La cosiddetta “inaugurazione” della presidenza di Donald Trump corona un inizio di 2017 segnato dall’inedito scenario di un’Europa accerchiata da nemici del suo processo di unificazione. Alcuni sono motivati da calcoli geopolitici, altri dal cambiamento fine a se stesso. Tutti sono prodotto di democrazie elettorali variamente illiberali e usano retoriche nazionaliste variamente nostalgiche.
Un Vladimir Putin che vuol “riportare la Russia alla passata grandezza”, dopo una breve fase di apertura all’Occidente (dall’Occidente forse non verificata adeguatamente), considera adesso avversaria un’Unione Europea, Ue, che gli applica sanzioni economiche comuni a seguito della sua presa della Crimea e che costituisce un modello permanente di convivenza liberaldemocratica per i paesi interposti, come l’Ucraina, o per quel che rimane della stessa opposizione interna russa.
Recep Tayyip Erdogan, detto “il sultano” per il suo ispirarsi alla potenza ottomana del passato, pur non avendo formalmente abbandonato l’ipotesi di adesione all’Ue, sposta ormai apertamente il suo paese nella direzione opposta dell’incompatibilità con essa, mentre si unisce allo “zar” moscovita in un imprevisto matrimonio di interessi a prezzo di qualche voltafaccia.
Nominalmente nemico di tutti, l’Isis-Daesh, che vorrebbe far rinascere il Califfato, vede nelle azioni terroristiche in Europa una rivincita di immagine a fronte delle ritirate territoriali in Iraq e in Siria. Ne risultano così ostacolate a casa nostra sia l’integrazione delle minoranze musulmane nelle società riceventi sia l’integrazione fra stati in termini di libertà di movimento in seno all’Unione (non a caso argomento dominante nella propaganda per la Brexit).
Più lontani un Xi Jinping, autoeletto padre del “grande ringiovanimento del popolo cinese”, o un Nerendra Modi, leader del movimento hindu ispirato a grandezze passate, che non ha valutato negativamente il voto con cui la maggioranza dei cittadini dell’ex-potenza colonizzatrice britannica ha scelto di staccarsi dal vecchio continente.
Ma la differenza la fanno gli Usa Quanto sopra non è però tutto così nuovo: basti ricordare la dura avversione di Mosca nei confronti delle nascenti comunità europee ai tempi dell’impero sovietico. La vera novità è oggi il mutamento degli atteggiamenti americani verso l’Europa, mutamento al quale l’accesso di Trump alla Casa Bianca con lo slogan “make America greatagain” sembra destinato a dare il carattere di una svolta tanto storicamente drammatica quanto politicamente incerta.
In verità, già subito dopo l’esito imprevisto del voto dell’8 novembre un piccolo ma significativo segnale lo aveva dato l’incontro del President-elect con il non meno inatteso vincitore del Brexit, Nigel Farage. Difficile non vedere dietro il gesto la mano del generale Michael Flynn, prontamente nominato da The Donald suo Consigliere per la sicurezza nazionale (per intenderci, quel che Henry Kissinger fu per Nixon e Zbignew Brzezinski per Carter).
In dicembre Heinz Christian Strache, leader del potente partito austriaco di estrema destra antieuropea (che ha mancato di poco la conquista della presidenza della repubblica), dopo aver firmato un accordo di cooperazione con il quasi partito unico di Putin, ha lasciato trapelare di aver incontrato Flynn alla Trump Tower, dove non molto tempo dopo sarà vista entrare la leader del Front National francese.
Alla vigilia di Natale poi, il rappresentante di Washington presso l’Ue, Anthony Gardner, figlio di un noto ambasciatore a Roma e convinto sostenitore di un’Europa unita partner degli Stati Uniti, ha ricevuto una lettera in cui lo si informava che dal 20 gennaio 2017, data del passaggio di poteri presidenziali, lui avrebbe cessato dalle sue funzioni. E ciò contro la prassi che ad ogni cambio di amministrazione vede gli ambasciatori uscenti invitati a rimanere in carica fino alla venuta del successore, cioè dopo la designazione, il gradimento della sede ospitante e l’approvazione del Congresso – un processo che può richiedere mesi.
Di nuovo non sono necessarie facoltà divinatorie per immaginare l’origine del messaggio all’amb. Gardner, origine diplomaticamente definita come “inner circle” del presidente eletto. Del quale circolo intimo fa parte anche un personaggio come Stephen Bannon, che da capo di Breitbart News, noto sito populista di estrema destra, è stato promosso a “capo stratega” della Casa Bianca. Il rappresentante di Breitbart a Roma (un ex-prete, amico dei nemici di Papa Francesco, in passato distintosi come difensore del prelato-guida dei Legionari di Cristo dall’accusa di pedofilia, poi dimostratasi drammaticamente fondata) ha raccontato al New York Times che Bannon va oltre le sue stesse preferenze nella velenosa avversione contro l’unificazione dell’Europa secolarista e calabrache dinnanzi ai “fascisti islamici” (1).
Prepararsi ad un futuro difficile È bene avere presenti questi retroscena quando ci si interroga sulle recenti pubbliche prese di posizione del nuovo Presidente circa il divorzio britannico dall’Ue - un buon esempio che sarà seguito da altri - o circa il dubbio valore residuo dell’Alleanza atlantica nel contesto attuale.
Si dirà che le audizioni ai posti chiave della nuova amministrazione, attualmente in corso presso il Senato di Washington, denotano molte discordanze dalle prese di posizione di Trump e dei suoi. E ciò è senz’altro vero, tanto che in molti si interrogano su quale sarà la politica estera risultante da questi vettori così poco concordanti.
Ma le contraddizioni riguardano principalmente i rapporti con la Russia di Putin, “opportunità” per gli uni e “minaccia” per gli altri, o il futuro della Nato, “superata” per gli uni e “vitale” per gli altri, più che l’integrazione europea.
Potrebbe essere indicativo in proposito un documento sulla politica da seguire in materia di sicurezza europea, appena pubblicato dalla storica fondazione dei conservatori americani, la Heritage Foundation. In esso, se da una parte si insiste sui rischi che ancora presenta l’orso russo per gli Stati Uniti e sulla connessa necessità di un’alleanza con l’Europa, dall’altra si plaude all’uscita della Gran Bretagna dalle istituzioni europee e si sollecita “un ripensamento dello sconsiderato sostegno all’Ue sovranazionale” finora praticato(2).
Ora, la carovana dell’Ue accerchiata da molteplici tribù ostili non mette i carri in circolo come si faceva nei film western. Al contrario, alcuni di quelli che hanno le redini in mano o di quelli che siedono sulle panche sotto i teloni bianchi mandano segnali si simpatia agli assalitori. Così l’ungherese Viktor Orbàn punta ad essere il primo leader europeo ricevuto dal neo presidente e Marine Le Pen contempla un “nuovo mondo” guidato dal trio formato da Trump, Putin e sé stessa.
E se il leader polacco Jaroslaw Kaczyński vede con preoccupazione le simpatie per Mosca crescere a Washington, è pur vero che le sue preferenze quanto a stile di governo lo avvicinano a chi guida le due grandi potenze da cui dipende la sicurezza del suo paese. Simpatie che da noi sono apertamente condivise da un Salvini e più ambiguamente da esponenti della destra o di quel movimento composito (per usare un eufemismo) che è Cinque Stelle.
Tutto ciò aiuta a capire come la battaglia politica attualmente in corso in Europa fra (veri) democratici e populisti coincida di fatto con quella fra chi vuole salvaguardare e sviluppare ciò che si è realizzato in fatto di integrazione europea e chi vuole il ritorno alle sovranità nazionali, identitarie, protezionistiche e nostalgiche di grandezze passate talvolta poco chiare.
(1) “Brietbart’s Man in Rome”, The New York Times, Jan 10, 2017. (2) “Recommitting the Unites States to European Security and Prosperity”, The Heritage Foundation, Issue Brief #4646, Jan 12, 2017.
Cesare Merlini è Presidente del Comitato dei Garanti dello IAI.
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