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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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lunedì 27 ottobre 2014

Il peso di una politica di ritorzione

Crisi ucraina
Chi paga i costi delle sanzioni alla Russia?
Francesco Giumelli
20/10/2014
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Le sanzioni imposte dall’Unione europea (Ue) alla Russia segnano il punto più basso dei rapporti dai tempi della Guerra fredda. Esiste un dibattito sui costi che queste sanzioni stanno causando all’economia russa, ma si è prestata meno attenzione ai costi che tale decisione ha comportato per i paesi europei.

Al netto delle valutazioni politiche sull’opportunità delle sanzioni è interessante analizzare alcuni dati per capire quali sono gli stati membri dell’Ue più colpiti dalle sanzioni.

Interdipendenza economica tra Ue e Russia 
L’interdipendenza tra le economie europee e russe è molto alta. La Russia è il terzo partner commerciale per l’Ue, mentre l’Unione è il primo per Mosca. Il totale degli scambi commerciali di Russia e Ue ha superato di poco i 326 miliardi di euro nel 2013, un valore comparabile al prodotto interno lordo di Austria o Danimarca.

L’Ue ha importato beni e servizi per un valore di circa 206 miliardi di euro, dei quali circa 160 riguardano le importazioni di energia (petrolio e gas). Gli investimenti stranieri diretti sono anche un ottimo indicatore per valutare l’interdipendenza fra Ue e Russia.

Nel 2012, circa il 75% di tutti questi investimenti della Russia provenivano dai paesi dell’Ue, mentre Mosca ha investito in Europa circa 8 miliardi solo nel 2013.

I costi per i paesi europei
Si parla di molto dei paesi Ue che accusano il colpo delle sanzioni sulla Russia. Il carico non è distribuito equamente fra i paesi membri dell’Unione. Innanzitutto è probabile che i paesi più sensibili siano quelli che hanno più da perdere, quindi quelli con il volume degli scambi commerciali più alto, come la Germania (75 miliardi nel 2013), l’Olanda (37 miliardi), l’Italia (30 miliardi) e la Polonia (26 miliardi).

I paesi che esportano maggiormente verso la Russia sono stati penalizzati da due fattori. Il primo è il divieto di vendere beni “dual use” e le tecnologie utili per l’esplorazione di nuovi giacimenti di petrolio e gas, quindi i fornitori europei di questi prodotti subiranno delle perdite.

Il secondo è il deprezzamento del rublo che in pochi mesi è calato del 20%, provocato dalla fuga di capitali dalla Russia e abbattendo quindi il potere d’acquisto reale dei cittadini russi che, di conseguenza, compreranno di meno.

Questi due fattori colpiscono in primis paesi come Germania, Italia e Francia, che esportano rispettivamente 36, 11 ed 8 miliardi di euro all’anno, ma anche altri stati sono particolarmente esposti come l’Austria, la Polonia, la Lituania e la Repubblica Ceca.

In questa guerra delle sanzioni, Mosca ha deciso di vietare le importazioni di prodotti alimentari europei creando danni economici importanti. L’Ue esporta circa il 10% della produzione alimentare verso la Russia, equivalente a circa 11 miliardi all’anno.

Le restrizioni russe non riguardano bevande e alcolici, quindi il volume di affari si riduce ulteriormente a circa 5 miliardi. Di questi, un miliardo riguarda solo la Lituania, mentre gli altri paesi maggiormente interessati sono Polonia, Finlandia, Grecia e Spagna.

La Commissione europea ha adottato alcune misure tampone che dovrebbero sostenere i produttori di quei paesi più colpiti.

Ue, conseguenze positive delle sanzioni sulla Russia
La crisi con la Russia ha anche alcune conseguenze positive per le economie europee. Fra tutte, il calo del prezzo del petrolio, attribuito anche, ma non solo, ai rapporti tesi fra Occidente e Russia che favorisce i paesi importatori di greggio: Olanda (25 miliardi nel 2013), Germania (24 miliardi), Italia (17 miliardi) e Polonia (14miliardi).

Un’altra conseguenza positiva è la nuova liquidità creata dall’afflusso di capitali verso banche europee.

L’altro lato della medaglia del deprezzamento del rublo è il rientro di capitali verso banche europee che hanno approfittato di un’iniezione fresca di liquidità.

Si conosce poco della destinazione di queste risorse, ma la Banca Centrale russa ha registrato un aumento del 2% di depositi esteri rispetto allo scorso dicembre. Sappiamo che parte di questa liquidità si sta trasformando in depositi in dollari, ma è plausibile pensare che ci sia una corsa anche verso l’eurozona.

Sanzioni, vincitori e vinti
Le sanzioni creano vincitori e perdenti, ma mentre si possono trarre conclusioni per singole aziende o scambi settoriali, fare valutazioni complessive a livello nazionale potrebbe essere prematuro.

I paesi più esposti verso la Russia stanno perdendo fette di export, mentre l’afflusso di liquidità dalla Russia beneficia alcuni sistemi finanziari e i grandi importatori di energia traggono importanti vantaggi dal calo del prezzo del greggio.

Tuttavia, i perdenti delle sanzioni si sono fatti sentire, specialmente da quei paesi che hanno più export verso la Russia, come dimostrato dalle dimostrazioni del Veneto, della Camera di Commercio bavarese e del governo della Repubblica Ceca. Queste resistenze sono destinate ad aumentare nei prossimi mesi quando le sanzioni andranno a pieno regime.

Francesco Giumelli è assistant professor presso il Departmento di Relazioni internazionali e organizzazione internazionale dell’Università di Groningen.
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Sanità: l'AIDS non ha insegnato nulla

Pandemie e risposte
Ebola, una tragedia annunciata 
Filippo di Robilant
13/10/2014
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L’esperienza ultradecennale della pandemia dell’Aids ci avrebbe dovuto rendere più vigili rispetto ai virus emergenti. Non è stato così. Ancora oggi, governi e istituzioni sanitarie mondiali preferiscono aspettare di essere travolti dalla valanga di pandemie prima di prendere provvedimenti seri.

Finché si continuerà a considerare le emergenze pandemiche come problema sanitario solamente, e non come questione da affrontare anche dal punto di vista politico-istituzionale e dello sviluppo umano, la nostra risposta rimarrà inadeguata.

Dall’Aids a Ebola
Sono passati più di vent’anni da quando autorevoli membri della comunità scientifica internazionale esortavano i decisori politici a guardare al di là del fenomeno dell’Aids. Ammonivano che da troppo tempo troppe persone violavano troppi ecosistemi.

Avvertivano, per esempio, degli effetti allarmanti della graduale distruzione della biosfera tropicale: la foresta pluviale, essendo il serbatoio del pianeta più capiente di specie vegetale ed animale, lo è anche di varietà di virus.

E quando un ecosistema viene degradato, virus sconosciuti sono sfrattati dai loro ambienti naturali e sottoposti a una pressione selettiva estrema: alcuni reagiscono scomparendo, altri mutando rapidamente e cambiando habitat.

Gli scienziati si domandavano se il virus dell’Hiv fosse solo un caso emblematico e non il culmine di un disastro che invece avrebbe potuto prendere il nome di altri virus letali come Ebola, Dengue, Marburg, Junin, Lassa, Machupo, Guanarito, O’nyong’nyong.

Virus che ignorano le frontiere 
Non c’è dubbio che i programmi nazionali contro l’Aids degli inizi degli anni ’90 erano troppo rigidamente concepiti come programmi governativi anziché come frutto degli sforzi congiunti degli organi esecutivi, dei centri di ricerca, delle associazioni e del settore privato.

La sfida posta alla comunità internazionale richiedeva invece una cooperazione coordinata, sostenibile, transnazionale e complementare. Altrimenti detto, il fatto che il virus ignorasse le frontiere rendeva essenziale stabilire una politica comune tra gli stati.

Invece, la visione “globale” della pandemia, paradossalmente, anziché allargarsi, si è ristretta: i paesi donatori hanno dimostrato una crescente predilezione a lavorare indipendentemente e su base bilaterale con i paesi del Terzo mondo, con il risultato che Unaids, l’agenzia Onu che dal 1996 concentra su di sé le attività anti-Aids, non ha sviluppato la necessaria credibilità per assegnare ruoli e creare meccanismi di coordinamento.

L’esperienza accumulata in questi anni dall’agenzia dovrebbe tuttavia essere messa al servizio dell’emergenza Ebola; anzi, c’è da chiedersi se l’urgenza non imponga di estendere il suo mandato a tutti i virus letali. Questa nuova emergenza è infatti un’occasione per creare uno strumento transnazionale permanente, con poteri vincolanti, in grado di garantire l’attuazione di regole comuni in caso d’insorgenza di qualsiasi pandemia.

Con la deflagrazione della bomba Ebola - che il Presidente statunitense Barack Obama ha definito una minaccia alla sicurezza globale - interesse collettivo è quindi evitare gli errori compiuti nel passato all’interno del dispositivo predisposto dall’Onu: disarmonia tra politiche accettate a livello globale e azione a livello nazionale, indicazioni tecniche contraddittorie, diverse interpretazioni dei mandati e delle aree di competenza delle varie organizzazioni, insufficiente coordinamento degli input dati ai singoli paesi, risposte lente all’evoluzione della pandemia.

In Europa, per esempio, non esiste l’equivalente del Centers for Disease Control and Prevention statunitense (Cdc): il European Center for Disease Prevention and Control (Ecdc), creato sull’onda dell’epidemia Sars nel 2004 e di base in Svezia, svolge un ruolo di coordinamento degli esperti sanitari nazionali, ma non ha una sua unità che risponde alle urgenze.

Un Mission for Ebola Emergency Response 
L’istituzione, il 19 settembre scorso, della Un Mission for Ebola Emergency Response (Unmeer), ad Accra, e la nomina di un Inviato speciale delle Nazioni Unite per la lotta al virus, vanno quindi nella buona direzione. Per la prima volta nella sua storia l’Onu crea una Missione per un’emergenza di salute pubblica. Vedremo se seguirà anche un flusso di fondi tale da garantire continuità al suo operato.

Anche la Emergency Response Unit dell’Unione europea, che abitualmente monitora conflitti armati e disastri naturali, ora segue l’andamento dell’epidemia 24 ore su 24. Tutto questo rischia però di non essere sufficiente se gli sforzi non saranno moltiplicati.

Ieri come oggi dobbiamo prendere atto che: a) le risposte alle emergenze vengono effettuate sostanzialmente su basi ad hoc; b) non esiste una procedura ufficiale per determinare quali organizzazioni a livello internazionale devono assumere la responsabilità amministrativa, tecnica e finanziaria, per non parlare di responsabilità politica, e con quale catena di comando; c) manca una valida rete di comunicazione per garantire una risposta operativa efficace e tempestiva da parte di autorità nazionali.

E poi: esistono strategie per scoprire e prevenire epidemie dovute a nuovi virus o alla riapparizione di vecchi? Siamo in grado di inventare efficaci contromisure per circoscrivere epidemie prima che facciano il “salto di qualità” e diventino fenomeno globale? Un quadro giuridico-istituzionale da attuare su scala globale può essere previsto per i virus, che per definizione non conoscono né limiti di tempo né di spazio?

In questi venti anni si è dormito il sonno dei giusti. Si è lavorato più alla “conservazione delle catastrofi” che alla loro prevenzione. Occorre invece lavorare alla riduzione del rischio, introducendo regole comuni anche per aggirare gli effetti frenanti delle tradizioni religiose e culturali che portano i virus a essere accettati come tragica fatalità.

Infine, un appello alle case farmaceutiche: evitiamo milioni di morti come è stato per l’Aids solo perché chi poteva non aveva interesse e chi non poteva non aveva scelta.

Filippo di Robilant è membro del Comitato Direttivo dello IAI.
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lunedì 20 ottobre 2014

Europa: non ripartono i consumi

Banca centrale europea 
Rivitalizzare il credito, missione impossibile per la Bce?
Alessandro Giovannini
02/10/2014
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Il portafoglio di misure non convenzionali che la Banca centrale europea (Bce) ha messo in campo in questi anni di crisi si è ampliato durante l’estate. A giugno, la Bce ha offerto alle banche mirate operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Tltro).

A settembre ha annunciato la sua intenzione di acquistare grandi (ancora non specificate) quantità di titoli garantiti emessi dal settore privato (Abs e Covered bond).

L’obiettivo di queste operazioni è quello di migliorare le condizioni di finanziamento per gli investimenti, in particolare per le piccole e medie imprese (Pmi) e riattivare così il credito nella zona euro.

Tltro, un inizio deludente
Il Tltro è stato esplicitamente disegnato per aumentare il flusso di finanziamenti al settore privato provenienti dal settore bancario. Nell'ambito di questo strumento, infatti, le banche della zona euro zona sono state autorizzate nelle prime due operazioni Tltro del 2014 a richiedere un finanziamento pari a 7% dell'importo dei loro prestiti al settore privato non finanziario, esclusi i crediti verso famiglie, così come risultava dai bilanci delle banche al 30 aprile 2014.

La potenziale fornitura di liquidità alle banche era stata stimata attorno ai 400 miliardi di euro per le prime due operazione. Tuttavia, dopo la prima operazione del 18 settembre, la Bce ha annunciato di aver assegnato solamente 82 miliardi di euro, una cifra molto al di sotto delle attese, il che ha generato molti dubbi sull’effettiva efficacia di questo strumento.

Nella progettazione del programma Tltro, la Bce ha osservato la recente esperienza della Banca d’Inghilterra e al programma “Funding for Lending” lanciato nel luglio 2012 con l'obiettivo di spingere le banche ad aumentare i prestiti alle imprese grazie e crediti ottenuti dalla Banca centrale che finanziava un importo pari al 5% del totale dei crediti verso il settore non finanziario.

Anche in questo caso il risultato è stato al di sotto delle attese: le banche non hanno fatto pieno uso del programma e il take-up è stato alquanto limitato.

Per comprendere davvero quale possa essere il risultato del Tltro e il suo effetto sul credito dell’area euro, questo “fiasco” deve essere analizzato più in dettaglio.

Restringimento degli standard creditizi
Il Tlro è espressamente progettato per affrontare la questione dei prestiti insufficienti nell’euro zona, aggredendo il problema dal lato dell’offerta di credito, cioè riducendo i costi di finanziamento delle banche.

Questo dovrebbe innescare così un circolo virtuoso di maggior credito a disposizione per l'economia. Si è spesso sostenuto, soprattutto in Italia, che il problema principale che sta inibendo una ripresa nella periferia dell'area euro è che le banche non stanno elargendo credito, soprattutto per le Pmi.

Questo soprattutto perché nei paesi periferici della zona euro i costi di rifinanziamento delle banche sono stati troppo alti e perché il loro capitale era troppo basso. Tuttavia, entrambi gli argomenti non sono più validi, dal momento che negli ultimi mesi la dispersione nei costi di rifinanziamento tra centro e periferia si è ridotta e il capitale delle banche si è notevolmente rafforzato.

Questa visione è confermata anche dai dati di un'inchiesta condotta dalla Bce tra le banche dell’eurozona, il Bank Lending Survey. La figura sottostante mostra come sia in Italia sia in Spagna, per la prima volta dal secondo trimestre del 2007, le banche nel secondo trimestre del 2014 hanno registrato un allentamento netto dei criteri di concessione dei prestiti alle imprese.

Dall’analisi emerge come i principali fattori che influenzano la poca elargizione del credito non sono il costo di finanziamento per le banche o i loro vincoli di bilancio (che erano stati molto rilevanti nel 2011-2012), ma la percezione del rischio delle banche in termini di previsione dell’evoluzione della situazione delle imprese e il rischio di incertezza macroeconomica del paese.

Principali fattori che contribuiscono al restringimento/allentamento degli standard creditizi, in Spagna (sx) e in Italia (dx)
Lezioni per la politica monetaria 
Affrontare il problema della mancanza di credito nell’euro zona attraverso operazioni che puntino a migliorare le condizioni di finanziamento delle banche potrebbe non portare agli obiettivi sperati. Il prestito è infatti in calo nonostante i vincoli di approvvigionamento dal lato delle banche stiano scomparendo. Il problema presente è quindi la domanda di credito che è molto debole.

Una questione aggravata anche dal fatto che in tempi di cambiamenti strutturali come quello attuale, il problema di asimmetria informativa tra le banche e debitori diventa più acuto, portando banche a diffidare delle richieste di credito, data la difficoltà a giudicare sotto condizioni in evoluzione. Un problema che non può essere superato facilmente dalla politica monetaria, ma che potrebbe essere ridotto se altri strumenti di finanziamento diventassero maggiormente importanti nel finanziamento delle Pmi.

Per una più approfondita analisi della questione, si rimanda al rapporto di Daniel Gros, Cinzia Alcidi e Alessandro Giovannini commissionato dalla Commissione per i Problemi economici e monetari del Parlamento europeo.

Alessandro Giovannini è Associate Researcher al Centre for European Policy Studies.
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mercoledì 15 ottobre 2014

Dai BRICS ai MINT: Messico Indonesia Nigeria Turchia

 Pietro Stilo e Domenica Alessia Trunfio Geoeconomia 0 commentI
Dai BRIC ai MINT
Terence James O’Neil, noto ai più come Jim O’Neil, è un’economista britannico passato alla storia per aver coniato nel 2001 l’acronimo BRIC, con la relativa teoria. Ha iniziato la sua carriera di economista presso Bank of America nel 1982 occupandosi di finanza, successivamente ha lavorato per Goldman Sachs, dove nel 2010 è arrivato a ricoprire la posizione di presidente della divisione di Goldman Sachs Asset Management. L’acronimo BRIC, scisso in ogni sua parte, svela quelle che sono le quattro economie emergenti di inizio secolo, ossia Brasile, Russia, India e Cina, alle quali successivamente si aggiunge la “S” del Sudafrica, voluto nel “club” dalla Cina soprattutto per motivi geopolitici e geo-strategici, e non per la sua condizione economica che tra l’altro non è assimilabile alle performance degli altri membri del club.  E’ curioso notare come l’acronimo BRIC abbia una vaga assonanza con la parola inglese brick che significa mattone e di conseguenza potremmo immaginare questi paesi come dei veri e propri mattoni per la costruzione di nuovo impianto economico mondiale, ma qui rischiamo di sfociare nel campo delle supposizioni.
Perché O’Neil associa questi paesi in un gruppo omogeneo, i quali poi, come è ben noto, faranno gruppo tra loro per poter meglio affacciarsi sulla scena economica (e non solo economica) globale? Perché secondo O’Neil tutte queste economie condividono una situazione economica simile: sono economie in sviluppo, hanno una popolazione in rapida crescita con sacche di scolarizzazione e specializzazione in alcuni settori tecno-scientifici ragguardevoli, dei territori vasti con la presenza di abbondanti risorse naturali strategiche per l’industria. Tutti elementi che hanno contribuito a far impennare il valore dei loro Pil e la loro quota di commercio internazionale, aumentando di conseguenza il Pil mondiale che si è spostato sempre più verso di loro, tant’è vero che oggi rappresentano circa il 20% del Pil globale con un trend che, almeno stando alle stime, li rafforzerà sempre più. Ovviamente vanno fatti i dovuti distinguo paese per paese, ma andiamo per ordine.
Secondo la teoria messa a punto dell’economista britannico, questi paesi dovrebbero dominare l’economia mondiale nei prossimi anni. Le economie emergenti sono cresciute così rapidamente da riuscire a portare i livelli dei loro Pil al pari dei paesi del G6. Sta di fatto che dal 2000 tutti questi paesi hanno accresciuto il loro reddito pro-capite e di conseguenza il loro potere d’acquisto (soprattutto delle classi medie) del 99% contro il 35% dei sei maggiori paesi industrializzati. Leggendo i rapporti della Goldman Sachs, i paesi del BRICS (Cina e India in particolare), riusciranno a superare il Pil nominale dei paesi del G6 (Usa, Giappone, Francia, Regno Unito, Germania, Italia), riconsegnando così al continente asiatico il primato economico perso nel XIX secolo.  I BRICS, a differenza dei paesi di vecchia industrializzazione, si caratterizzano per avere un debito pubblico più basso e riserve internazionali molto elevate. La crisi dei debiti sovrani in Europa ne è la conferma più lampante. Ma la vera grande ricchezza di queste economie in ascesa è sicuramente la popolazione. Questi stati infatti rappresentano il 42% della popolazione mondiale complessiva, che com’è noto in una economia inserita nel sistema capitalistico è la principale determinante della domanda.
Se fino allo scorso anno, la situazione era quella che abbiamo appena delineato, adesso è venuto il momento di rivedere e aggiornare la classificazione dei paesi emergenti, con l’innesto di nuove realtà che si affacciano nel contesto economico globale con forza e determinazione, a tal punto da far concorrenza (almeno in alcuni settori) ai BRICS. Infatti guardando gli indicatori economici fondamentali di altri paesi, possiamo notare come altre economie stanno crescendo rapidamente negli ultimi anni, e secondo le stime più accreditate continueranno a farlo ancora per molto tempo.
I fattori che hanno determinato il successo e l’ascesa di questi paesi a nuovi colossi dell’economia mondiale sono molteplici; fra questi troviamo la disponibilità di materie prime, tra cui petrolio, gas naturale, metalli preziosi e il basso costo della manodopera che aumenta la competitività con le economie emergenti classiche e di conseguenza la capacità di attrazione di investimenti esteri, soprattutto di IDE (Investimenti Diretti Esteri), portatori (almeno in teoria) di competitività, know how e posti di lavoro.
Il mondo corre velocemente e di conseguenza cambia con una rapidità mai conosciuta prima, comportando la necessità per tutti i paesi di adeguarsi a tali cambiamenti per potersi agganciare ai potenti motori che trainano l’economia mondiale e non rimanere indietro in questo confronto “senza fine e senza confine”. I BRICS non bastano più allo scopo, o almeno non sono più soli in questo contesto. Ecco dunque che vediamo affacciarsi sulla scena globale i MINT.
Questo infatti è il nuovo acronimo, coniato da Jim O’Neil per definire le nuove economie in rapida crescita, quei paesi che potremmo definire come gli esordienti tra gli emergenti.
Ma chi sono i MINT? O meglio quali paesi fanno parte di questo nuovo club secondo l’economista britannico? L’acronimo MINT sta per Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia.
Possiamo affermare che di MINT si discuteva già nel 2010, quando il presidente dei liberaldemocratici al Parlamento Europeo, Guy Verhofstadt scriveva all’allora presidente del Consiglio dell’Unione Europea Herman Van Rompuy che: “Nel 2050 il G7 sarà composto da Usa, Cina, India, Russia, Brasile, Messico e Indonesia”. Secondo quelle che erano le stime del FMI, il Pil di questi paesi avrebbe superato quello dei paesi avanzati e a quanto pare questa è la tendenza.
Anche se questo nuovo acronimo ha iniziato a circolare nel mondo economico solo in tempi recentissimi, sempre per merito di O’Neil, era già stato messo in giro nel 2011 dal gruppo finanziario Fidelity. Ciò che accomuna tutti questi paesi è soprattutto la loro crescita demografica e il fatto di avere molte opportunità ai loro confini geografici.
Il Messico per esempio, si colloca per Pil dopo la Spagna ma prima dell’Olanda al 14° posto nella scala mondiale; subito dopo ci sono Indonesia e Turchia mentre la Nigeria è al 39° posto. Quello che però stupisce è la previsione che la banca d’affari americana Goldman Sachs fa da qui al 2050, quando Messico e Indonesia (secondo gli analisti a stelle e strisce) saliranno rispettivamente al 9° e 10° posto, ossia più in alto di Regno Unito, Francia e Germania. Il fatto che tutti questi paesi abbiano una popolazione molto numerosa fa sì che gli sia garantita sufficiente manodopera a prezzi bassi fino al 2050. Per quel che riguarda l’aspetto geografico invece, possiamo evidenziare la vicinanza del Messico agli Usa (con i quali insieme al Canada diedero vita ad un accordo economico regionale molto importante, il NAFTA) e all’America Latina (con la quale ci sono legami culturali e linguistici oltre che geografici). Se tutto ciò garantisce al Messico l’accesso a mercati diversi e molto grandi, stessa cosa vale per l’Indonesia nel cuore del Sud-Est asiatico, vicinissima alla Cina, mentre la Turchia da sempre rappresenta un ponte fra Est e Ovest non solo geografico e ideale ma anche economico. Ma vediamo nello specifico le caratteristiche che consentono ad ognuno di questi paesi di entrare di diritto tra le economie emergenti.
Messico: Situato in America Centrale, il Messico confina a Nord con gli Stati Uniti d’America, a Sud con Belize e Guatemala ed è bagnato a Ovest dall’oceano Pacifico e ad Est dall’Atlantico. Come già detto la posizione geografica è una delle caratteristiche importanti dei MINT. Nel caso del Messico, questa gli consente di beneficiare non solo dell’influenza economica degli USA ma anche di poter entrare in contatto con le economie e i mercati dell’America Latina. A proposito della sua presenza nell’economia mondiale, il Messico è inserito dal 1994 nel NAFTA (North American Free Trade Agreement) il trattato di libero scambio commerciale stipulato fra Messico, Canada e Stati Uniti il cui scopo principale è quello di eliminare tutte le barriere tariffarie esistenti (99% per l’esattezza) fra i paesi aderenti e l’apertura del mercato alle società nordamericane. Il Messico è l’unico paese a poter vantare la più grande rete di accordi di libero scambio con le più grandi economie mondiali, oltre che con gli USA. Ha stipulato accordi con UE, Giappone ed EFTA. Negli ultimi anni le esportazioni hanno contribuito significativamente alla crescita del paese, rappresentando nel 2006 il 4% del PIL totale. Al fine di crescere ed arrivare a ricoprire la quattordicesima posizione fra le economie più importanti del mondo, il Messico ha in questi anni modificato e ammodernato il proprio sistema politico ed economico, sviluppando un ambiente liberale caratterizzato dalla combinazione di industria e agricoltura. Le amministrazioni più recenti hanno guardato con interesse ai settori della costruzione di infrastrutture, telecomunicazioni e alla produzione di energia e distribuzione di gas naturale. Il paese centroamericano è anche una delle nazioni più popolose dell’America Centrale e, come sappiamo, anche il requisito demografico influisce e non poco sulla capacità di crescita economica di una nazione. Il Messico conta circa 106 milioni di abitanti e una forza lavoro di 48 milioni di persone, molto giovane e a buon mercato. Sono questi fattori dunque che fanno rientrare questo paese nei MINT. Se guardiamo nel dettaglio i dati percentuali degli indicatori economici, notiamo quanto siano interessanti: Popolazione 109.955,400 Mln abitanti; PIL 893.4 Mld; PIL nominale 1.058.349 $; Pil pro-capite 17.085 $; disoccupazione 5.1%; alta formazione/istruzione 4%; modernizzazione tecnologica 3.7%.
Indonesia : Con una popolazione stimata attorno ai 240 milioni di abitanti, l’Indonesia  rappresenta il più grande paese del Sud-Est asiatico. E’ fortemente integrato con i paesi dell’ASEAN (Association of South-East Asian Nations), un’organizzazione politica, economica e culturale di nazioni del Sud-Est asiatico, della quale fanno parte anche Filippine, Malaysia e Thailandia. L’associazione esiste dal 1967 e ha lo scopo di promuovere la cooperazione e l’assistenza reciproca fra gli stati membri per accelerare il progresso economico e aumentare la stabilità della regione. L’Indonesia è anche membro del G20. Questo paese è stato protagonista negli ultimi anni di una transizione che lo ha visto passare da nazione sull’orlo del baratro fallimentare a sistema economico stabile. Il dato più sorprendente è che l’Indonesia cresce allo stesso ritmo di un altro colosso asiatico, quello cinese. Nel 2011 questo paese, ha mostrato una crescita del suo PIL del +6.4%. Anche i flussi commerciali hanno dimostrato di essere in crescita registrando variazioni positive pari al 36% per le esportazioni e al 32% per le importazioni. L’Indonesia è stata oggetto di IDE, pari a 19.7 mld di $ nel 2011 ossia 6 mld in più rispetto all’anno precedente, diventando così la meta più appetibile del Sud-Est asiatico, seguita da Thailandia e Vietnam. Anche per l’Indonesia, come per il Messico e la Turchia, vale lo stesso discorso della posizione geografica strategica e della popolazione in forte crescita, entrambi elementi utili all’economia di un paese che vuole avere parte da protagonista nell’economia mondiale. A guardare gli indicatori macroeconomici vediamo il PIL pari a 1.137 mld $; il PIL pro-capite 4.568 $.
Nigeria: La Repubblica federale di Nigeria, con una popolazione di 160 milioni di persone, è la realtà economica africana più interessante. Nonostante il dato drammatico del 61,2% della popolazione che vive con meno di 1$ al mese, il Pil nominale di questo paese è stimato in 247 miliardi di $ pari a 190 milioni di €, dato che nel 2012 è cresciuto del 6,48%. Il reddito nominale pro-capite è stato nel 2011 di 1500 $. Grazie a questi dati possiamo ritenere che la Nigeria punti entro il 2020 a rientrare fra le 20 economie più importanti del pianeta, prevedendo una crescita potenziale del Pil fino a 900 miliardi di $ e un reddito pro-capite di 4000 $. Il settore economico più importante è sicuramente quello rappresentato dalla produzione del petrolio, materia che concorre per il 95% ai proventi delle esportazioni, per l’80% al bilancio e per il 40% alla formazione del Pil.
Oltre al petrolio, la Nigeria è l’11° produttore mondiale di gas con 41.323 milioni di metri cubi nel 2011. L’agricoltura contribuisce per 1/3 del Pil. Fra le maggiori produzioni agricole troviamo riso, cacao, arachidi, grano e sorgo. Le industrie nigeriane sono per la maggior parte quelle estrattive di greggio e di gas, di carbone, stagno, columbite.
Ecco in breve i dati macroeconomici che ci indicano come la Nigeria possa essere collocata fra i MINT: Pil nominale (mln €) (2012) 213.290; popolazione (mln) 169; Pil pro-capite ($) nel 2012 1.913; disoccupazione (2012) 29, 3%.
Turchia: L’economia turca viene generalmente definita come un’economia in salute. Questo paese è uno dei pochi vicini all’area Euro-mediterranea che meno ha risentito della crisi globale e più degli altri ha visto negli ultimi tempi tassi di crescita notevoli. I dati diffusi in questi ultimi anni ci mostrano come questa crescita sia confermata da un PIL che è praticamente triplicato. Gli IDE sono cresciuti esponenzialmente e la crescita totale è stata mediamente del 5%; a sua volta il PIL pro-capite è passato dai 3.500$ del 2003 ai 10.000$ del 2012. Dal canto suo, il presidente Recep Tayyip Erdogan (in carica dal 2003) in occasione dell’ultima campagna elettorale ha pubblicizzato un programma che aveva come obiettivo quello di attuare varie riforme entro il 2023, anno in cui la Turchia festeggerà il centenario dalla sua nascita. Si stima che entro questa data la Turchia vedrà crescere il proprio reddito pro-capite fino ad attestarsi attorno ai 25.000 $, le esportazioni raggiungeranno quota 500 miliardi di $ e l’industria darà il via alla produzione di automobili, velivoli e mezzi militari 100% made in Turkey. Tutte queste previsioni trovano in qualche modo conferma grazie ai dati economici attuali che vedono la Turchia come una delle realtà più dinamiche al mondo, grazie anche alla sua collocazione geopolitica che la vede affacciata nell’area del Mar Nero, nel Mediterraneo Orientale, in Medio Oriente e in Asia Centrale. Motore trainante di questa crescita sono, sin dagli anni ’60, le industrie manifatturiere. Dal 2010 i dati mostrano come il PIL turco sia cresciuto rispetto agli anni precedenti del +9%, del +8.5% nel 2011 e così via, e secondo le previsioni del FMI entro il 2017 i dati a nostra disposizione raddoppieranno grazie ad una crescita stimata, nel periodo fra il 2013 e 2017, fra il 3.2% e il 4.6 % annuo.
Nel dettaglio vediamo quali sono gli indicatori economici che confermano quanto affermato: PIL totale +1.3%; PIL pro-capite 11.582$; disoccupazione 10.5%; popolazione 75.8 milioni di abitanti. Tutto ciò in Turchia ha portato ad un crescente interesse da parte degli investitori stranieri, interesse che ben presto si è tradotto in IDE in entrata, che in quattro anni sono cresciuti oltre venti volte. Sicuramente tutto ciò ha consentito che il tenore di vita della popolazione turca, soprattutto quella borghese, aumentasse, mentre diverse invece sono le condizioni di vita dei lavoratori non qualificati, degli operai e dei pubblici impiegati. Al ridotto aumento dei loro stipendi, infatti, fa da contraltare l’aumento del costo della vita nelle città, con un’inflazione dell’8.9% che sicuramente riduce gli effetti di questo miglioramento generale.
Come si può evincere da quanto affermato sin ora, i MINT esprimono grossissime potenzialità, anche se ognuno di essi si trova costretto ad affrontare sfide di non poco conto, soprattutto per quel che riguarda le questioni di sperequazione dei redditi e del capitale umano. Ma con la sua tipica fiducia, O’Neil ritiene che essi possano ripercorrere le orme dei BRICS e riuscire ad agganciare le maggiori economie mondiali nel giro di pochissimi anni.

Pietro Stilo è Dottorando di ricerca in Scienze economiche e metodi quantitativi all'Università di Messina.
Domenica Alessia Trunfio è Dottoressa in Scienze Politiche e delle Relazioni internazionali.