Il Friuli-Venezia Giulia occupa una posizione
geografica e strategica di straordinaria importanza nel contesto dell’Europa
centro-meridionale ed è un fondamentale punto di accesso alla penisola
italiana. La catena alpina, che lo separa a Nord dai paesi del centro Europa,
pone in realtà una barriera tutt’altro che insormontabile grazie a delle cime
non particolarmente elevate e ai numerosi valichi, primo fra tutti quello di
Sella di Camporosso. Da est invece la pianura friulana è facilmente
raggiungibile grazie alla ampia valle del Vipacco, da sempre varco percorribile
da e verso l’aerea danubiana e balcanica. Attraverso questa straordinaria
posizione, che apre all’acceso al Mare Adriatico e alla pianura Padana, centro
nevralgico di tutta la penisola, si sono sviluppati interscambi commerciali,
culturali, politici, etnico-linguistici ma anche movimenti di eserciti in
uscita ed in entrata, come le frequenti invasioni subite hanno dimostrato.
Un breve accenno agli eventi storici,
specificamente quelli militari connessi al territorio della regione, è
doveroso. Partendo dalla dominazione romana, il Friuli fu un’aerea fondamentale
per difendere la penisola dalle incursioni di popolazioni barbariche. Sin dal
II secolo a.C. Roma, ormai padrona del nord-est peninsulare, respinse vari
assalti, come quello dei Gallo-Carni del 186 a.C. Allo stesso tempo il Friuli
fu trampolino di lancio per le campagne delle legioni contro popolazioni
balcaniche come i Giapidi e gli Istri. Cesare poi svernò con le sue legioni
presso Aquileia, città divenuta centro strategico e snodo fondamentale della
rete viaria romana verso nord-est. Nacquero altri centri difensivi e
commerciali come Cividale e Zuglio mentre una linea fortificata lungo le Alpi
Carniche e Giulie fu istituita sotto Marco Aurelio.
Dal III secolo d.C. il territorio regionale
fu la vera porta d’ingresso delle varie ondate barbariche che si succedettero,
culminando con le invasioni dei Visigoti di Alarico nel 410 e poi con gli Unni
di Attila nel 452, che portarono alla definitiva distruzione di Aquileia. A
Goti e Longobardi seguirono Franchi e Ungari fino al periodo patriarcale,
durante il quale furono rafforzate le difese ed i castelli del territorio
friulano. Dal 1420 la Repubblica di Venezia pose fine alle guerre fra feudatari
e rafforzò la difesa dei propri territori edificando la fortezza di Palmanova.
Con il tramonto di Venezia, le campagne Napoleoniche, che attraversarono il
Friuli durante la lotta con l’Austria, portarono alla annessione del Friuli
stesso nel Lombardo-Veneto asburgico.
Le Guerre di Indipendenza prima nel 1848 poi
nel 1866 stabilizzarono la situazione del confine orientale, lasciando in mano
all’Austria Ungheria fino al 1915 le aree di Gorizia e Trieste.
La Prima Guerra Mondiale, che si svolse
esclusivamente nel nord est della penisola, vide il territorio friulano teatro
principale delle operazioni belliche. Il fronte dell’Isonzo e le appendici
carsiche furono scenario delle reiterate offensive italiane che tentarono di
sfondare il fronte austro ungarico. In questa situazione il Friuli fu anche
retrovia e base logistica di uno sforzo bellico mai visto fino ad allora, che
coinvolse centinaia di migliaia di uomini e grandissime quantità di materiali. Tuttavia,
la pianura friulana patì le maggiori sofferenze dopo lo sfondamento avvenuto a
Caporetto nell’ottobre del 1917. Molto è stato scritto sul disastro di
Caporetto, dagli errori di sottovalutazione da parte italiana, alle nuove
tattiche usate dai reparti tedeschi giunti sul fronte italiano per cercare di
risolvere una situazione che per l’Austria-Ungheria si stava ormai
deteriorando. Dopo il ritiro ordinato il 27 ottobre del 1917 alla 2a e alla 3a armata
italiana, il Friuli rimase alla mercé dell’invasore e questo causò danni e
sofferenze indicibili alla popolazione civile rimasta. Il trauma di questa
invasione rimase impresso per decenni nel popolo friulano.
Durante la II G.M. il Friuli fu teatro, a
partire dal settembre 1943, dell’occupazione tedesca e della conseguente
cruenta lotta partigiana che vide protagoniste anche formazioni iugoslave.
Finita la guerra, si sviluppò lungo il
confine un periodo di forte attrito con la Iugoslavia di Tito per le pretese
territoriali di quest’ultimo su Trieste e parte del Friuli. Vi fu, in seguito
alla minaccia di una prova di forza iugoslava, la prima grande mobilitazione
postbellica del nuovo esercito italiano.
I confini settentrionali italiani furono già
al centro della attenzione dei nostri vertici, politici e militari, durante gli
anni più critici della storia europea del ‘900. Si trattò infatti di aumentare
le possibilità di difesa già in parte facilitate dalla catena alpina. Le
minacce non riguardarono solo il settore orientale, ma visto il fermento che
agitò le cancellerie europee principalmente durante la prima parte del secolo,
in maniera estensiva, anche tutto l’arco montano settentrionale.
Per questa ragione nacque la prima vera linea
difensiva statica italiana, chiamata linea Cadorna ed edificata a ridosso del
confine svizzero nel 1915. Lunga 72 Km. fu eretta per timore di un attacco
tedesco attraverso la Svizzera. Costata l’equivalente di 150 milioni di euro, fu
dotata di 88 postazioni per cannoni, di cui 11 in caverna, decine di chilometri
di trinceramenti e centinaia di chilometri di strade1. Venne
dismessa nel 1919 ma alcune sue fortificazioni furono inglobate nella nuova
imponente serie di sbarramenti che presero il nome, nella loro totalità, di
Vallo Alpino del Littorio.
Iniziato nel 1931, questo nuovo ridotto
difensivo fu edificato per volontà di Mussolini al fine di difendere il confine
con la Francia, ma fu poi esteso a tutta la chiostra alpina fino al confine iugoslavo.
Fu un’opera enorme e costosa. Sviluppata su una linea di resistenza principale
con una profondità di 3/400mt. con centri di resistenza in cemento o in
caverna, prevedeva anche una linea antistante per l’osservazione e una serie di
postazioni di artiglieria a tergo della linea principale.
Vi furono tutta una serie di direttive per la
realizzazione di quest’opera titanica comprese quelle per un efficace
mascheramento, mentre il Vallo fu diviso un 28 settori numerati a partire dal
più occidentale. Per dare un’idea della grandiosità dell’opera basti ricordare
che a supporto di essa furono aperti 1978 Km. di strade e furono utilizzati
40.000 operai. I cantieri furono chiusi nell’ottobre 1942. L’opera fu edificata
tra alti e bassi, problemi tecnici di costruzione e dubbi di natura strategica.
Effettivamente non ebbe modo di dimostrare la sua validità, visto che dopo il
settembre 1943 iniziò un’opera di saccheggio da parte dei civili e poi
sporadicamente partigiani e tedeschi la utilizzarono come rifugio o deposito. Fu
parzialmente smantellata dopo la guerra, in ossequio al Trattato di Parigi del
1947, ma solamente ad ovest e unicamente per le opere di difesa attiva, non
quelle riguardanti un uso logistico. Alcune opere, vista la mutata linea di
confine postbellica, passarono sotto la Francia. Ad est invece le opere del
Vallo disposte in montagna ripresero vita, venendo adeguate ed integrate nelle
difese Nato. È interessante ricordare che per il presidio di quest’opera fu
creato nel 1934 un apposito Corpo chiamato Guardia di Frontiera (GaF).
Suddivisa in 28 settori di copertura era composta da 8 comandi con 63.000
uomini, poteva contare su 1000 fortificazioni, 7000 mitragliatrici, 1000
mortai, 2000 pezzi di artiglieria (2). Sciolta dopo la guerra i compiti della
GaF passarono prima ai battaglioni di posizione e poi alla fanteria d’arresto.
Dopo la guerra, con l’entrata dell’Italia
nella Nato, il confine nordorientale italiano assunse nuova importanza e le
opere del vallo furono riadattate e modernizzate adeguandole con protezioni NBC3
e armamenti più recenti. Le opere furono divise in 2 gruppi, quelle di
Tipo A presidiate e pronte e quelle di tipo B non presidiate ma mantenute
efficienti.
Tavola 1. Il
Vallo Alpino.
https://www.associazionenazionalefantiarresto.itopere-e-armiarmindividualiopere.jpg 15.03.202
(continua La II parte sarà pubblicata il 31 gennaio 2022 su questo blog)
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