altrimenti indisponibili in Cina; consolidamento
di legami economici e politici tra la Cina e determinati paesi.[47]
Alcuni studi hanno cercato
di sintetizzare le linee guida seguite dalle imprese cinesi nelle operazioni di
investimento estero con i seguenti punti:
-
ricerca di
nuovi mercati per le aziende di commercio;
-
desiderio delle aziende manifatturiere di evitare
la saturazione dei mercati nazionali e gli ostacoli agli scambi con altri
paesi;
-
necessità di assicurarsi un accesso stabile e sicuro
alle materie prime, alle fonti energetiche e alle risorse naturali;
-
necessità di acquisire competenze tecnologiche e
manifatturiere avanzate;
-
esigenza di ottenere marchi riconosciuti a
livello internazionale;
-
imparare
metodi avanzati di gestione;
-
sfruttare le politiche preferenziali di
investimento all’estero;
-
ridurre i costi di produzione;
Tra la fine del 1988 e la metà del 1989, la Fudan University di
Shanghai effettuò un'indagine, sotto la supervisione dell’Ufficio Cooperazione
Economica Internazionale del MOFTEC, per accertare i motivi che avrebbero
dovuto spingere la Cina ad investire all'estero. Il
questionario proponeva 18 alternative tra cui le prime sei erano:
creare le condizioni per altre attività commerciali; aprire nuovi mercati;
acquisire informazioni di prima mano sulla produzione estera e di mercato;
promuovere le esportazioni di beni strumentali, materiali e del lavoro;
acquisire tecnologie, capitali stranieri e capacità di gestione; sfruttare le condizioni
preferenziali offerte dal governo.[49]
L’agenda politica ed economica a dimensione
globale del governo cinese è un fattore chiave della spinta alle imprese per andare
all'estero. Con
l'espansione dei legami economici bilaterali e multilaterali, Pechino è in
grado di aumentare il proprio peso politico e di influenzare sia le aree
oggetto di accordo sia quelle limitrofe. E' evidente che l’apertura
economica della Cina all'esterno, come si può osservare nei suoi mezzi e fini,
è chiaramente in linea con la strategia di rafforzare la presenza politica a
livello globale. Infatti,
i leaders politici ed economici (di Stato e di partito) operano in
coordinamento tra loro per rafforzare i rapporti cinesi con le altre regioni e paesi.
Pertanto, si può
concludere che ci sono diversi denominatori economici comuni che ispirano l’ODI
cinese, riassumibili nella possibilità di assicurarsi l'accesso ai mercati esteri, alle risorse
naturali, alle tecnologie avanzate e alla proprietà intellettuale.
La ricerca di nuovi
mercati è l’obiettivo principale della maggior parte degli investimenti
all’estero, in linea con l'economia di esportazione stabilita in Cina sin dalla
fine del 1970. Le
imprese cinesi hanno bisogno di andare all'estero per garantirsi il costante accesso
a clienti cui vendere i loro prodotti. Nel settore manifatturiero, la
domanda interna cinese è al suo zenith e si riscontrano anche grandi eccessi di
produzione in alcuni sub-settori quali il tessile, il calzaturiero e le
elettroforniture. L'economia
cinese dipende dalle esportazioni e le industrie prosperano in funzione delle commesse
estere, come dimostrato dalla recente recessione economica globale che ha provocato
immediati contraccolpi sulle fabbriche non appena gli ordini hanno iniziato a diradarsi. La
grande dipendenza dai mercati del Nord America e dell'Europa occidentale si è
ampliata ai mercati emergenti:Africa, America Latina, Eurasia e Sud-Est
asiatico. Di
conseguenza, le società di servizi cinesi hanno stabilito canali di
esportazione in queste aree, per
sostenere più efficacemente i produttori
cinesi mediante prodotti in linea con le esigenze della clientela d'oltremare. Queste
imprese avanzate fungono dunque da recettori di indicazioni di mercato. Un
altro motivo che spinge inoltre le imprese cinesi ad espandersi all'estero e’
la possibilità di evitare tariffe e
barriere commerciali.
La disponibilità di risorse naturali procapite
in Cina è relativamente bassa e, quindi, il Paese guarda all'estero per
garantirsi un accesso costante alle risorse naturali. Dall'inizio
di going global, la ricerca di
risorse naturali è in cima alle priorità governative relative all’ODI. Il
petrolio e il gas naturale necessari per alimentare l'industria e l'economia
nazionale sono oggetto di crescente attenzione, ma anche rame, stagno,
alluminio, ferro, legname e altre materie prime vengono sempre più alla ribalta,
giacché le imprese cinesi desiderano
assicurarsi l'accesso a lungo termine alle materie impiegate nella loro
economia di esportazione.
La ricerca di assets strategici è un tema
centrale per le società cinesi che si sono recate all'estero per
acquisire un marchio, una tecnologia, un’expertise o qualcosa di materiale o concettuale
difficilmente producibile in patria o senza aiuti esterni. Le imprese cinesi del
settore aeronautico, spaziale, elettronico e ingegneristico hanno cercato di
stabilirsi all'estero per canalizzare il ritorno in patria di tecnologie
fondamentali per migliorare le capacità produttive cinesi. Idem
dicasi per le attività di ricerca e sviluppo. Nel 1988, ad esempio, la Shougang
Corporation comprò il 70% del Masta Engineering Company, un'azienda americana tra
le più note a livello internazionale per la progettazione e la costruzione di
impianti metallurgici. Grazie all’acquisizione di questa quota di maggioranza, la Shougang si trovò in
condizione di accedere, praticamente da un giorno all'altro, a tutti i piani, progetti,
brevetti e tecnologie della Masta raggiungendo in un colpo solo livelli di capacità altrimenti impossibili da ottenere
in tempi così brevi. [50]
Un altro esempio è rappresentato
dall’acquisto di un’icona automobilistica, la svedese Volvo, che nel 2010 lo sconosciuto
Zhejiang Geely Holding Group ha rilevato per 1,8 miliardi. Il Gruppo ha così acquisito
non solo il know-how su come gestire una catena di approvvigionamento
internazionale e una rete globale di concessionari, ma anche la proprietà
intellettuale in materia di sicurezza che ha reso la Volvo leader indiscusso
del settore e che ora consente all’industria cinese di sanare una delle sue più
gravi carenze nella produzione di vetture.[51] Ed infatti il portavoce del Ministero
del Commercio ha esplicitamente detto che l'accordo con la Volvo offre quelle
capacità tecnologiche che l’industria automobilistica cinese ha vanamente
agognato per lungo tempo.[52]
Un elemento chiave che ancora manca alla
crescente capacità economica cinese è l’affermazione ed il riconoscimento di un
nome a livello internazionale. Con l'acquisto di marchi stranieri
affermati come IBM o Maytag, le aziende cinesi sono in grado di acquisire in 24
ore la notorietà internazionale di una marca e la proprietà intellettuale di imprese
estere che consentono un salto tecnologico per l'acquirente cinese.
In sintesi, le imprese stanno cercando di
rafforzare il loro loro accesso alle risorse naturali necessarie per continuare
ad alimentare la rapida crescita economica della Cina. L’acquisizione di gas e
petrolio esteri è in cima alle priorita’ governative e quindi le aziende statali
come Petrol Cina, Sinopec e CNOOC si stanno rapidamente espandendo oltremare in
cerca di assets che possano sostenere la crescita economica nazionale. Infine,
occorre anche considerare che l'ingresso di Pechino nel WTO ha sì aperto il
mercato cinese alle aziende straniere e ha creato una maggiore concorrenza interna,
ma ha anche spianato la strada per l'estero ai cinesi, che stanno costruendo le
proprie capacità per competere in modo più efficace e redditizio sia in patria sia
all’estero.
[1] Colonnello dell’Esercito
degli Stati Uniti, frequentatore della Sessione IASD Anno Accademico 2010-2011
* Le opinioni espresse
in questo manoscritto sono quelle dell'autore
e non riflettono necessariamente le opinioni del Dipartimento della Difesa statunitense o
delle sue agenzie.
[2] Shi Jiangtao,
“Hu Hails Reforms, says Much More Still to Do,” China Daily, December 19, 2008, 1.
[3] Deng Xiaoping, “Why China has Opened Its Doors,” Foreign Broadcast Information Service, Daily
Report: China, February 12, 1980, LI-5.
[4] Peter Wood and Kerry Brown, “China ODI:
Buying into the Global Economy,” XRG C-ODI Report, October 2009, 5.
[5] “World Investment Report,” United Nations
Conference on Trade and Development (UNCTAD), 2005.
[6] Yun Schueler-Zhou, Margot Schueller, and
Magnus Brod, “Chinas Going Global – Finanzmarktkrise bietet Chancen fuer
chinesische Investoren im Ausland,” GIGA Focus, August 2010, 2.
[7] David Zweig, “China and the World Economy: The Rise
of a New Trading Nation” (presentato alla World International Studies
Association, Ljubljana, Slovenia, il 24.7.2008) .
[8]
Jiang Zemin, discorso al 15° Congresso nazionale del Partito
Comunista Cinese, del 12.9.1997.
[9] Elizabeth Economy, “The Game Changer,” Foreign Affairs 89, no. 6
(November-December 2010): 145.
[12] Zeng Bijian, “China’s Peaceful Rise,” Foreign Affairs 84, n. 5, (September-October 2005): 18-24
[13] A Ravenous Dragon,” The Economist, March 15, 2008
[14] David Zweig and Bi Jianhai, “China’s Global
Hunt for Energy” Foraign Affairs 84, n.5, (Sept-Oct 2005):25.
[15] Michael Swaine
and Ashley Tellis, Interpreting China’s
Grand Strategy: Past, Present, and Future (Santa Monica: RAND, 2000),
97-98.
[16] Xiaohui Liu, Trevor Buck, and Chang Shu,
“Chinese Economic Development, the Next Stage: Outward FDI?” International Business Review 14,
(2005), 98.
[17]Philip Andrews-Speed and Sergei
Vinogradov, “China’s Involvement in Central Asian Petroleum,” Asian Review XL, no. 2 (March/April
2000): 379.
[18] Kevin Cai, “Outward Foreign Direct Investment: A
Novel Dimension of China’s Integration into the Regional and Global Economy,” The China Quarterly, no.160 (1999): 859.
[19] “FACTBOX:
China’s outbound M&A in 2009 and the past decade,” Thomson
Reuters, January 20, 2010,
http://in.reuters.com.
[20] Kenny Zhang, “Going Global: The Why, When, Where, and How of Chinese
Companies’ Outward Investment intentions,” Asia Pacific Foundation of Canada,
November 2005.
[21] David Zweig, “A New Trading State
Meets the Developing World,” Hong
Kong University of Science and Technology, Working Paper 31, 2010.
[22] Schueler-Zhou, Schueller, and Brod,
“Chinas Going Global – Finanzmarktkrise bietet Chancen fuer chinesische
Investoren im Ausland,” 4.
[23] James Zhan, “Transnationalization and Outward
Investment: the Case of Chinese Firms,” Transnational Corporations, Vol. 4, No.
3 (December 1995).
[24] Hu Yue, “Heading Abroad. China Eases the Rules on Overseas Investment
to Help Domestic Companies Go Global, Beijing
Review, April 2009, 13.
[25] MOFCOM Website, www.mofcom.gov.cn.
[26] “China issues new guidelines for overseas
investment,” People’s Daily, April
10, 2009, http://english.peoplesdaily.com.cn.
[27] Schuler-Zhou, Schueller, and Brod, “Chinas
Going Global – Finanzmarktkrise bietet Chancen fuer chinesische Investoren im
Ausland,” 4.
[28] MOFCOM Website, www.mofcom.gov.cn.
[29] Peter Nolan and Jin Zhang, “The
Globalization Challenge for Large Firms from Developing Countries: the Case of
China’s Oil and Aerospace Industries,” University
of Cambridge, 3.
[30] “The Struggle of the Champions,” The Economist, January 6, 2005.
[31] Nolan and Zhang, “The Globalization
Challenge for Large Firms from Developing Countries: the Case of China’s Oil
and Aerospace Industries,” 3.
[32] Derek Scissors, “Deng Undone,” Foreign Affairs 88, no. 3 (May/June
2009): 28.
[33] Linda Jakobson and Dean Knox,
“New Foreign Policy Actors in China,” SIPRI Policy Paper #26, September 2010.
[34] Jakobson and Knox, “New Foreign Policy Actors
in China,” 26.
[35] Jakobson and Knox, “New Foreign Policy Actors
in China,” 27.
[36] Frederik Balfour, “The State’s Long Apron
Strings,” Business Week, August 22,
2005, 61.
[37] Scissors, “Deng Undone,” 28.
[38] Wood and Brown, “China ODI: Buying into the
Global Economy,” 30.
[39] Yibing Wu, “China’s Refrigerator Magnate,” The McKinsey Quarterly, no. 3 (2003):
109.
[40] China Eximbank website,
http://english.eximbank.gov.cn//.
[42] Bill Powell, “Enter the
Dragon,” Time, August 2, 2007, http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,1649318,00.html.
[43] Congressional Research Service Report, China’s Foreign Policy:What Does it Mean for
U.S. Global Interests?, report prepared by
Kerry Dumbaugh, July 18, 2008, 13.
[44] Mark Yaolin Wang, “The Motivations Behind
China’s Government Initiated Industrial Investments Overseas,” Pacific Affairs, Summer 2002.
[45] UN-TCMD, Transnational Corporations from
Developing Countries: Impact on their Home Countries, (New York: United Nations, 1993), 11-14.
[46] Wood and Brown, “China ODI: Buying into the Global
Economy,” 29.
[47] Zhan, “Transnationalization and Outward
Investment: the case of Chinese
Firms.”
[48] Zhang, “Going Global: The Why, When, Where, and How f Chinese
Companies’ Outward Investment intentions,” 13.
[49] Ye Gang, “Chinese Transnational Companies,”
Shanghai Research Institute of Economy and Trade.
[50] Zhan, “Transnationalization and Outward
Investment: the case of Chinese
Firms.”
[51] “Geely Buys Volvo,” The Economist, April 3, 2010, 60-61.
[52] “Geely’s US$2B Volvo Deal a Test Run for
Foreign Takeovers,” South China Morning
Post, February 6, 2010, 8.
Nessun commento:
Posta un commento