Fabio Mariano
a.
Cenni
sul terrorismo
Il terrorismo è un
fenomeno complesso e difficile da definire. Quello contemporaneo è una forma di
conflittualità non convenzionale perché da un lato esula dalla contesa
civile-ordinata-democratica, dall’altro è estraneo al campo di battaglia
dominato dalle norme del diritto internazionale di guerra. Esso è caratterizzato
da quattro elementi essenziali, che devono essere tutti presenti: violenza criminale; movente politico; politico religioso o politico
sociale; clandestinità; azioni poste di attori non statali.
Le
fonti della minaccia terroristica sono differenti: tra le aggregazioni più note
ricordiamo quelle di matrice politico-religiosa, prevalentemente radicale
islamica, il cosiddetto “jihadismo”. La causa non è la religione, ma le
degenerazioni interpretative di essa. Al Qaeda può essere definita come un
fenomeno più ristretto del jihadismo. Tale
fenomeno non è debellabile ma soltanto contenibile con misure ordinarie e
straordinarie; ne è riprova l’onerosa e non ancora risolutiva campagna, non
solo militare, di contrasto allo Stato Islamico (ISIS/Daesh), di cui si
approfondirà nei paragrafi successivi.
In sintesi, dopo l’11 settembre 2001 il mondo e
le organizzazioni internazionali, inclusa l’Italia, hanno reagito creando
dedicate organizzazioni e strategie di contrasto al terrorismo che, tuttavia,
continua a costituire un fenomeno di forte pericolosità e di difficile
repressione.
b. Il terrorismo transnazionale
Il modello della guerra tipica dell’età moderna è
costituito da un nemico preciso e identificabile (Stato contro Stato), si
svolge in spazi precisi (i campi di battaglia) e ha una fine (la vittoria o la
sconfitta).
L’attività terroristica transnazionale, invece,
presenta una non-identificabilità, nutrendosi di segretezza e
imprevedibilità (non è ignoto soltanto il terrorista, ma anche il suo
bersaglio) ed una de-territorializzazione, in virtù del fatto che
qualunque area può essere scelta come teatro delle azioni terroristiche.
I nuovi gruppi terroristici transnazionali sono attori
globali in concorrenza a Stati e istituzioni, agiscono come organizzazioni
non governative della violenza[1].
Ad esempio, mentre Greenpeace trae visibilità dalle crisi ambientali e Amnesty
International dalle crisi umanitarie, nei confronti degli Stati, le “ONG terroriste” si pongono
in competizione diretta
sul terreno del monopolio statale della violenza.
c.
Evoluzione
del terrorismo jihadista
Dopo la fine della Guerra Fredda gli analisti avevano
predetto un periodo di stabilità geopolitica da cui trarre dividendi di pace e
lo stesso concetto sembrava potersi applicare anche alla lotta al terrorismo
con l’eliminazione di Osama bin Laden.
Tuttavia, così non è stato ed a seguito del fallimento della strategia di
Guerra Globale al Terrore del Presidente americano Bush (ricordiamo
l’insuccesso in Iraq a partire dal 2003 e la guerra infinita in Afganistan),
oggi assistiamo ad una costante e più pericolosa evoluzione del fenomeno jihadista che ha invece assunto una
connotazione da rete in franchising,
che utilizza un marchio per rivendicare attentati. L’evoluzione del terrorismo jihadista e la minaccia qaedista[2] con i
relativi scenari di riferimento hanno richiesto l’attuazione di strategie di
contrasto al fenomeno, tuttavia, dimostratesi insufficienti con “l’innovazione
del terrore” portata da Daesh.
Le primavere arabe hanno comportato il crollo di
regimi che in qualche modo riuscivano a garantire un contenimento dei gruppi
terroristici, creando così nuovi santuari nell’area mediterranea. Ormai non si
parla più di una struttura verticistica, ma di un vero e proprio terrorismo
spontaneo che genera imprevedibilità e difficoltà per l’intelligence nell’ individuazione di cellule o di singoli individui
che, senza più collegamenti con gruppi strutturati, entrano in azione anche in
assenza di direttive a livello gerarchico. Un altro pericolo è
quello della saldatura nell’area sub-sahariana con fattori di minaccia comuni a
quella magrebina, lungo una fascia che attraversa il continente in senso
longitudinale dal Senegal al Golfo di Guinea ed al Corno d’Africa e che trova
aree di criticità in Nigeria e nelle zone di confine tra Kenya e Somalia. Si
tratta di una vastissima area di instabilità, in cui si stanno creando dei
santuari del terrorismo, zone fuori controllo al cui interno troviamo volontari
di diversa provenienza, anche occidentale, che si sono insediati per
organizzarsi e addestrarsi a condurre azioni terroristiche di ampia portata.
Le
organizzazioni terroristiche hanno mostrato di fare spesso ricorso agli IED,
normalmente ricordati per gli attacchi subiti dalle truppe Occidentali
principalmente in Iraq ed Afganistan, condotti da gruppi di insorgenti
appartenenti a reti, il cui contrasto è divenuto da anni una delle strategie di
punta della NATO. Si tratta della strategia Counter-Improvised
Explosive Device (C-IED) il cui pilastro principale è l’Attack the Network (AtN), ovvero la
combinazione di misure di contrasto, militari e non, alle reti insorgenti che
impiegano IED.
L’impiego degli
ordigni improvvisati quale arma principale per condurre attacchi terroristici,
peraltro, si è consolidata anche in Europa, manifestandosi prepotentemente
negli attentati compiuti mediante l’utilizzo di ordigni esplosivi improvvisati,
fuoco con fucili mitragliatori[3]
e negli ultimi anni, soprattutto con l’impiego di auto e camion lanciati contro
persone inermi (elenco degli attentati in Europa dal 2004 al 2018 in Allegato A).
d. La minaccia ibrida
Sebbene non esista una
definizione universale di “minaccia ibrida”, la NATO[4]
utilizza questo termine per descrivere “avversari
capaci di impiegare contemporaneamente mezzi convenzionali e non-convenzionali
adattandoli alle caratteristiche dei propri obiettivi”.
La nozione di minaccia ibrida è stata molto
controversa da quando è entrata a far parte del lessico della Difesa. Parte
della dottrina la definisce, semplicisticamente, come l’ultimo termine
utilizzato per identificare i metodi irregolari o asimmetrici per combattere
contro una forza convenzionale superiore. Invero, nel corso degli anni, sia insurgents che stati-nazione hanno
impiegato combinazioni molto creative di capacità convenzionali e non per
raggiungere i propri obiettivi.
I critici restano però dell’idea che la
locuzione “minaccia ibrida” sia troppo astratta, correndo il rischio di
utilizzarla come termine generale per descrivere tutte le minacce non lineari e
convenzionali. Tuttavia il termine “ibrido” è stato utilizzato per descrivere
formazioni amiche, come per esempio ha fatto il Comando delle Special Forces USA, per descrivere
strutture e organizzazioni che mettono a sistema l’impiego delle forze speciali
con le forze convenzionali. I sostenitori del concetto di minaccia ibrida
affermano che gli attori che utilizzano questo nuovo tipo di minaccia stiano
creando un nuovo modo di fare la guerra utilizzando le tecnologie del 21°
secolo, i social network, alcuni
degli strumenti propri delle guerre convenzionali e non convenzionali, che però
sono impiegati secondo metodologie che non ricalcano quelle comunemente
utilizzate in guerra. Frank G. Hoffman[5],
uno dei teorici più attivi nello sviluppo di nuovi concetti strategici capaci
di contrastare la “minaccia ibrida”, è stato il primo a proporre un elenco di
quelle che possono essere definite le caratteristiche proprie di questo tipo di
minaccia:
a.
insieme di tattiche di combattimento - la minaccia ibrida
usa un insieme di tattiche convenzionali e non convenzionali unite con attività
criminali e terroristiche;
b.
simultaneità - avversari ibridi utilizzano metodologie
differenti di conflitto simultaneamente ed in maniera coerente e coordinata;
c.
fusione - la minaccia ibrida vede l’impiego
contemporaneo di militari professionisti, terroristi, guerriglieri, e organizzazioni
criminali;
d.
criminalità - la minaccia ibrida usa attività criminali
per sostenere le proprie operazioni e, talvolta, le utilizza palesemente come
metodo di conflitto.
e.
Lo
Stato Islamico: origini, ragioni e modus operandi
La proclamazione dello
Stato Islamico (IS) nel Giugno del 2014 ha segnato una nuova fase delle crisi
che dagli inizi del 2011 hanno coinvolto la gran parte del bacino del
Mediterraneo e del Medio Oriente. Una fase in cui la componente radicale,
estremista e violenta dell’Islam ha trovato un elemento di catalizzazione e
riconoscimento globale.
Sfruttando tecniche militari, strategie
comunicative, tattiche di penetrazione nel tessuto sociale ed economico dei
territori controllati, l’Islamic State si è progressivamente radicato, nella
fase centrale della sua azione (2011-2017), non solo negli Stati che lo hanno
visto nascere come movimento terroristico (Iraq e Siria) ma anche presso aree
ormai sfuggite al controllo imposto dall’Occidente (Libia) o che si stanno
apprestando verso un cammino di indipendenza ed autonomia reso difficile dalle
continue crisi interne (Afghanistan e, con caratteristiche peculiari,
Pakistan).
In questo senso, l’Islamic State si presenta
come una minaccia che, in modo globale ed estremamente efficace, l’Occidente ha
difficoltà a caratterizzare in modo corretto. Tale incapacità di comprensione
si riflette ad oggi in una situazione di “apparente sconfitta” di IS, dal punto
di vista sostanzialmente militare che, tuttavia, rappresenta solo un parziale
rimedio ad un fenomeno che ha avuto dalla sua parte:
‒
il fattore tempo (se si considerano gli effetti devastanti che
la capillare opera di indottrinamento al radicalismo religioso ed odio etnico,
avviata dall’IS in tutti i territori da esso controllati a favore di bambini e
ragazzi, ha avuto e potrebbe ancora avere in altre aree/forme);
‒
l’appoggio, più o meno aperto, di Nazioni vicine alle
aree di crisi che hanno cercato di sfruttare l’azione dell’IS per ottenere
vantaggi di carattere politico e/o economico;
‒
la necessità che alla coalizione occidentale si affianchi,
in modo deciso e chiaro, una coalizione di Stati Islamici moderati superando
millenarie divisioni (nell’ambito Islamico tra sunniti e sciiti) e decennali
inimicizie (USA/Israele ed Iran).
Nell’attuale panorama
internazionale, il fenomeno IS continua a destare preoccupazione per
l’indiretto coinvolgimento dell’Occidente e dell’Europa in un conflitto che si
è avvicinato ai suoi confini meridionali, manifestando azioni estreme in
Europa: la “minaccia IS”, sostenuta dalle sue avanzate tecniche di propaganda, ha
mostrato di essere un efficace elemento di catalizzazione e radicalizzazione anche
per quella fascia di immigrati in Europa, sfruttando il malcontento basato
sulla parzialmente integrazione da parte dei Paesi ospitanti, sebbene a volte
ci siano nati.
Ulteriori
approfondimenti sul fenomeno IS e sulla sua strategia di comunicazione saranno
affrontati nel capitolo 4.
f.
La
radicalizzazione
Lo Stato Islamico si differenzia dal terrorismo
“tradizionale” perché agisce come un’organizzazione capace di produrre alti
profitti e che dispone di un esercito numeroso, composto da uomini addestrati a
combattere in guerra. Un ruolo fondamentale è giocato anche dalla competenza
con cui l’ISIS riesce ad utilizzare i media attraverso la manipolazione e la capacità
dell’organizzazione terroristica di adattarsi ai cambiamenti geo-politici
attuali e alla globalizzazione. La
strategia dello Stato Islamico è condizionata da una forte campagna mediatica
al fine di favorire la formazione di nuovi nuclei jihadisti e volta al
reclutamento. Per quanto riguarda le città colpite da attacchi terroristici,
sono stati preferiti i luoghi simbolo nei paesi antagonisti, mediante azioni
condotte dagli stessi jihadisti membri dell’organizzazione o da singoli
individui (i cosiddetti “lupi solitari”). Il modus operandi con cui i jihadisti realizzano gli attentati si è
ripetuto negli attacchi a Parigi del 2015 e in quelli a Bruxelles del 2016. In
entrambi i casi, infatti, sono stati usati fucili mitragliatori AK-47 (Kalashnikov) e l’esplosivo TATP[6],
con l’aggiunta di chiodi e bulloni. I
protagonisti di questi attentati sono per la maggior parte residenti o
originari dei paesi colpiti dall’attacco, di varia estrazione sociale, attratti
dalla causa per cui l’ISIS combatte e nella quale si identificano. I foreign fighters che provengono
dall’estero sono addestrati alla violenza e a fare propaganda una volta tornati
in patria. La maggior parte dei foreign
fighters ha appreso capacità militari combattendo in Siria, come ad esempio
i fratelli Said e Cherif Kouachi, responsabili della strage nella sede di
Charlie Hebdo a Parigi il 7 gennaio 2015, o anche gli attentatori di Bruxelles
nel marzo del 2016 Ibrahim El Bakraoui e Najim Laachraoui. I luoghi dove avviene solitamente la
radicalizzazione più comuni sono le moschee, come ad esempio la moschea di
Finsbury Park a Londra, frequentata da numerosi terroristi e da uno dei piloti
degli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 e le carceri. Importanti
sono anche i rapporti parentali e d’amicizia che legano i terroristi tra loro e
li portano ad organizzare attacchi multipli e coordinati: ad esempio, Salam
Abdeslam e suo fratello Brahim, autori degli attentati di Parigi del 2015,
erano amici di infanzia dell’ideatore dell’attacco, Abdelhamid Abaaoud. Il Prof. Alessandro Orsini[7]
parla di un vero e proprio modello denominato DRIA, il quale riassume le tappe
che portano un individuo a radicalizzarsi o a entrare in una setta o in un
gruppo specifico. L’acronimo DRIA sta per le prime lettere delle parole
“disintegrazione sociale”, “ricostruzione dell’identità sociale”, “integrazione
in una setta rivoluzionaria” e infine “alienazione dal mondo circostante”. Secondo questo modello, se un individuo cade nella
marginalità sociale e quindi si trova a non riconoscersi più nei valori della
società in cui vive, si trova in una fase di disorientamento e spesso finisce
per abbracciare e seguire un’ideologia radicale nella speranza che restituisca
un significato alla propria esistenza, attraverso una ridefinizione di sé
stesso. L’individuo finisce per cercare altre persone con le sue stesse idee,
entrando in una sorta di setta “rivoluzionaria”, come appunto può essere
considerata la comunità jihadista.
L’ingresso in tale comunità porta l’autoesclusione di chi è entrato a
farne parte dal mondo esterno e a prendere le distanze dalla società in cui
vive, soprattutto dagli usi e i costumi occidentali. Si conclude così il processo che spesso porta
a diventare jihadisti, attraverso l’alienazione dal mondo circostante. Appare
allora molto difficile elaborare un piano generale di contrasto alla
radicalizzazione, dal momento che le strategie di prevenzione e repressione
dovrebbero essere modellate in base alle caratteristiche dei singoli
terroristi. Già nei primi anni Sessanta lo psicologo Everett Hagen[8]
(1962) aveva cercato di analizzare quei meccanismi psichici che in situazioni
di frustrazione collettiva, come per esempio nel caso di minoranze sfavorite o
individui marginalizzati dalla società, possono portare al desiderio di rivolta
e di rinnovamento di se stessi.
Ciclo
della radicalizzazione - fonte: Global Coalition anti-Daesh Strategic Communications Cell di Londra
Un bisogno psichico altrettanto forte è quello individuato
da McClelland[9], ossia
quello del bisogno di affiliazione. Esso è caratterizzato dalla volontà e il
desiderio “di stabilire, mantenere e ricostruire relazioni affettive positive
con altre persone”. Il bisogno di essere
amati e accettati spinge gli individui ad entrare in una certa comunità e
organizzazione, che promette fratellanza, unione e amore ai propri membri,
promessa che l’ISIS non manca di ripetere mediante la propaganda. Il contesto
familiare, economico e sociale e il proprio passato personale condizionano
quindi fortemente i bisogni e i desideri soprattutto dei giovani adolescenti,
ed è proprio un bisogno di accettazione e di sentirsi parte di una comunità che
li spinge ad arruolarsi nelle file dello Stato Islamico o a convertirsi e a sostenerlo,
anche senza necessariamente spostarsi in Siria.
Recentemente si è sviluppato un dibattito sulle strategie di
contenimento del fenomeno dei foreign
fighters. La soluzione più condivisa è stata quella di impossibilitare i
combattenti dello Stato Islamico nel raggiungere i luoghi di guerra, dove
apprendono le capacità militari da usare negli attentati. A chi torna in
Europa, invece, viene offerto un programma di riabilitazione e
de-radicalizzazione per favorirne il reintegro nella società, ma non sempre
questi programmi risultano essere efficaci e sono principalmente caratterizzati
da costi elevati.
[2] La strategia qaedista,
secondo l’ideologo Abu Musab Al Suri,
non risponde direttamente ad al-Qaeda per l’esecuzione di attentati ma è
piuttosto un appello ai musulmani nel mondo per portare avanti la jihad per una
sorta di resistenza islamica contro l’Occidente e gli stati musulmani apostati
(quelli che hanno governi filo-occidentali o che svolgono una politica contro
il terrorismo).
[5] Autore di numerosi testi sull’argomento, tra cui “Future thoughts on Hybrid Wars”, Small Wars
Journal , e “Hybrid warfare and challanges”, Joint Force Qurterly, 2009.
[6] Si tratta di uno
dei cosiddetti “Home Made Explosive –
HME”, il perossido di acetone: è un perossido
organico e un potente esplosivo primario. Il TATP puro è una polvere
cristallina di colore bianco praticamente inodore. È altamente sensibile al calore,
all'attrito
e agli urti.
[7] (1975), professore di Sociologia del terrorismo, è
direttore dell’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale della LUISS di Roma
e del quotidiano online “Sicurezza Internazionale”. È stato membro della
commissione per lo studio della radicalizzazione jihadista istituita dal
governo italiano e dal 2011 è Research
Affiliate al MIT di Boston.
[8] Everett Hagen
(1906-1992), economista statunitense specializzato in antropologia, sociologia e scienze
politiche.
[9] David McClelland (1917-1988), psicologo statunitense noto in particolare per
i suoi studi di motivazione chiamati globalmente Teoria dei bisogni.
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