Ten. cpl. Art. Pe. Sergio
Benedetto Sabetta
L’attuale
crisi politico ed economica che investe tutto l’arco del Mediterraneo unita
alla pressione demografica dalle aree del Sud, i traffici che questo ha
permesso di sviluppare, hanno portato al riemergere delle problematiche di
intervento già manifestatesi nei primi anni ’90 del Novecento con il crollo del
sistema bipolare.
L’inserirsi di una ulteriore destabilizzazione
politica in Ucraina e le rivendicazioni di nuovi potentati locali nelle varie
parti del globo hanno reso ulteriormente complicata la scena, a questo si è
aggiunta una profonda crisi economica unita al diffondersi di una tecnologia di
comunicazione più ampia e a buon mercato, disponibile globalmente in settori
sempre più ampi con conseguenti effetti di vasi comunicanti, è riemerso quindi
l’interesse ad una analisi non solo economica dello scenario mondiale, secondo
un filone che dalla crisi del “Golfo Persico” dei primi anni ‘90 del Novecento
si succede fino all’attuale crisi del bacino del Mediterraneo.
Il nostro
sistema internazionale è articolato in una dimensione globale ed in una
dimensione regionale, i due sistemi hanno caratteri peculiari in quanto si
organizzano con regole e istituzioni diverse, fino agli anni Cinquanta la
prevalenza era costituita dalla dimensione globale conseguenza dei vasti imperi
coloniali e dell’accentramento del potere economico, tecnologico e militare
nelle mani di pochi stati, con la decolonizzazione sono entrate nella scena
internazionale innumerevoli nuove entità statali, le quali hanno
progressivamente rivendicato un proprio ambito di influenza.
Si è
cominciato a parlare di regionalizzazione del sistema internazione e ci si è
accorti di una diversa sensibilità dei sottosistemi geografici ai processi in
atto del sistema globale. I criteri per la delimitazione di queste regioni,
sono la continuità e l’isolamento geografico, la comunità storico-culturale ed
economica, infine una elevata interdipendenza politica.
Le
organizzazioni locali relazionano tra loro in un’altalena di cooperazione -
conflittualità e quanto maggiore è la cooperazione tanto minore è la
possibilità di influenza nella regione per potenze esterne, comunque si dovrà
sempre tenere presente che,in ultima analisi, sono sempre le èlite degli Stati
regionali a dettare i criteri del loro agire, anche in opposizione ai dettati
dei governi esterni, occorre, inoltre, considerare l’ipotesi sempre più frequente
che uno stesso Stato sia coinvolto in più regioni, come può accadere nel
Mediterraneo o nel famoso “arco della
crisi” che va dal Mar Rosso al Golfo Persico fino a ricongiungersi col
Mediterraneo.
Si può
concludere affermando che la politica internazionale di un’area è la risultante
delle politiche esterne degli stati che ne fanno parte e dei processi e delle
pressioni politiche operanti nelle regioni confinanti, ma è anche causa, in
quanto retroagisce, delle politiche delle regioni circostanti.
Secondo la concezione classica,
derivante dalla Seconda Guerra Mondiale, del sistema internazionale come
sistema rigidamente bipolare, i conflitti erano originati dallo scontro Est – Ovest,
sarebbero stati in altre parole gli interessi delle due Superpotenze a
incoraggiare e ingigantire gli scontri regionali.
Dalla fine
del bipolarismo altre cause intervengono a spiegare l’andamento della
conflittualità internazionale, come l’emergere di potenze regionali su nuove
basi ideologiche o l’aumento del commercio delle armi, quello che è comunque
evidente è la perdita da parte delle Superpotenze e degli altri Stati centrali
al sistema internazionale , della capacità di gestire e controllare le crisi
regionali periferiche.
Vi è una discontinuità delle regole
della sicurezza con cui si organizza il sistema e non essendovi validi accordi
collettivi di difesa o regole di tutela gerarchicamente definite, prevale l’autotutela
territoriale e politica, con la conseguente instabilità del sistema, se poi vi
sono condizioni per rivalità egemoniche locali che si inseriscono su diverse
ideologie di legittimazione dei regimi e delle gerarchie locali, il quadro si
fa cupo.
In breve, le conflittualità locali sono conseguenza di
una evoluzione delle politiche internazionali locali, che dopo una fase di
coalizione delle forze nazionali al fine di costruire il nuovo apparato statale
fanno emergere i problemi culturali, etnici e religiosi difficilmente gestibili
dai giovani organismi statali troppo deboli organizzativamente ed economicamente.
Nello stesso tempo gli Stati regionali più solidi cominciano a perseguire una
politica estera più incisiva per affermare una propria sfera di influenza,
magari in contrasto con le potenze globali e del centro del sistema.
Se non ci si
vuole perdere nell’analisi dei conflitti locali, occorre sempre tenere presente
che lo Stato come qualsiasi organismo vivente, tende ad assicurarsi le
condizioni migliori per la sopravvivenza.
Gli elementi
vitali in quanto costitutivi sono il territorio, la popolazione e le
istituzioni di Governo, quando uno di questi tre elementi viene ad essere
minacciato si ha una diminuzione della “sicurezza
nazionale” con conseguente crisi internazionale, necessita perciò che ogni
sistema abbia regole ed istituzioni specificamente designate a garantire la
sicurezza collettiva, nel difficile passaggio da comportamenti competitivi a
comportamenti cooperativi.
Una
sintetica classificazione dei fattori di conflitto si può articolare in tre
gruppi: fattori nazionali, intraregionali
ed extraregionali.
I primi venivano da “arbitrarie”
delimitazioni territoriali in conseguenza delle quali questioni etniche,
linguistiche, religiose e ideologiche sono cause di guerre. I secondi sono antagonismi storici tra
Stati a causa di contrasti nei valori socio-politici fondamentali, oppure
rivalità di potenza per contrasti di interessi geopolitici. I terzi derivano da interventi diretti o
indiretti di potenze straniere che fomentano i contrasti locali per propri
fini.
La gestione
di una crisi presenta sempre notevoli problemi, in quanto ciò che per uno Stato
può essere un pericolo da contrastare, per un altro può essere un’opportunità
da sfruttare, se a questo si aggiunge la molteplicità dei protagonisti si può
capire perché il concetto di controllo della crisi è per molti aspetti
fuorviante ed eccessivamente ottimistico.
Fattore
fondamentale di una crisi è il fattore tempo, che può indurre le autorità
responsabili a risposte affrettate, tali da determinare l’uso della forza fino
al precipitare in un conflitto. Collegati strettamente al fattore tempo vi è
quello dell’importanza delle poste in gioco, tali da fare accettare rischi
elevati, entrambi poi (tempo e posta in gioco) possono dare origine ad una
notevole tensione che può tradursi operativamente in una “escalation”
irreversibile.
In tutto questo la complicazione
consiste nella tentazione di sfruttare una presunta maggiore sensibilità
dell’avversario ai pericoli del confronto, specialmente se i vantaggi appaiono
molto allettanti, naturalmente tutto viene complicato dalla presenza di
alleanze, in cui ciascun membro porta propri interessi e proprie valutazioni.
Si capisce
la difficoltà di una sagace gestione delle crisi in cui il prevalere del
compromesso sarà la risultante di un difficile equilibrio di rinunce e di
acquisizioni, infatti “la gestione della
crisi è essenzialmente un tentativo di bilanciare e conciliare i diversi
elementi” (Phill Williams). La
chiave sta nel costringere con cautela e nel conciliare a buon mercato,
naturalmente il problema è che quanto più lieve sarà la coercizione, tanto
minore sarà la possibilità di ottenere concessioni o di costringere
l’avversario a desistere dai suoi propositi.
Ugualmente
quanto più il compromesso è a buon mercato, tanto minori saranno le probabilità
di persuadere l’avversario sulla convenienza delle offerte a lui pervenute (Glenn Snyder - Paul-Diesing).
Il primo
passo per i vertici politici in presenza di una crisi è di stabilirne la
tipologia, ossia se si tratta di una crisi tipo Monaco (1938), con la necessità
di rintuzzare una seria minaccia dell’avversario, o piuttosto di una simile a
Sarayevo (1914), con la conseguente necessità di impedire che gli avvenimenti
sfuggano dal controllo, il criterio di valutazione potrà essere la volontà o
meno di creare lo stato di crisi anche se un tale esame può essere dei più
difficili ed ingannevoli.
Il seguente passo dell’attivazione
dei sistemi di sicurezza, senza tuttavia precipitare la crisi, è dei più
essenziali, come del resto lo è l’attivazione dei contatti con le cancellerie
alleate e contrapposte, anche se tale lavoro può essere frustrante e laborioso.
In questa procedura, rapidissima
nell’attuazione, possono crearsi momenti di scollamento tra potere politico e
militare oltre che notevole stress a livello politico, tale da determinare una
paralisi decisionale o misure avventate, tenendo conto della difficoltà di
formulare proposte in brevissimo tempo necessarie per una seria trattativa, ma
che al contempo tengano conto di tutte le dimensioni della potenza che vanno da
quella politica, a quella militare, a quella economica, per non parlare
dell’ideologia che sottende l’azione dell’avversario.
Se questo è
lo scenario internazionale e tali sono le dinamiche in atto in una eventuale
crisi del sistema, si arguisce che ben pochi sono i mezzi giuridici a
disposizione di uno Stato per garantirsi dall’aggressione di un altro Stato.
La vecchia
massima per cui l’unico mezzo a disposizione di uno Stato per imporre
l’osservanza del diritto internazionale è costituito dall’autotutela, rimane
purtroppo in auge.
Quanto affermato si ricollega alla struttura
della Comunità internazionale, in cui i singoli Stati sovrani riassumono tutti
i poteri, né si è costituita una istituzione sovranazionale fornita di poteri e
mezzi necessari per imporre l’esecuzione delle norme internazionali, anche le
Nazioni Unite nella situazione politica attuale non hanno potuto modificare tale
stato di cose.
Poste queste
brevi premesse si deve sottolineare che l’uso della forza non potrà mai essere
indiscriminato, ma sempre proporzionato alle violenze altrui, superare questo
limite fa sì che venga meno qualsiasi regola di diritto internazionale e
prevalga la pura violenza bellica, intesa come fase tutta dominata dai rapporti
di sola forza, deve comunque farsi una sottile distinzione tra legittima difesa
e rappresaglia, in quanto diversa può essere la portata dell’azione bellica.
Ne primo
caso si tende a prevenire il danno maggiore, cosicché l’azione dell’aggredito
interviene quando l’illecito è ancora in
itinere, non del tutto consumato, nel secondo caso si ha uno scopo punitivo
e quindi maggiore sarà l’incidenza del principio della proporzionalità.
La moderna
teoria dell’autotutela nei rapporti tra Stati ha cercato di sviluppare forme
non violente, o meglio non belliche, partendo dalla tesi della dottrina
positivistica tedesca formulata dallo Jellinek,
la quale considerava il diritto internazionale come frutto di autolimitazione
del singolo Stato, si è cercato di sviluppare l’uso della forza sul piano
interno dello Stato anziché sul piano internazionale.
Nell’ambito
della propria comunità possono venire adottate quelle misure legislative o
amministrative che, risolvendosi nella violazione di norme internazionali, si
giustificano come prevenzione o reazione contro gli illeciti altrui.
Rientra in
questo ambito il principio della reciprocità, per cui se uno Stato straniero
prevede norme contrarie al diritto internazionale o peggio assume condotte
illegittime, la sua condotta costituisce presupposto per analoghe misure di
ritorsione, logicamente questo principio avrà una maggiore restrizione nel caso
di vincolo di solidarietà e di collaborazione tra Stati membri di
un’organizzazione.
Il ricorso alla autotutela ed alla
reazione con la propria inadempienza a quella altrui, costituisce extrema ratio, perseguibile solo dopo
che tutte le altre strade offerte dall’organizzazione per ottenere giustizia
sono state esperite.
Siamo così
giunti al concetto dell’arbitrato, il quale riposa sulla volontà e quindi sull’accordo
di tutti gli Stati parti di una controversia, infatti in caso di disaccordo non
è possibile costringere uno Stato a sottoporsi a giudizio, l’istituto si è
notevolmente evoluto a partire dalla metà del secolo scorso, mantenendo il
carattere volontaristico per le parti coinvolte, ma creando al contempo
meccanismi atti a favorire la formazione dell’accordo e istituzionalizzando la
funzione arbitrale.
L’avvio
all’istituzionalizzazione si ha con la Corte Permanente di Arbitrato, creata
dalle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre, peraltro
l’istituzionalizzazione è minima trattandosi di un elenco di giudici,
periodicamente aggiornato, tra i quali gli Stati possono scegliere i singoli
membri per la formazione del collegio arbitrale, anche le regole di procedura
non sono molte e possono cedere di fronte a quelle eventualmente stabilite
dalle Parti.
Con il
sorgere delle Nazioni Unite nel 1945, si è affiancata alla Corte dell’Aja un
nuovo istituto detto Corte Internazionale di Giustizia, avente sempre sede
all’Aja, che ha sostituito la Corte Permanente di Giustizia Internazionale
della Società delle Nazioni, essa funziona sulla base di uno Statuto annesso
alla Carta dell’ ONU, ricalcante lo statuto della vecchia Corte Internazionale.
Trattasi di
un corpo permanente di giudici, eletti dall’Assemblea generale su proposta del
Consiglio di Sicurezza, che giudica in base a precise e complesse regole di
procedura inderogabili dalle parti, si tratta pur sempre di un tribunale
arbitrale che opera sul presupposto di un accordo tra tutti gli Stati in
controversia.
La
ricomposizione di controversie mediante arbitrati o reazioni non violente non
ha dato sempre buoni risultati se le trattative non vengono accompagnate da
dimostrazioni di forza o dalla presenza di corpi armati, inoltre la palese
insufficienza dimostrata dagli organismi
internazionali, con particolare riferimento alle Nazioni Unite in determinate
circostanze nelle quali alta era la posta in gioco, ha spinto le superpotenze e
gli altri Stati centrali del sistema a dotarsi di forze di intervento rapido,
queste non sono altro che il risultato della nuova “conflittualità diffusa” che si innesta nei nuovi rapporti Nord/Sud.
Le forze di
intervento rapido non si differenziano sostanzialmente dalle forze
multinazionali, in quanto queste possono essere formate mettendo insieme sotto
un unico comando reparti tratti dalle prime, al contrario i contingenti
dell’O.N.U. si differenziano notevolmente essendo prevalentemente forniti da
unità di supporto degli Eserciti di campagna.
Il giudizio
su tali forze di rapido intervento non può che essere positivo per il fine
ultimo del mantenimento della pace, almeno fino a quando i meccanismi
istituzionali delle Nazioni Unite non saranno in grado di sostituirle e sempre
che il loro utilizzo non debordi dagli stretti fini iniziali.
Si può
concludere con le parole di Maddalena sul
principio di moderazione e il conseguente ordine che l’Atene imperiale di Pericle conteneva, in contrapposizione al
“delirio di onnipotenza” manifestato
dai suoi successori fino alla tragica spedizione di Alcibiade, in equilibrio “
tra la giustizia assoluta e l’ingiustizia
assoluta (entrambe impossibili)”.
L’impero,
nato dalla forza e per la forza, è ingiusto di per sé, tuttavia seppure
ingiusto, se è retto con moderazione, attenua l’inevitabile ingiustizia ponendo
ordine (ordine relativo ) là dov’è disordine.
L’impero retto con moderazione è insomma, in
questo mondo dove regna la forza, creatore della massima utilità possibile concessa
all’uomo ( Maddalena).
Estratto dalla relazione dell’autore alla XLII Sessione
del Centro Alti Studi della Difesa - ROMA