Donald
Trump ha il merito di rendere esplicita la politica estera di Washington in
atto da anni. Eppure alcune semplici realtà continuano a sfuggire al profluvio
di commenti scatenato da quanto si è svolto “in diretta” alla Casa Bianca,
venerdì 28 febbraio: che, non da oggi, esiste un rapporto di connivenza tra
Washington e Mosca; che, come ogni ostentazione di forza, quella del presidente
Trump segnala una crescente debolezza, anch’essa in atto da decenni; che al
declino dei protagonisti della Guerra Fredda corrisponde la loro ostilità ad
un’Europa politicamente ed economicamente integrata.
Ma
procediamo con ordine. Ha radici profonde la volontà convergente di Biden e
Putin di scatenare ed alimentare la guerra in Ucraina, come anche quella di
Trump e del medesimo Putin di concluderla secondo le proprie convenienze.
L’esistenza di una “minaccia credibile” da parte di Mosca è stata una
condizione essenziale per la politica estera di Washington nel corso di tutta
la Guerra Fredda. Il tentativo di Eisenhower e di Krusciov di negoziare una
pace - nel c.d. spirito di Camp David -
con l’incidente dell’U-2 è stato sabotato da entrambi le parti e, nel
1973, Henry Kissinger è arrivato ad imporre una riscrittura della valutazione
della potenza sovietica da parte della CIA perché insufficiente a giustificare
la politica egemonica nei confronti dei propri alleati. Ha breve durata
l’intesa tra Reagan - anticomunista non strumentale - e Gorbaciov, effettivo
liquidatore dello stato sovietico, con alcune intese di disarmo. Per i loro
successori, la caduta del Muro costituisce un trauma. Quello subito dalla
Russia è ovvio in quanto ha perso il suo impero, ma anche Sparta non ride.
Ovvero Washington che, lungi dal godersi la fine della storia ed un
unipolarismo che non è mai esistito, deve salvaguardare la continuità della
NATO, ormai obsoleta, ma ancora essenziale per continuare ad esercitare il
proprio dominio sugli alleati europei e, più in generale, surrogare la minaccia
non più credibile di Mosca. Giunge provvidenziale l’attacco alle Due Torri e la
conseguente “guerra al terrore” come occasione e giustificazione per
esercitare il proprio potere, ormai prevalentemente militare; cioè tale da
prescindere da quei principi e valori con cui era fondato il proprio rapporto
egemonico nel mondo. Da cui guerre di aggressione vinte, in violazione di
regole e principi sanciti dall’ONU e dal diritto internazionale, e paci
suggellate da sconfitte politiche: Afghanistan, Iraq, Libia e, ora, Ucraina.
Mentre si batte la grancassa riguardo ad ogni vera o presunta incursione
propagandistica di Mosca, regna il silenzio sul controllo dell’Aipac -
strumento di finanziamento politico gestito da un governo straniero, quello
d’Israele - su almeno un terzo del Congresso di Washington, determinando la
politica mediorientale dell’amministrazione Biden, accentuata, ma non
modificata, da Trump la cui ostentazione di forza non fa che segnalare il
declino dell’impero che ha la pretesa di rilanciare.
La
guerra di Ucraina ha offerto l’occasione all’amministrazione Biden per
ricuperare la rilevanza politica dell’ex impero russo provocando l’aggressione
di un avversario connivente quale Vladimir Putin, successivamente pronto e
disponibile a trasformarsi in alleato di Trump nella comune impresa di
spartizione dell’Europa. Antica ambizione realizzata dopo la conferenza di
Yalta e pericolante dopo la caduta del Muro.
Il
progetto di Europa unita, che nasce durante l’esilio statunitense di Jean
Monnet e ispira il Piano Marshall, viene abbandonato da Washington negli anni
della sconfitta nella guerra contro il Vietnam, primo segnale del suo declino.
Sconvolgerebbe ogni residua ambizione bipolare la trasformazione dell’Unione
Europea, dalla sua attuale configurazione burocratica e filoatlantica in uno
stato federale di 450 milioni di persone, che viene a costituire una delle tre
maggiori potenze economiche e politiche in un sistema multipolare rispetto al
quale la Cina costituisce l’ancora con l’iniziativa dei BRICS. Soprattutto
Washington - da Nuland a Trump - non sopporterebbe un legittimo erede di valori
democratici, con una esplicita vocazione pacifista di cui non è dotata, meno
che mai ora.
Purtroppo
l’Unione Europea, nella sua attuale configurazione, sotto la presunta guida di
Ursula von der Leyen, più che mai lacerata dal divide et impera dì Washington, non è all’altezza della sfida in
atto. Essa blatera di una spesa militare stellare, concepita a misura di una
NATO a questo punto ridotta ad una presenza nucleare e logistica
incontrollata, di marca statunitense, in combutta con l’ormai alleato di Mosca,
rispetto al quale si invoca una difesa europea.
Gli
Stati Uniti d’Europa, per risultare tali, dovrebbero innanzitutto dotarsi di
regole maggioritarie per una politica estera di pace, così da garantire la
propria sovranità, effettivamente integrata, e quindi tale da giustificare una
difesa integrata che consentirebbe economie di scala. Utopia? Certamente nelle
circostanze attuali. Ma, come tutte le utopie - non mi stanco di ripeterlo -
indispensabili perché indicano la direzione in cui procedere. Con bandiere
della pace, accanto a quelle dell’Europa, come suggerisce Tomaso Montanari.
Gian
Giacomo Migone
giangiacomo.migone@gmail.com