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martedì 17 novembre 2020

Valentina Trogu. Relazioni sociologiche tra Stato e società

 


Friedrich Engels ha identificato lo Stato come un prodotto della società che si rivela necessario una volta raggiunto un determinato stadio di sviluppo dato che il suo compito è impedire che gli antagonismi tra le classi con interessi economici in conflitto distruggano sé stessi facendo catapultare la società in una sterile lotta. Lo Stato, dunque, è visto dal filosofo al pari di una potenza apparentemente al di sopra della società e capace di mantenerla nei limiti dell’ordine attenuando i conflitti interni in quanto è espressione di un potere che Max Weber, successivamente ad Engels, definì “legittimo” distinguendolo dal concetto di potenza – Macht.

La differenza risiede nel tipo di relazione sociale espressione del potere; nel caso del concetto di potenza il soggetto più forte riesce a far valere le proprie decisioni e la propria volontà in ogni caso mentre mettendo in atto il potere legittimo, il soggetto debole della relazione (la società civile) accetta le decisioni del soggetto forte (lo Stato) in quanto le riconosce come valide e legittime.

Il concetto di Stato si è modificato ed evoluto nel corso del susseguirsi dei vari periodi storici soprattutto a causa del cambiamento della natura del potere politico e del generarsi di diverse forme istituzionali che hanno differenziato notevolmente gli Stati tra loro andando ad incidere in maniera preponderante non solo sulla struttura sociale della società civile ma anche su ogni singolo aspetto che caratterizza una nazione, la cultura, la libertà, le tradizioni, le norme… Sembrerebbe impossibile poter “confrontare” il valore di uno Stato rispetto ad un altro proprio perché le notevoli differenze sono facili da rilevare anche solamente partendo dalla constatazione che ogni percorso storico è a sé stante, che il presente è frutto di tutti gli eventi accaduti in passato e non esistono due Stati, due nazioni che abbiano affrontato allo stesso modo l’accadere di determinati fatti.

Un metodo di valutazione che quantifichi la capacità di uno Stato è stato comunque trovato e consiste nell’utilizzare come strumento di misura l’attitudine dello Stato oggetto di studio in riferimento alla gestione di specifici fattori di squilibrio e di shock e alla capacità di trasformazione dei fattori destabilizzanti in vantaggi. Seguendo questa metodologia, i parametri che vengono presi in considerazione per valutare la capacità di uno Stato sono politici ed economici; tra i primi è possibile riscontrare la sicurezza, la coesione sociale e il governo mentre tra i secondi troviamo la capacità economica dello Stato e lo sviluppo sociale.

Per quanto riguarda i fattori di squilibrio e i fattori destabilizzanti occorre discernere tra eventi imprevedibili in cui non rientra la volontà umana ed eventi che sono generati da situazioni oggettive interne allo Stato o dovute al succedersi (o al non succedersi) di agenti esterni che l’uomo ha la capacità di gestire attraverso una politica efficace che metta in campo adeguate contromisure. In entrambi i casi, il modo in cui lo Stato agirà per impedire che i fattori di squilibrio aumentino ulteriormente l’instabilità dello scenario sarà determinante per una veloce risoluzione delle problematiche e dipenderà da fattori politici, economici e sociali dell’area oggetto di studio nonché dalla situazione di stabilità/instabilità, sviluppo/arretratezza già presente all’interno dello Stato.

Un fattore di shock dei giorni nostri che ha inesorabilmente colpito ogni nazione del mondo è la pandemia del Coronavirus; la diffusione è stata globale ma le reazioni si sono diversificate nei tempi e nei modi mostrando le diverse capacità degli Stati nell’affrontare un fattore di squilibrio che ha provocato profonde crisi in tanti settori e aspetti della società. Uruguay e Perù sono due nazioni il cui confronto permette di constatare l’importanza dell’agire dello Stato in relazione alle ripercussioni che un evento improvviso e devastante come la pandemia può avere sulla società civile. In generale, il Sud America non ha retto l’urto del Coronavirus a causa di un sistema sanitario fragile e delle forti disuguaglianze sociali; si possono contare più di 200 mila vittime la maggior parte delle quali provenienti dal Brasile, Paese con la percentuale più alta di contagi e morti. In questo contesto di devastazione, l’Uruguay si è rivelata essere un’eccezione facendo registrare 2.226 contagi e 49 decessi su una popolazione di circa 3,5 milioni di abitanti; cifre che sono state difficili da eguagliare anche in nazioni in cui all’apparenza la situazione generale sembrava essere più solida.

Sulla carta, infatti, il contesto politico dell’Uruguay si rivelava difficile considerando il fatto che il primo marzo si è assistito ad un cambio di governo, con il passaggio del potere dal progressista Frente Amplio – presidente da quindici anni – a Luis Lacalle Pou, esponente di una coalizione conservatrice. A differenza degli altri Stati della regione dove scontri e tumulti sembrano essere la prassi in situazioni politiche come quella di un cambio di governo, l’Uruguay ha affrontato il distacco e l’inversione di marcia pacificamente consentendo a Luis Lacalle Pou di dedicarsi completamente alla ricerca della strada da seguire per limitare il più possibile i danni da pandemia di Coronavirus.

Lacalle Pou ci è riuscito con l’aiuto di una task force composta da 60 persone tra medici, ricercatori e scienziati e senza dover ricorrere a misure restrittive della libertà di movimento. Nessun lockdown, dunque, per non mettere in difficoltà chi aveva l’esigenza di lavorare ma solamente chiusure delle scuole, degli uffici e delle attività commerciali e una ingente campagna di sensibilizzazione sulle modalità di prevenzione del contagio e sulla pericolosità del virus. Il Ministero della Salute, poi, ha predisposto immediatamente un piano di emergenza con una lista unica tra pubblico e privato dei posti in terapia intensiva, atto indispensabile in un Paese in cui il 70% della popolazione ha accesso solamente al servizio pubblico caratterizzato da un sistema formato da cooperative mutualistiche il cui unico sostentamento sono le buste paga dei lavoratori.

In più, punto forte della strategia di Luis Lacalle Pou è stato il massiccio utilizzo dei test, 19 mila per ogni milione di abitanti; parliamo del doppio rispetto all’Argentina e del 30% in più rispetto al Brasile. Per ogni positivo riscontrato, venivano testate e messe in isolamento una media di venti persone riuscendo così ad intervenire efficacemente su ogni focolaio. Ulteriori controlli venivano eseguiti nei blocchi sanitari posti in alcuni punti strategici di passaggio tra l’Uruguay e i paesi circostanti.

L’azione di Lacalle Pou nei confronti della pandemia da Coronavirus è stata rapida e ben elaborata ma poco sarebbe servita senza l’appoggio della popolazione e la condivisione delle strategie messe in atto dal governo. Il leader ha fatto appello al senso civico della sua gente, li ha caricati di una responsabilità individuale senza intimorire e minacciare punizioni. Ha mostrato l’obiettivo comune, evitare il collasso generale, e il modo per ottenerlo, semplicemente proteggendo sé stessi e gli altri, dimostrandosi un capo all'altezza di un popolo che ha alla base della propria cultura aspetti quali la determinazione, il rispetto, il senso civico e il coraggio probabilmente ereditato dai ciarrua, tribù presente in Uruguay nel momento dell’insediamento dei bianchi nel XVI secolo che ha lottato opponendosi con fierezza alla colonizzazione bianca. Naturalmente la pandemia ha inciso sull’economia del Paese ed è tutt’oggi richiesta grande attenzione per riuscire a superare il periodo di crisi ma, in generale, nella regione del Sud America l’Uruguay può essere considerato l’unico Stato con una capacità tale da contenere lo shock dovuto al Covid-19.

Considerazioni opposte sono rivolte, invece, al Perù che con più di 835 mila contagi e oltre 33 mila decessi si posiziona al secondo posto, dietro al Brasile, nella classifica dei Paesi del Sud America più colpiti dalla pandemia. Le conseguenze economiche e sociali sono state devastanti, si è assistito ad un crollo del 17% del Pil (contro il 7% dell’Uruguay), all’inadeguatezza del sistema sanitario e al 70% della popolazione in difficoltà economiche tanto da non poter soddisfare i bisogni primari fondamentali. Gli errori messi in atto dal governo di Martin Vizcarra hanno provocato una profonda crisi della società nonostante le premesse risultassero essere migliori rispetto all’Uruguay.  

Vizcarra è arrivato al potere nel 2018 dopo che il suo predecessore, Pedro Pablo Kuczynski, si dimise a causa del coinvolgimento nello “scandalo Odebrecht”, vicenda che ha portato alla più grande indagine per corruzione nella storia dell’America Latina e ha causato molti danni economici in Perù. La posizione di Vizcarra non è mai stata completamente priva di problematiche e di discussioni, in ogni caso ad inizio pandemia era saldo a capo del governo e optò già da metà marzo per un lockdown generale che impedisse il diffondersi dei contagi dato che la curva era costantemente in fase di crescita.  

Con l’esercito a presidiare le strade e la paralisi delle attività produttive è iniziato un rapido collasso, riflesso anche di una serie di decisioni non prese che ne avrebbero impedito la veloce escalation. I decreti di chiusura non comprendevano i mercati rionali, zone in cui milioni di famiglie quotidianamente si recano data l’assenza in casa di un frigorifero e la necessità di acquistare prodotti freschi ogni giorno; l’attenzione verso le misure di distanziamento sociale non è mai stata posta così come non sono stati diffusi adeguati strumenti di sicurezza per il controllo dei contagi. Il sussidio di emergenza predisposto da Vizcarra non ha tenuto conto del fatto che la stragrande maggioranza dei peruviani non è in possesso di un conto corrente e di conseguenza si sono creati grandi assembramenti fuori dalle agenzie bancarie tramutati presto in focolai di Covid-19; non sono state previste, poi, limitazioni negli spostamenti, dimenticanza che ha portato all’esodo da Lima di dieci milioni di abitanti che essendo rimasti senza lavoro hanno fatto ritorno al paese di origine viaggiando in bus affollati e lasciando una scia di contagi lungo il tragitto.

Tra mancanze, inefficienze e disorganizzazioni un altro male ha indebolito il Paese e peggiorato lo scenario generale; parliamo della corruzione e dell’accusa di intralcio alla giustizia avanzata al Presidente Vizcarra che fino ad ora è riuscito a sfuggire all'impeachment promosso dai suoi oppositori in Parlamento che lo accusano di 'incapacità morale' ma non sono riusciti a raccogliere voti sufficienti per rovesciarlo.

La corruzione è un fattore destabilizzante che influisce in maniera preponderante sulla capacità di uno Stato dato che mette a serio rischio la relazione di fiducia tra società e governo ed impedisce lo sviluppo della società civile stessa. Tra le motivazioni alla base della corruzione possiamo citare l’avidità e il desiderio di ricchezza e di potere, la possibilità di un guadagno facile, un rischio limitato di venire scoperto e una pena esigua nel momento in cui il reato dovesse essere scoperto. La corruzione rompe le regole sociali e le norme di uno Stato contrapponendosi al termine “integrità” che tiene unito il sistema di valori di un individuo.

È possibile legare la corruzione ad una teoria detta Broken Windows Theory (Teoria delle finestre rotte) elaborata dai criminologi Wilson e Kelling secondo cui la criminalità (inclusa la corruzione) è l’inevitabile risultato del degrado e del disordine. L’esempio è quello di una fabbrica o un ufficio con una finestra rotta. I passanti guardandola arriveranno alla conclusione che nessuno se ne cura, che nessuno ne ha il controllo. Presto tutte le finestre saranno rotte e l’edificio sarà occupato da vandali e criminali e i passanti penseranno che non solo nessuno controlla l’edificio ma anche che nessuno controlla la strada su cui si affaccia. Solo bande di giovani sbandati e criminali sconsiderati possono avere qualcosa da fare in una strada non controllata, così sempre più cittadini abbandoneranno quella strada a coloro che vi agiranno in cerca di prede.

Si evince, così, che la diffusione del disordine ambientale contribuisce al disordine sociale, l’ambiente degradato degrada il comportamento portando alla corruzione e che il degrado ambientale, poi, influenza la percezione della sicurezza. Rapportando queste considerazioni al Perù si crea un parallelismo tra il contesto poco stabile intorno al governo e alla figura leader del Paese, contesto in cui è intrinseco il dubbio della corruzione, e l’incapacità di affrontare un fattore di shock come il diffondersi del Covid-19. Ricatti e corruzione nella vita politica stanno affliggendo il Perù da oltre trent’anni come fantasmi che tornano continuamente dal passato impedendo quell’evoluzione della società civile e quella creazione di presupposti economici che getterebbero le basi per una ripartenza del Paese.

La constatazione di un rapporto intrinseco tra degrado ambientale, disordine sociale e criminalità spiegata con la Broken Windows Theory trova riferimenti accertati anche in Colombia, Paese che ha visto crescere esponenzialmente in un rapporto direttamente proporzionale i contagi da coronavirus e gli atti criminali tanto da definire l’estate appena trascorsa come “un’estate da incubo”, di violenza e morte. Oltre ai 27 mila (e oltre) decessi dovuti alla pandemia occorre aggiungere, infatti, circa 50 persone uccise da vari gruppi armati solamente nel mese di agosto tra cui cinque adolescenti nella periferia di Cali.

 Che fine ha fatto il processo di pace tra il governo colombiano e le Forze Armate Rivoluzionarie – FARC - siglato il 24 novembre 2016 a Bogotá? È vero che l’accordo ha trovato il pieno sostegno della comunità internazionale ma la vera problematica è l’indifferenza associata alle resistenze riscontrabili nel Paese dovute alla mancanza di legittimazione politica a livello popolare. Tale disaffezione è il risultato delle aspre divisioni esistenti tra città e aree rurali, tra zone e popolazioni integrate e aree e comunità marginalizzate che portano ad ignorare una tematica importante come quella della pace.

La mancanza della “cultura della pace” priva la società civile dell’educazione alla libertà, al rispetto dei diritti umani, alla giustizia, alla solidarietà e alla tolleranza e contemporaneamente alimenta violenze e conflitti dato che rappresentano l’unico modo di agire di cui si ha piena conoscenza. Gli uomini, infatti, vengono guidati da schemi nel loro agire sociale, seguono dei veri e propri copioni che regolano intere sequenze di comportamenti anche in base al ruolo che ognuno assume all’interno della società. Una volta riconosciuta la propria posizione nel gruppo e appresi i comportamenti (di dominazione o remissione a seconda del ruolo in un contesto di violenza) si mettono in pratica le dinamiche conosciute, apprese e interiorizzate così come ha dimostrato una ricerca del 1971 di Philip Zimbardo.

Il noto psicologo statunitense per scoprire fino a che punto gli schemi di ruolo possono determinare il comportamento decise di ricorrere allo studio della brutalità nelle prigioni ponendola in relazione all’incontrollabilità dei detenuti, alla violenza di alcune guardie o ai ruoli istituzionali di guardia e prigioniero. Zimbardo chiamò alcuni studenti volontari ad assumere i ruoli di guardia carceraria o detenuto in una finta prigione costruita nel Dipartimento di Psicologia di Stanford. Dopo solo un giorno di prova, l’immedesimazione arrivò al punto che gli studenti “guardie” cominciarono a trattare con disprezzo i compagni “prigionieri” assegnando loro compiti crudeli e degradanti, atteggiamento che portò ad una ribellione da parte degli studenti “detenuti” che iniziarono ad avere comportamenti violenti o apatici in cui si disperdevano i confini della realtà e della fantasia. La conseguenza fu l’interruzione dell’esperimento dopo sei giorni invece delle due settimane previste inizialmente.

L’assunzione di un ruolo, il contesto conosciuto, i comportamenti appresi sono determinanti nell’agire sociale e possono essere alla base della spiegazione per cui, per esempio, la cultura della pace non riesca a prendere il posto della cultura della violenza in Colombia. Conflitti e lotte sono aspetti intrinsechi del panorama colombiano che hanno origine nelle antiche rivendicazioni dei popoli indigeni sul territorio e continuano a spargere sangue ancora oggi dato che i governi colombiani non hanno mai cercato un punto di incontro con le varie etnie ma si sono valsi solamente delle repressioni armate, violente e durissime. In un contesto così destabilizzato, il Covid-19 non ha fatto altro che peggiorare la situazione causando una ulteriore emarginazione di buona parte della popolazione che va ad aggravare il già precario panorama politico, economico e sociale 

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