Le dinamiche del cambiamento
La condizione favorevole di cui ha potuto godere, nell’anno della pandemia del Coronavirus, la 77ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ha permesso uno sviluppo delle diverse attività e proposte del Festival in quasi totale coerenza rispetto gli standard qualitativi e organizzativi delle edizioni precedenti, pur, ovviamente, rispettando ogni protocollo di sicurezza.
Sarebbe un errore però ritenere che le problematiche legate alla pandemia non abbiano avuto delle ricadute sulla Mostra di Venezia e che, soprattutto, non ne avranno. Ma attenzione: con il termine “ricadute” non intendo rimandare all’idea di conseguenze negative, ma a riformulazioni, accelerazioni nelle dinamiche del cambiamento, consapevoli del fatto che da un lato, come dice George Bernard Shaw, «progredire senza cambiare è impossibile», e che, dall’altro, ogni crisi si dimostra essere «una tremenda opportunità per imparare e per crescere», riprendendo le parole di John Mackey.
La pandemia segna dunque una crisi, e anche profonda, ma può tuttavia trasformarsi in un momento di riflessione, di crescita, fino a divenire un generatore di mutamenti di segno positivo.
Il Festival di Venezia, sebbene sia riuscito nella scommessa che tutto potesse avvenire in presenza, durante la pandemia, ha pur sempre avviato una serie di cambiamenti che fanno perno sulle possibilità concesse dallo streaming e più in generale da Internet.
Prima di indicare questi cambiamenti è bene specificare però il motivo per cui si è deciso di non andare on-line, utilizzando la tecnologia soltanto in casi specifici: il motivo è che la resa in presenza di un festival è da considerarsi una scelta in qualche modo imprescindibile. Non credo infatti che i grandi festival possano pensare di trasferirsi interamente su Internet. La natura stessa del festival pretende ed esige la dimensione fisica, della condivisione, del rituale delle proiezioni, dei contatti con i protagonisti. Credo che per quanto riguarda Venezia e gli altri grandi appuntamenti di questo livello, ovvero Cannes e Berlino, tutti quanti punteranno a salvaguardare il core business del festival, garantendo la realizzazione in presenza.
È vero anche, però, che per alcune realtà l’andare on-line può risultare addirittura un vantaggio. Mi riferisco non soltanto ai piccoli festival, ma anche quelli specializzati, focalizzati su produzioni quali cortometraggi e documentari, vale a dire opere che godono di un mercato molto limitato o che sono prevalentemente destinate già in partenza a finire sullo streaming, per l’assenza di un circuito di distribuzione tradizionale in grado di garantire la circuitazione di questa tipologia di lavori. Diversamente i grandi appuntamenti, dove prevale invece la dimensione della promozione di prodotti destinati al mercato, la presenza fisica diviene necessaria e fondante per la possibilità di sfruttare al meglio le potenziali offerte dell’evento nel suo insieme. Si aggiunga, inoltre, il fatto che i grandi produttori sono molto restii, se non del tutto contrari, a concedere la possibilità di mostrare in rete film inediti prima della loro uscita commerciale, rendendo così vane le ipotesi di formule ibride per le grandi manifestazioni. Soltanto i piccoli produttori indipendenti si dimostrano maggiormente disponibili, pur con le dovute eccezioni: anche il Torino Film Festival, ad esempio, non ha potuto mettere on-line alcuni film pensati per il programma di quest’anno, per l’opposizione di alcuni produttori.
Vediamo invece i cambiamenti possibili verso cui ci ha condotto e ci conduce la crisi pandemica.
Prendiamo in considerazione la cosiddetta realtà virtuale (VR, Virtual Reality): viste le specificità di questo linguaggio e i suoi specifici protocolli di fruizione, non collettivi all’interno di una sala cinematografica, ma individuali mediante l’uso del visore, risulta facile far fruire i suoi prodotti in rete. È quanto si è fatto a Venezia in occasione dell’ultima edizione, quando l’intero concorso riguardante la realtà virtuale è stato trasferito on-line, permettendo anche un passaggio dalle 10.000 visualizzazioni dello scorso anno alle oltre 125.000 di quest’ultima edizione.
Questo esempio può indurci a pensare che questo sia lo scenario prossimo futuro per la VR nei Festival? Non credo, in quanto siamo ancora in un ambito in cui la tecnologia è in una fase sperimentale, suscettibile di sostanziali cambiamenti nel linguaggio e nelle modalità di fruizione ‒ si pensi ad una possibile fusione, ad esempio, della VR con la realtà aumentata (AR, Augmented Reality) ‒, e anche perché i produttori non sono sinora riusciti a dare vita a un circuito di distribuzione, e quindi ad un mercato, in grado di offrire sostanziosi ritorni economici agli investimenti fatti. Ci troviamo ancora in una fase sperimentale legata a situazioni particolari e limitate: festival, musei, esperienze fisiche in alcune grandi città. Quando sarà maturo questo sistema di rappresentazione, allora potremo vedere cosa determinerà. Penso tuttavia che la VR sia destinata non a sostituire o a inglobare il cinema, bensì ad affiancarlo, come una forma espressiva e spettacolare autonoma, dotata di un proprio linguaggio e di ben specifiche modalità di fruizione. In questa prospettiva, la VR potrà aspirare ad arricchire ulteriormente i caratteri di quel concetto sempre più liquido di “esperienza filmica” (in netta opposizione con quanto scrive Raymond Bellour) che, nell’epoca della convergenza teorizzata da Henry Jenkins, perde sempre più i suoi confini netti grazie alle continue contaminazioni e rilocazioni in diversi media.
Riguardo le modifiche messe in atto dal mondo dei festival cinematografici a causa della pandemia, non può che risultare centrale il potenziamento delle attività in rete, palesandosi la “concretezza” di quel cyberspazio che diviene luogo “sicuro”, nella diffusione del virus, di incontri, conferenze stampa, master class, dibattiti, presentazioni; tutto questo viene spostato nella rete, facendo diventare gli spazi virtuali offerti dal web gli ambienti più consoni per questa tipologia di proposta. La cultura partecipativa, sempre riprendendo Jenkins, si manifestata così, a causa e per merito del Coronavirus, in tutta la sua forza, rendendo l’ambiente virtuale una risorsa gradita e vissuta dal pubblico, dai principali protagonisti del mondo del cinema e ovviamente dagli organizzatori dei festival. I vantaggi di tutto ciò ci hanno spinto a elaborare il modo di rendere stabile e permanente questa tipologia di proposta che potrebbe diventare in futuro un elemento coerente e coesistente con il Festival, che si svolge fisicamente al Lido di Venezia, ma virtualmente in una dimensione ubiqua e sempre più immersiva, funzionale a quelli che Alain J.J. Cohen definisce gli «iperspettatori».
L’uso di uno spazio virtuale in realtà non è una novità per il Festival di Venezia, in quanto è stato uno dei primi festival a sfruttarne le potenzialità già dal 2012, ben prima che si potesse immaginare che questa scelta diventasse obbligata: in una sala virtuale sono stati da allora ospitati un certo numero di film indipendenti e di piccole produzioni, per i quali la visibilità è l’interesse primario, in concomitanza con la loro proiezione veneziana. Ma ciò che abbiamo vissuto ci ha portati alla conclusione che sia necessario potenziare tale ambiente virtuale, per avvicinarci anche a coloro i quali non hanno le possibilità per raggiungere Venezia, rendendo così ancora più concreta quella cultura partecipativa attivata dal Web 2.0.
In relazione al supporto alla richiesta di partecipazione (da parte, ad esempio, di chi per problemi economici o di salute non può intraprendere lunghi viaggi per recarsi alla sede di un festival), un’altra idea che abbiamo preso in considerazione, come soluzione alternativa al festival in presenza, può avere un qualche sviluppo futuro: mi riferisco al progetto di “festival diffuso” nel resto d’Italia, consistente nel coinvolgere le sale cinematografiche delle principali città italiane per la proiezione contemporanea dei film in programma. Questa ipotesi, sviluppata dal Festival di Venezia quest’anno solo per il film di apertura (con il coinvolgimento di 110 sale italiane), andrebbe incontro non solo alle esigenze di un ampio pubblico, ma anche agli esercenti dei vari cinema in Italia, aiutando a ricostruire un rapporto di fiducia e di fedeltà del pubblico con le sale.
Sappiamo bene che questo rapporto si è incrinato prima ancora dello scoppio della pandemia, ovvero con la nascita di canali streaming quali Netflix e di altre piattaforme come Amazon, Apple, Disney, Warner, Universal, HBO. La loro affermazione commerciale ha avviato un processo di modifica dei protocolli di fruizione della produzione audiovisiva. Ma nello stesso tempo sta determinando la necessità di soddisfare la richiesta di contenuti, che diventerà esponenziale nei prossimi anni, con conseguente avvio di una competizione, che sarà fortissima tra tutti gli streamer, per fare propri i prodotti di maggiore qualità, sia dal punto di vista autoriale sia dal punto di vista spettacolare. In tale panorama, particolarmente favorevole per il mondo del cinema e per l’intera filiera, chi corre i rischi maggiori sarà il tradizionale circuito delle sale cinematografiche, che rischiano di rimanere escluse dallo sfruttamento commerciale di molti titoli appetibili. Un simile problema riguarda anche i festival? No. Ritengo infatti che i festival non corrano il rischio di scomparire, anche qualora tutti i prodotti dovessero andare direttamente in streaming; e questo per il fondamentale bisogno di promuovere certi titoli, di valorizzarli rispetto ad altri, di segnalare quali siano le opere più interessanti per un certo tipo di pubblico. È proprio per questo che i festival avranno molto da fare anche negli anni prossimi. Ma è anche vero che dopo la pandemia assisteremo a un ribaltamento dei rapporti di forza; se prima il mercato tradizionale delle sale rappresentava più del 90% dello sfruttamento commerciale dei titoli e il restante 10% era a vantaggio degli streamer, dopo la pandemia potrebbe esserci e vero e proprio ribaltamento dei rapporti di forza. Quello su cui bisogna investire in tutti i modi sarà allora la salvaguardia del patrimonio rappresentato dai circuiti tradizionali. Sarà questa una delle prossime mission dei festival, anche se il grosso del lavoro spetta agli esercenti stessi, che devono capire quanto sia fondamentale la trasformazione della sala cinematografica in un nuovo ambiente, cioè in un contenitore di cultura ad ampio raggio capace di ospitare prodotti generati da linguaggi e media diversi (concerti, opere teatrali, musica lirica e operistica). È questa una delle grandi lezioni che dobbiamo saper trarre da questo difficilissimo momento generato dalla pandemia.
Bibliografia per approfondire
A. J.J. Cohen, Virtual Hollywood and the Genealogy of Its Hyper-Spectator, in Hollywood spectatorship. Changing perceptions of cinema audiences, a cura di M. Stokes - R. Maltby, British Film Institute Publications, London 2001
H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007
H. Jenkins, Culture partecipative e competenze digitali. Media education per il XXI secolo, Guerini Studio, Milano 2010
R. Bellour, La Querelle des dispositifs. Cinéma – installations, expositions, POL, Paris 2012
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