Friedrich Engels ha identificato lo Stato come un prodotto
della società che si rivela necessario una volta raggiunto un determinato
stadio di sviluppo dato che il suo compito è impedire che gli antagonismi tra
le classi con interessi economici in conflitto distruggano sé stessi facendo
catapultare la società in una sterile lotta. Lo Stato, dunque, è visto dal
filosofo al pari di una potenza apparentemente al di sopra della società e
capace di mantenerla nei limiti dell’ordine attenuando i conflitti interni in
quanto è espressione di un potere che Max Weber, successivamente ad Engels,
definì “legittimo” distinguendolo dal concetto di potenza – Macht.
La differenza risiede nel tipo di relazione sociale
espressione del potere; nel caso del concetto di potenza il soggetto più forte
riesce a far valere le proprie decisioni e la propria volontà in ogni caso
mentre mettendo in atto il potere legittimo, il soggetto debole della relazione
(la società civile) accetta le decisioni del soggetto forte (lo Stato) in
quanto le riconosce come valide e legittime.
Il concetto di Stato si è modificato ed evoluto nel corso
del susseguirsi dei vari periodi storici soprattutto a causa del cambiamento
della natura del potere politico e del generarsi di diverse forme istituzionali
che hanno differenziato notevolmente gli Stati tra loro andando ad incidere in
maniera preponderante non solo sulla struttura sociale della società civile ma
anche su ogni singolo aspetto che caratterizza una nazione, la cultura, la
libertà, le tradizioni, le norme… Sembrerebbe impossibile poter “confrontare”
il valore di uno Stato rispetto ad un altro proprio perché le notevoli differenze
sono facili da rilevare anche solamente partendo dalla constatazione che ogni percorso
storico è a sé stante, che il presente è frutto di tutti gli eventi accaduti in
passato e non esistono due Stati, due nazioni che abbiano affrontato allo
stesso modo l’accadere di determinati fatti.
Un metodo di valutazione che quantifichi la capacità di uno
Stato è stato comunque trovato e consiste nell’utilizzare come strumento di
misura l’attitudine dello Stato oggetto di studio in riferimento alla gestione di
specifici fattori di squilibrio e di shock e alla capacità di trasformazione
dei fattori destabilizzanti in vantaggi. Seguendo questa metodologia, i
parametri che vengono presi in considerazione per valutare la capacità di uno
Stato sono politici ed economici; tra i primi è possibile riscontrare la
sicurezza, la coesione sociale e il governo mentre tra i secondi troviamo la
capacità economica dello Stato e lo sviluppo sociale.
Per quanto riguarda i fattori di squilibrio e i fattori destabilizzanti
occorre discernere tra eventi imprevedibili in cui non rientra la volontà umana
ed eventi che sono generati da situazioni oggettive interne allo Stato o dovute
al succedersi (o al non succedersi) di agenti esterni che l’uomo ha la capacità
di gestire attraverso una politica efficace che metta in campo adeguate
contromisure. In entrambi i casi, il modo in cui lo Stato agirà per impedire
che i fattori di squilibrio aumentino ulteriormente l’instabilità dello
scenario sarà determinante per una veloce risoluzione delle problematiche e
dipenderà da fattori politici, economici e sociali dell’area oggetto di studio
nonché dalla situazione di stabilità/instabilità, sviluppo/arretratezza già
presente all’interno dello Stato.
Un fattore di shock dei giorni nostri che ha inesorabilmente
colpito ogni nazione del mondo è la pandemia del Coronavirus; la diffusione è
stata globale ma le reazioni si sono diversificate nei tempi e nei modi
mostrando le diverse capacità degli Stati nell’affrontare un fattore di
squilibrio che ha provocato profonde crisi in tanti settori e aspetti della
società. Uruguay e Perù sono due nazioni il cui confronto permette di
constatare l’importanza dell’agire dello Stato in relazione alle ripercussioni che
un evento improvviso e devastante come la pandemia può avere sulla società
civile. In generale, il Sud America non ha retto l’urto del Coronavirus a causa
di un sistema sanitario fragile e delle forti disuguaglianze sociali; si
possono contare più di 200 mila vittime la maggior parte delle quali provenienti
dal Brasile, Paese con la percentuale più alta di contagi e morti. In questo
contesto di devastazione, l’Uruguay si è rivelata essere un’eccezione facendo
registrare 2.226 contagi e 49 decessi su una popolazione di circa 3,5 milioni
di abitanti; cifre che sono state difficili da eguagliare anche in nazioni in
cui all’apparenza la situazione generale sembrava essere più solida.
Sulla carta, infatti, il contesto
politico dell’Uruguay si rivelava difficile considerando il fatto che il primo
marzo si è assistito ad un cambio di governo, con il passaggio del potere dal
progressista Frente Amplio – presidente da quindici anni – a Luis Lacalle Pou, esponente
di una coalizione conservatrice. A differenza degli altri Stati della regione
dove scontri e tumulti sembrano essere la prassi in situazioni politiche come
quella di un cambio di governo, l’Uruguay ha affrontato il distacco e
l’inversione di marcia pacificamente consentendo a Luis Lacalle Pou di dedicarsi
completamente alla ricerca della strada da seguire per limitare il più
possibile i danni da pandemia di Coronavirus.
Lacalle Pou ci è riuscito con l’aiuto di una task force composta
da 60 persone tra medici, ricercatori e scienziati e senza dover ricorrere a
misure restrittive della libertà di movimento. Nessun lockdown, dunque, per non
mettere in difficoltà chi aveva l’esigenza di lavorare ma solamente chiusure
delle scuole, degli uffici e delle attività commerciali e una ingente campagna
di sensibilizzazione sulle modalità di prevenzione del contagio e sulla
pericolosità del virus. Il Ministero della Salute, poi, ha predisposto
immediatamente un piano di emergenza con una lista unica tra pubblico e privato
dei posti in terapia intensiva, atto indispensabile in un Paese in cui il 70%
della popolazione ha accesso solamente al servizio pubblico caratterizzato da
un sistema formato da cooperative mutualistiche il cui unico sostentamento sono
le buste paga dei lavoratori.
In più, punto forte della strategia di Luis Lacalle Pou è
stato il massiccio utilizzo dei test, 19 mila per ogni milione di abitanti;
parliamo del doppio rispetto all’Argentina e del 30% in più rispetto al
Brasile. Per ogni positivo riscontrato, venivano testate e messe in isolamento
una media di venti persone riuscendo così ad intervenire efficacemente su ogni
focolaio. Ulteriori controlli venivano eseguiti nei blocchi sanitari posti in
alcuni punti strategici di passaggio tra l’Uruguay e i paesi circostanti.
L’azione di Lacalle Pou nei confronti della pandemia da
Coronavirus è stata rapida e ben elaborata ma poco sarebbe servita senza l’appoggio
della popolazione e la condivisione delle strategie messe in atto dal governo. Il
leader ha fatto appello al senso civico della sua gente, li ha caricati di una
responsabilità individuale senza intimorire e minacciare punizioni. Ha mostrato
l’obiettivo comune, evitare il collasso generale, e il modo per ottenerlo,
semplicemente proteggendo sé stessi e gli altri, dimostrandosi un capo
all'altezza di un popolo che ha alla base della propria cultura aspetti quali
la determinazione, il rispetto, il senso civico e il coraggio probabilmente ereditato
dai ciarrua, tribù presente in Uruguay nel momento dell’insediamento dei
bianchi nel XVI secolo che ha lottato opponendosi con fierezza alla
colonizzazione bianca. Naturalmente la pandemia ha inciso sull’economia del
Paese ed è tutt’oggi richiesta grande attenzione per riuscire a superare il
periodo di crisi ma, in generale, nella regione del Sud America l’Uruguay può
essere considerato l’unico Stato con una capacità tale da contenere lo shock dovuto
al Covid-19.
Considerazioni opposte sono rivolte, invece, al Perù che con
più di 835 mila contagi e oltre 33 mila decessi si posiziona al secondo posto,
dietro al Brasile, nella classifica dei Paesi del Sud America più colpiti dalla
pandemia. Le conseguenze economiche e sociali sono state devastanti, si è
assistito ad un crollo del 17% del Pil (contro il 7% dell’Uruguay), all’inadeguatezza
del sistema sanitario e al 70% della popolazione in difficoltà economiche tanto
da non poter soddisfare i bisogni primari fondamentali. Gli errori messi in
atto dal governo di Martin Vizcarra hanno provocato una profonda crisi della
società nonostante le premesse risultassero essere migliori rispetto
all’Uruguay.
Vizcarra è arrivato al potere nel 2018 dopo che il suo
predecessore, Pedro Pablo Kuczynski, si dimise a causa del coinvolgimento nello
“scandalo Odebrecht”, vicenda che ha portato alla più grande indagine per
corruzione nella storia dell’America Latina e ha causato molti danni economici
in Perù. La posizione di Vizcarra non è mai stata completamente priva di
problematiche e di discussioni, in ogni caso ad inizio pandemia era saldo a
capo del governo e optò già da metà marzo per un lockdown generale che
impedisse il diffondersi dei contagi dato che la curva era costantemente in
fase di crescita.
Con l’esercito a presidiare le strade e la paralisi delle
attività produttive è iniziato un rapido collasso, riflesso anche di una serie
di decisioni non prese che ne avrebbero impedito la veloce escalation. I
decreti di chiusura non comprendevano i mercati rionali, zone in cui milioni di
famiglie quotidianamente si recano data l’assenza in casa di un frigorifero e
la necessità di acquistare prodotti freschi ogni giorno; l’attenzione verso le
misure di distanziamento sociale non è mai stata posta così come non sono stati
diffusi adeguati strumenti di sicurezza per il controllo dei contagi. Il
sussidio di emergenza predisposto da Vizcarra non ha tenuto conto del fatto che
la stragrande maggioranza dei peruviani non è in possesso di un conto corrente e
di conseguenza si sono creati grandi assembramenti fuori dalle agenzie bancarie
tramutati presto in focolai di Covid-19; non sono state previste, poi,
limitazioni negli spostamenti, dimenticanza che ha portato all’esodo da Lima di
dieci milioni di abitanti che essendo rimasti senza lavoro hanno fatto ritorno
al paese di origine viaggiando in bus affollati e lasciando una scia di contagi
lungo il tragitto.
Tra mancanze, inefficienze e disorganizzazioni un altro male
ha indebolito il Paese e peggiorato lo scenario generale; parliamo della corruzione
e dell’accusa di intralcio alla giustizia avanzata al Presidente Vizcarra che
fino ad ora è riuscito a sfuggire all'impeachment promosso dai suoi oppositori
in Parlamento che lo accusano di 'incapacità morale' ma non sono riusciti a
raccogliere voti sufficienti per rovesciarlo.
La corruzione è un fattore destabilizzante che influisce in
maniera preponderante sulla capacità di uno Stato dato che mette a serio
rischio la relazione di fiducia tra società e governo ed impedisce lo sviluppo della
società civile stessa. Tra le motivazioni alla base della corruzione possiamo
citare l’avidità e il desiderio di ricchezza e di potere, la possibilità di un
guadagno facile, un rischio limitato di venire scoperto e una pena esigua nel
momento in cui il reato dovesse essere scoperto. La corruzione rompe le regole
sociali e le norme di uno Stato contrapponendosi al termine “integrità” che
tiene unito il sistema di valori di un individuo.
È possibile legare la corruzione ad una teoria detta Broken Windows Theory (Teoria delle
finestre rotte) elaborata dai criminologi Wilson e Kelling secondo cui la
criminalità (inclusa la corruzione) è l’inevitabile risultato del degrado e del
disordine. L’esempio è quello di una fabbrica o un ufficio con una finestra
rotta. I passanti guardandola arriveranno alla conclusione che nessuno se ne
cura, che nessuno ne ha il controllo. Presto tutte le finestre saranno rotte e
l’edificio sarà occupato da vandali e criminali e i passanti penseranno che non
solo nessuno controlla l’edificio ma anche che nessuno controlla la strada su
cui si affaccia. Solo bande di giovani sbandati e criminali sconsiderati
possono avere qualcosa da fare in una strada non controllata, così sempre più
cittadini abbandoneranno quella strada a coloro che vi agiranno in cerca di
prede.
Si evince, così, che la diffusione del disordine ambientale
contribuisce al disordine sociale, l’ambiente degradato degrada il
comportamento portando alla corruzione e che il degrado ambientale, poi,
influenza la percezione della sicurezza. Rapportando queste considerazioni al
Perù si crea un parallelismo tra il contesto poco stabile intorno al governo e
alla figura leader del Paese, contesto in cui è intrinseco il dubbio della
corruzione, e l’incapacità di affrontare un fattore di shock come il
diffondersi del Covid-19. Ricatti e corruzione nella vita politica stanno
affliggendo il Perù da oltre trent’anni come fantasmi che tornano continuamente
dal passato impedendo quell’evoluzione della società civile e quella creazione
di presupposti economici che getterebbero le basi per una ripartenza del Paese.
La constatazione di un rapporto intrinseco tra degrado
ambientale, disordine sociale e criminalità spiegata con la Broken Windows
Theory trova riferimenti accertati anche in Colombia, Paese che ha visto
crescere esponenzialmente in un rapporto direttamente proporzionale i contagi
da coronavirus e gli atti criminali tanto da definire l’estate appena trascorsa
come “un’estate da incubo”, di violenza e morte. Oltre ai 27 mila (e oltre)
decessi dovuti alla pandemia occorre aggiungere, infatti, circa 50 persone uccise
da vari gruppi armati solamente nel mese di agosto tra cui cinque adolescenti
nella periferia di Cali.
Che fine ha fatto il
processo di pace tra il governo colombiano e le Forze Armate Rivoluzionarie –
FARC - siglato il 24 novembre 2016 a Bogotá? È vero che l’accordo ha trovato il
pieno sostegno della comunità internazionale ma la vera problematica è
l’indifferenza associata alle resistenze riscontrabili nel Paese dovute alla
mancanza di legittimazione politica a livello popolare. Tale disaffezione è il
risultato delle aspre divisioni esistenti tra città e aree rurali, tra zone e
popolazioni integrate e aree e comunità marginalizzate che portano ad ignorare
una tematica importante come quella della pace.
La mancanza della “cultura della pace” priva la società
civile dell’educazione alla libertà, al rispetto dei diritti umani, alla
giustizia, alla solidarietà e alla tolleranza e contemporaneamente alimenta
violenze e conflitti dato che rappresentano l’unico modo di agire di cui si ha
piena conoscenza. Gli uomini, infatti, vengono guidati da schemi nel loro agire
sociale, seguono dei veri e propri copioni che regolano intere sequenze di
comportamenti anche in base al ruolo che ognuno assume all’interno della
società. Una volta riconosciuta la propria posizione nel gruppo e appresi i
comportamenti (di dominazione o remissione a seconda del ruolo in un contesto
di violenza) si mettono in pratica le dinamiche conosciute, apprese e
interiorizzate così come ha dimostrato una ricerca del 1971 di Philip Zimbardo.
Il noto psicologo statunitense per scoprire fino a che punto
gli schemi di ruolo possono determinare il comportamento decise di ricorrere
allo studio della brutalità nelle prigioni ponendola in relazione
all’incontrollabilità dei detenuti, alla violenza di alcune guardie o ai ruoli
istituzionali di guardia e prigioniero. Zimbardo chiamò alcuni studenti
volontari ad assumere i ruoli di guardia carceraria o detenuto in una finta
prigione costruita nel Dipartimento di Psicologia di Stanford. Dopo solo un
giorno di prova, l’immedesimazione arrivò al punto che gli studenti “guardie”
cominciarono a trattare con disprezzo i compagni “prigionieri” assegnando loro
compiti crudeli e degradanti, atteggiamento che portò ad una ribellione da
parte degli studenti “detenuti” che iniziarono ad avere comportamenti violenti o
apatici in cui si disperdevano i confini della realtà e della fantasia. La
conseguenza fu l’interruzione dell’esperimento dopo sei giorni invece delle due
settimane previste inizialmente.
L’assunzione di un ruolo, il contesto conosciuto, i comportamenti
appresi sono determinanti nell’agire sociale e possono essere alla base della
spiegazione per cui, per esempio, la cultura della pace non riesca a prendere
il posto della cultura della violenza in Colombia. Conflitti e lotte sono
aspetti intrinsechi del panorama colombiano che hanno origine nelle antiche
rivendicazioni dei popoli indigeni sul territorio e continuano a spargere
sangue ancora oggi dato che i governi colombiani non hanno mai cercato un punto
di incontro con le varie etnie ma si sono valsi solamente delle repressioni
armate, violente e durissime. In un contesto così destabilizzato, il Covid-19
non ha fatto altro che peggiorare la situazione causando una ulteriore emarginazione
di buona parte della popolazione che va ad aggravare il già precario panorama
politico, economico e sociale