Nota di Fabio Mariano
Negli ultimi anni, la diffusione di
fenomeni complessi e di difficile soluzione come il terrorismo e le migrazioni
rappresentano per l’Africa e l’Europa una sfida determinante. L’Europa cerca di
trovare una formula coerente per fronteggiare le grandi masse di migranti che
fuggono dalle guerre e povertà del Sud, con il sogno di raggiungere “un’isola
felice” al Nord; speranze o illusioni spesso insinuate da una propaganda
sostenuta da organizzazioni criminali e terroristiche.
Per tali ragioni, l’Italia non può restare
affacciata al balcone del Mediterraneo, accontentandosi di strumenti di
contrasto al fenomeno migratorio poco efficaci (complice la polveriera libica),
che tendono a contenere, a mitigare il problema, senza tuttavia allungare le
mani per estirparne le radici. Occorre, quindi, che l’Italia, mancando di
rassicurazioni concrete dai partner europei che verosimilmente non arriveranno
mai, agisca da Sistema Paese, fondando una strategia strutturata, multi
dimensionale, interministeriale e inter agenzia, che permetta di combattere il
problema all’origine, salvaguardando la sicurezza e gli interessi strategici
nazionali. Le iniziative finora messe in campo, alcune anche valide e concrete,
spesso appaiono disgiunte e scoordinate, poiché probabilmente manca un piano
integrato, che ottimizzi gli sforzi e le risorse.
L’Italia è, dunque, costretta ad
un’inevitabile quanto necessaria “presa di coscienza”, che ponga la questione
africana nel suo complesso al centro del dibattito politico, non solo perché
legata alle vicende dell’immigrazione, quanto piuttosto come opportunità di
sistema Paese, in una visione coordinata e prospettica che coinvolga tutti gli asset nazionali.
L’Africa è un Continente in cui si sovrappongono sfide
e minacce crescenti, quali la pressione demografica[1],
la sicurezza, i flussi migratori (interni ed esterni), la radicalizzazione ed i
traffici criminali, in un mosaico di attori statuali, iniziative regionali,
potenze globali e centri di influenza, non di
rado contrapposti tra loro, ed espressione di
interessi confliggenti.
In tale quadro, gli attori non-statuali - cellule
paramilitari, tribù, milizie, gruppi jihadisti,
clan, apparati criminali, network di
trafficanti di esseri umani - hanno assunto influenza crescente, riempiendo il
“vacuum” governativo e mortificando
qualsiasi forma di pluralismo culturale e confessionale. Nel disordine
regionale conseguente hanno ripreso influenza protagonisti internazionali come
la Cina e la Federazione Russa. Il Mediterraneo di oggi appare difatti come una
realtà multipolare, dove i centri di potere risultano moltiplicati e le agende
politiche – a partire da quelle di Doha, Mosca, Pechino e Il Cairo – sono
sempre più competitive. Nel suo doppio movimento, quasi inarrestabile, ad
“allargarsi” e “dividersi”, il Mediterraneo del XXI secolo ha acquisito una
nuova centralità globale, risultando più largo, più frammentato e più
interconnesso[2]. Per poter essere analizzato, tutto questo richiede
strumenti interpretativi moderni.
Spesso si associa il problema immigrazione e traffici
illeciti alle Regioni del Nord Africa, ove il fenomeno si manifesta in tutta la
sua complessità e disumanità, portato quotidianamente alla ribalta dai Media di
tutto il Mondo. Tuttavia, è certamente banale e fuorviante ridurre lo studio e
gli interventi ai soli Stati che si affacciano sul Mediterraneo. Infatti, nell’attuale
scenario di riferimento, l’analisi deve necessariamente allargare le proprie
“chiavi di lettura” a quelle aree e Regioni ove i fenomeni hanno origine e che,
nel medio periodo, rappresentano ulteriori fattori di rischio per la stabilità
e il futuro dell’intera area africana: dall’Algeria
all’Egitto, con impatto diretto sul Mediterraneo e sull’Italia. Al riguardo, è necessario inoltre evidenziare
che, finora, il problema dei migranti e delle organizzazioni criminali e
terroristiche ad esso associate, è stato affrontato di “pancia” e in emergenza,
principalmente con attività/operazioni tese a contrastare il fenomeno nel
Mediterraneo e a contenerlo sulle coste africane, mentre ben poco è stato fatto
per prevenirlo, o, quantomeno, le iniziative sono state sporadiche e non
integrate/strutturate. Osservato da
questa prospettiva, il fenomeno prende la forma di un iceberg, con un’ampia area nascosta, oscura; per essere affrontato
alla radice, tale problema richiede un approccio sistematico, in grado di
combinare azioni in tutti i domini (cognitivo, diplomatico, militare,
economico, infrastrutturale, sanitario, ecc..),
integrando le operazioni di contrasto, contenimento e controllo, con quelle,
certamente più complesse ma
assolutamente necessarie, riguardanti la prevenzione.
A tal proposito, possibili soluzioni/strategie, ci vengono
ispirate proprio da uno degli attori più pericolosi e influenti degli ultimi
anni: il sedicente Stato Islamico. Nella sua lotta contro
l’Occidente, l’ISIS ovvero Daesh ha sfruttato gli odi radicati, prediligendo un
linguaggio mirato a provocare tensioni locali e internazionali, mettendo in
discussione il sistema di valori e gli ideali occidentali attraverso gli
strumenti mediatici tipici della cultura contemporanea. Lo Stato islamico si è dimostrato
particolarmente abile nell’utilizzo di social
media per realizzare una efficiente rete per il reclutamento, la raccolta
dei fondi e il marketing ideologico.
Le sue campagne di propaganda hanno mostrato in tempo reale immagini di
militanti vittoriosi che sollevavano bandiere nere e pattugliavano le città
conquistate, mostrando nemici impauriti, soggiogati e umiliati; hanno utilizzato
film di propaganda, realizzati con tecniche cinematografiche all’avanguardia,
per ostentare determinazione ed enfatizzare l’aspetto eroico dei propri
combattenti. Tuttavia, l’ascesa della propaganda di
Daesh è anche frutto dell’inadeguatezza delle misure a protezione del communication space, a cominciare dal
concetto di counter- narrative.
Comunicare “contro” serve a poco e spesso aumenta legittimità e forza della
controparte. Il communication space
va, quindi,
presidiato e protetto con programmi di monitoraggio, prevenzione e intervento.
Non farlo significherebbe lasciare dei vuoti
che altre organizzazioni riempiranno, appropriandosene, proiettando la propria
ideologia in maniera spregiudicata e mettendo a rischio la sicurezza
collettiva. Non agire equivale alla scelta consapevole di trasformarlo in
terreno di coltura dell’estremismo.
[1] I dati dell’immagine
sono tratti da fonti UN; tutte le figure senza fonte sono assemblate/realizzate
dallo scrivente.
[2] Il raddoppio del canale di Suez, gli effetti dell’allargamento di
quello di Panama, le scoperte energetiche nelle sue acque orientali e il
progetto di nuova “via della seta” varato da Pechino, rendono il Mediterraneo
uno snodo cruciale sul piano infrastrutturale, dei trasporti e delle reti
logistiche. Un sistema economico in espansione, dove passa il 30% del commercio
mondiale di petrolio e dove si concentra il 20% del traffico marittimo. Un
mercato di 500 milioni di consumatori il cui PIL negli ultimi venti anni è
cresciuto ad una media del 4,4% l’anno, che può contare su 450 tra porti e
terminal, su 400 siti patrimonio dell’UNESCO, 236 aree marine protette e su un
terzo del turismo mondiale.
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