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mercoledì 4 settembre 2019

Migrazione in Italia I Parte


Nota di Fabio Mariano

Negli ultimi anni, la diffusione di fenomeni complessi e di difficile soluzione come il terrorismo e le migrazioni rappresentano per l’Africa e l’Europa una sfida determinante. L’Europa cerca di trovare una formula coerente per fronteggiare le grandi masse di migranti che fuggono dalle guerre e povertà del Sud, con il sogno di raggiungere “un’isola felice” al Nord; speranze o illusioni spesso insinuate da una propaganda sostenuta da organizzazioni criminali e terroristiche.
Per tali ragioni, l’Italia non può restare affacciata al balcone del Mediterraneo, accontentandosi di strumenti di contrasto al fenomeno migratorio poco efficaci (complice la polveriera libica), che tendono a contenere, a mitigare il problema, senza tuttavia allungare le mani per estirparne le radici. Occorre, quindi, che l’Italia, mancando di rassicurazioni concrete dai partner europei che verosimilmente non arriveranno mai, agisca da Sistema Paese, fondando una strategia strutturata, multi dimensionale, interministeriale e inter agenzia, che permetta di combattere il problema all’origine, salvaguardando la sicurezza e gli interessi strategici nazionali. Le iniziative finora messe in campo, alcune anche valide e concrete, spesso appaiono disgiunte e scoordinate, poiché probabilmente manca un piano integrato, che ottimizzi gli sforzi e le risorse.
L’Italia è, dunque, costretta ad un’inevitabile quanto necessaria “presa di coscienza”, che ponga la questione africana nel suo complesso al centro del dibattito politico, non solo perché legata alle vicende dell’immigrazione, quanto piuttosto come opportunità di sistema Paese, in una visione coordinata e prospettica che coinvolga tutti gli asset nazionali.
L’Africa è un Continente in cui si sovrappongono sfide e minacce crescenti, quali la pressione demografica[1], la sicurezza, i flussi migratori (interni ed esterni), la radicalizzazione ed i traffici criminali, in un mosaico di attori statuali, iniziative regionali, potenze globali e centri di influenza, non di rado contrapposti tra loro, ed espressione di interessi confliggenti.
In tale quadro, gli attori non-statuali - cellule paramilitari, tribù, milizie, gruppi jihadisti, clan, apparati criminali, network di trafficanti di esseri umani - hanno assunto influenza crescente, riempiendo il “vacuum” governativo e mortificando qualsiasi forma di pluralismo culturale e confessionale. Nel disordine regionale conseguente hanno ripreso influenza protagonisti internazionali come la Cina e la Federazione Russa. Il Mediterraneo di oggi appare difatti come una realtà multipolare, dove i centri di potere risultano moltiplicati e le agende politiche – a partire da quelle di Doha, Mosca, Pechino e Il Cairo – sono sempre più competitive. Nel suo doppio movimento, quasi inarrestabile, ad “allargarsi” e “dividersi”, il Mediterraneo del XXI secolo ha acquisito una nuova centralità globale, risultando più largo, più frammentato e più interconnesso[2]. Per poter essere analizzato, tutto questo richiede strumenti interpretativi moderni.
Spesso si associa il problema immigrazione e traffici illeciti alle Regioni del Nord Africa, ove il fenomeno si manifesta in tutta la sua complessità e disumanità, portato quotidianamente alla ribalta dai Media di tutto il Mondo. Tuttavia, è certamente banale e fuorviante ridurre lo studio e gli interventi ai soli Stati che si affacciano sul Mediterraneo. Infatti, nell’attuale scenario di riferimento, l’analisi deve necessariamente allargare le proprie “chiavi di lettura” a quelle aree e Regioni ove i fenomeni hanno origine e che, nel medio periodo, rappresentano ulteriori fattori di rischio per la stabilità e il futuro dell’intera area africana: dall’Algeria all’Egitto, con impatto diretto sul Mediterraneo e sull’Italia.  Al riguardo, è necessario inoltre evidenziare che, finora, il problema dei migranti e delle organizzazioni criminali e terroristiche ad esso associate, è stato affrontato di “pancia” e in emergenza, principalmente con attività/operazioni tese a contrastare il fenomeno nel Mediterraneo e a contenerlo sulle coste africane, mentre ben poco è stato fatto per prevenirlo, o, quantomeno, le iniziative sono state sporadiche e non integrate/strutturate.  Osservato da questa prospettiva, il fenomeno prende la forma di un iceberg, con un’ampia area nascosta, oscura; per essere affrontato alla radice, tale problema richiede un approccio sistematico, in grado di combinare azioni in tutti i domini (cognitivo, diplomatico, militare, economico, infrastrutturale, sanitario, ecc..), integrando le operazioni di contrasto, contenimento e controllo, con quelle, certamente più complesse ma  assolutamente necessarie, riguardanti la prevenzione.
A tal proposito, possibili soluzioni/strategie, ci vengono ispirate proprio da uno degli attori più pericolosi e influenti degli ultimi anni: il sedicente Stato Islamico.  Nella sua lotta contro l’Occidente, l’ISIS ovvero Daesh ha sfruttato gli odi radicati, prediligendo un linguaggio mirato a provocare tensioni locali e internazionali, mettendo in discussione il sistema di valori e gli ideali occidentali attraverso gli strumenti mediatici tipici della cultura contemporanea.  Lo Stato islamico si è dimostrato particolarmente abile nell’utilizzo di social media per realizzare una efficiente rete per il reclutamento, la raccolta dei fondi e il marketing ideologico. Le sue campagne di propaganda hanno mostrato in tempo reale immagini di militanti vittoriosi che sollevavano bandiere nere e pattugliavano le città conquistate, mostrando nemici impauriti, soggiogati e umiliati; hanno utilizzato film di propaganda, realizzati con tecniche cinematografiche all’avanguardia, per ostentare determinazione ed enfatizzare l’aspetto eroico dei propri combattenti. Tuttavia, l’ascesa della propaganda di Daesh è anche frutto dell’inadeguatezza delle misure a protezione del communication space, a cominciare dal concetto di counter- narrative. Comunicare “contro” serve a poco e spesso aumenta legittimità e forza della controparte. Il communication space va, quindi, presidiato e protetto con programmi di monitoraggio, prevenzione e intervento. Non farlo significherebbe lasciare dei vuoti che altre organizzazioni riempiranno, appropriandosene, proiettando la propria ideologia in maniera spregiudicata e mettendo a rischio la sicurezza collettiva. Non agire equivale alla scelta consapevole di trasformarlo in terreno di coltura dell’estremismo.


[1] I dati dell’immagine sono tratti da fonti UN; tutte le figure senza fonte sono assemblate/realizzate dallo scrivente.
[2] Il raddoppio del canale di Suez, gli effetti dell’allargamento di quello di Panama, le scoperte energetiche nelle sue acque orientali e il progetto di nuova “via della seta” varato da Pechino, rendono il Mediterraneo uno snodo cruciale sul piano infrastrutturale, dei trasporti e delle reti logistiche. Un sistema economico in espansione, dove passa il 30% del commercio mondiale di petrolio e dove si concentra il 20% del traffico marittimo. Un mercato di 500 milioni di consumatori il cui PIL negli ultimi venti anni è cresciuto ad una media del 4,4% l’anno, che può contare su 450 tra porti e terminal, su 400 siti patrimonio dell’UNESCO, 236 aree marine protette e su un terzo del turismo mondiale.

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