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mercoledì 9 febbraio 2022

Lapo Loris. UN’AREA STRATEGICA VULNERABILE. Le linee difensive nel Friuli-Venezia Giulia durante la Guerra Fredda III Parte

 III Parte la II parte è stata pubblicata  in data 20 gennaio 2022 su questo blog 

 Infatti, la strategia americana, basata inizialmente sulla teoria di Eisenhower sulla risposta nucleare massiccia anche in caso di attacco convenzionale sovietico, si evolvette con la risposta flessibile di Kennedy ma non esonerò la Nato dal cercare di mantenere un deterrente convenzionale credibile alla dilagante superiorità numerica in fatto di truppe corazzate/meccanizzate ed artiglieria da parte sovietica e dei suoi alleati. Pur essendo considerato dai comandi Nato un teatro secondario, anche il confine nordorientale italiano era stato messo a dura prova, come già ricordato, dalle pretese territoriali della Iugoslavia post-bellic di Tito, cosa che aveva provocato una mobilitazione imponente dell’esercito italiano in vista di un possibile atto di forza della repubblica titina. Passato questo pericolo rimase la possibilità di una aggressione del Patto di Varsavia verso il nostro paese che probabilmente sarebbe partita dal territorio ungherese. Che il Patto di Varsavia avesse in organico una imponente massa di forze corazzate/meccanizzate con spiccata vocazione offensiva è fuor di dubbio. Dalla Tavola 2 si può notare come la superiorità numerica nei confronti della Nato nei vari settori di armamento fosse evidente. Certamente la qualità dei mezzi di produzione sovietica non sempre fu alla altezza dei mezzi occidentali più recenti; tuttavia, anche questi non erano in dotazione che a pochi eserciti occidentali, Usa e Repubblica Federale Tedesca in primis. É comunque interessante notare che, in caso di un attacco al fianco sud del fronte europeo, dove anche aliquote dell’Armata Rossa fossero state coinvolte, l’impatto sulla linea difensiva in Friuli sarebbe stato molto gravoso per il nostro esercito.

Con l’entrata dell’Italia nella Nato nel 1949 e nel timore di una penetrazione sovietica dall’Austria, si decise di riutilizzare le fortificazioni del Vallo del Littorio nella parte confinante con questa nazione. Non solo ma si pensò di costruire ex novo, vista la perdita di territori ad est, una serie di fortificazioni che per prima cosa difendessero i ponti sul fiume Tagliamento, principale corso d’acqua del Friuli. Nacque così la Linea Gialla con l’edificazione di una serie di nuove fortificazioni a cavallo del fiume, del resto consentite dal trattato di Parigi del 1947, in quanto lontane dal confine. Si pensò poi, non solo di erigere un sistema fortificato che comprendesse la pianura friulana, la fascia alpina e prealpina, ma anche all’eventualità di poter entrare in caso di necessità in territorio austriaco e iugoslavo per predisporre una difesa avanzata. Accantonato quest’ultimo piano per evidenti motivi di inopportunità politica, lo Stato Maggiore Italiano emise uno studio denominato “Organizzazione difensiva della fascia di frontiera” che definì lo schema della difesa del confine orientale. Nacque così la Linea Azzurra, edificata a ridosso del confine segnato dal fiume Isonzo, formata da tutta una serie di capisaldi protetti dotati di armi anticarro e mitragliatrici.

Gli armamenti inizialmente in dotazione furono le mitragliatrici Breda 37 e i cannoni Firefly da 75mm. che equipaggiavano i carri Sherman, anche se dal 1953 in poi si iniziò a modernizzare le postazioni con pezzi da 90/50 e le mitragliatrici Mg 42/59.In definitiva le linee difensive approntate furono tre. La prima che dalla Carnia costeggiando il confine iugoslavo raggiungeva l’Adriatico. La seconda, arretrata di poco, seguiva il corso dei fiumi Isonzo-Natisone- Torre e la terza arroccata lungo tutto l’alveo del Tagliamento. Nel 1955, oltre alla attivazione da parte della Nato delle armi nucleari tattiche, vi fu la costituzione della Setaf (Forza Tattica Americana per il Sud Europa) con sede a Vicenza. L’ingresso delle armi nucleari tattiche, probabilmente usate anche dagli attaccanti, costrinse lo Stato Maggiore a introdurre nuove linee guida che permettessero alle linee difensive di resistere in ambiente contaminato, ribadendo l’importanza strategica di queste e ipotizzando uno scontro con grandi forze corazzate nemiche. La grande riforma dell’esercito del 1975 coinvolse anche il sistema fortificato friulano, infatti con la circolare nr. 900 il ruolo delle opere difensive statiche mutò, da elemento fondamentale a parte di un sistema integrato e flessibile composto anche da forze mobili con capacità controcarro, in un binomio che superasse le intrinseche debolezze di una linea difensiva puramente statica. La parabola discendente delle opere fortificate si concluse dal 1984 al 1991 con i nuovi studi dello Stato Maggiore, che prima misero in discussione il sistema iniziando a ridurre i fondi e infine ne decretarono la dismissione subito dopo la caduta dell’Urss.

Per quanto riguarda la parte tecnica delle opere, nel settore montano furono usate in gran parte quelle del Vallo Alpino, rese idonee con sistemi di filtraggio e porte stagne alla minaccia NBC. Un totale di 200 siti formarono 30 sbarramenti, generalmente costituiti da postazioni in caverna o in casamatta e articolate su più livelli con posti di osservazione, artiglieria e mitragliatrici.

In pianura il sistema fu costruito con uno schema che prevedeva una gran numero di opere disseminate nei punti strategicamente più importanti mentre ognuna di esse era composta da un numero variabile di postazioni. Vi era generalmente un posto di comando/osservazione (PCO) costituito da un bunker in calcestruzzo e torretta corazzata, con porte stagne gruppo elettrogeno e servizi igienici. Intorno a questo erano posizionate due tipi di postazioni, il tipo M e il tipo P. Il primo era in cemento ma con cupola corazzata con feritoie e armata di mitragliatrice. Il tipo P era a sua volta composto da tre sistemi differenti. L’SF, con pezzo di artiglieria, installato all’interno di un bunker. Il tipo Enucleato, composto da una torretta di carro Sherman, poi Pershing, posizionata su un bunker sotterraneo di cemento (tipo Pantherturm), dove la rotazione della torretta era assicurata da un gruppo elettrogeno. Il terzo tipo era composto da un carro dei tipi citati affogato in vasca di cemento.

Tutte le opere erano dotate di porte stagne e di un sistema di filtraggio dell’aria, manuale o elettrico collegato a delle maschere individuali.
Erano previste postazioni campali per l’uso di mortai leggeri e armi anticarro spalleggiabili, l’attivazione di campi minati intorno alle postazioni oltre a un posto di comando esterno (PCE) formato da 4 tende con posto di medicazione, commissariato, cucina da campo, e munizioni, con relativo personale addetto8. Le opere erano generalmente mascherate con finti covoni di fieno, finte baracche Anas, finte pareti di roccia o cumuli di pietrisco. Le varie postazioni non erano collegate tra loro tranne in rari casi.

 



Tavola 3. Le forze contrapposte nel Sud Europa

https://www.nato.int/cps/fr/natohq/declassified_138256.htm 18.3.21

La V Parte sarà pubblicata in data 20 febbraio 2022 su questo blog.

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