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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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mercoledì 27 aprile 2016

Energia: difficoltà e prosepttive

Energia
Petrolio, la difficile partita saudita a Doha
Nicolò Sartori, Leonardo Giansanti
21/04/2016
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Il timido ottimismo attorno all’esito del meeting di Doha si è scontrato, domenica pomeriggio, con il cinico realismo della principale potenza del Golfo, l'Arabia Saudita, e del suo storico rivale, l'Iran.

Gli annunci carichi di aspettative dei funzionari dell’Opec - l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio - all'indomani dell'accordo di febbraio tra Arabia Saudita, Russia, Qatar e Venezuela avevano, infatti, fatto pensare ad una revisione dell’intransigente approccio di Riad, spingendo il prezzo del Brent oltre i 40 dollari al barile, dopo il crollo di gennaio sotto la soglia dei 30 dollari.

Il risultato finale degli incontri di Doha suggerisce invece una chiara mancanza di fiducia sia tra paesi Opec e non-Opec (in Qatar erano presenti anche Azerbaijan, Messico, Oman e Russia), sia all'interno dello stesso cartello. In questo contesto, infatti, è molto difficile pensare che un singolo paese - in questo caso l'Arabia Saudita - sia disposto a modellare la propria strategia energetica e a sobbarcarsi una serie di costi extra, in funzione degli interessi di altri paesi concorrenti.

La posizione di Riad
L'Arabia Saudita, va ricordato, avrebbe - come la stragrande maggioranza dei paesi esportatori - un chiaro interesse a incrementare i propri introiti petroliferi grazie all'innalzamento dei prezzi. In primo luogo, ciò permetterebbe di mantenere alti i livelli di spesa pubblica e garantire sia le tradizionali forme di sussidio socio-economico riservate alla popolazione, sia il funzionamento del massiccio apparato militare e di polizia. In seconda battuta, esso renderebbe possibile continuare a drenare miliardi di petrodollari verso i propri alleati internazionali - statuali e non - sparsi in tutto il mondo.

Ma, oltre a questo, la verità è che la petromonarchia wahabbita teme che un suo approccio compromissorio sui tagli alla produzione potrebbe non risultare necessariamente in un aumento delle entrate petrolifere ma altresì portare alla perdita di quote di mercato, favorendo pratiche di free riding da parte di competitor Opec e non, così soprattutto spianando la strada al rilancio economico (e potenzialmente anche politico) del suo principale rivale regionale, l’Iran.

In passato, il regime saudita è rimasto scottato da dinamiche simili, come durante lo shock petrolifero degli anni ’80, quando il re Saud avallò l'abbattimento dei livelli produttivi in concerto con gli altri paesi Opec, che tuttavia non rispettarono l’accordo facendo crollare il prezzo a 10 dollari al barile e costringendo l'Arabia Saudita a inondare il mercato del suo petrolio.

Dinamiche simili si sono verificate nel 2001 quando paesi non-Opec come Russia, Messico, Oman, Angola e Norvegia promisero una riduzione complessiva della produzione, ma nel giro di pochi mesi Mosca si trovò ad aver aumentato in modo sostanziale il proprio output.

Il nodo Iran
Alla luce di questi ragionamenti, come emerso a Doha, la monarchia saudita subordina il congelamento dei livelli produttivi al coinvolgimento dell'Iran in un eventuale accordo. Il recupero della legittimità internazionale da parte dell'Iran rappresenta una chiara minaccia strategica per Riad e per il suo status di potenza regionale nel Golfo Persico. Il successo dei negoziati sul nucleare e l'alleviamento delle sanzioni internazionali permettono al regime degli ayatollah di giocare un ruolo di primo piano sui mercati internazionali, con un effetto destabilizzante anche all'interno dell'Opec.

Come dimostrato dall’esito del vertice in Qatar, Teheran - che non ha alcuna intenzione di limitare la ripresa del proprio settore petrolifero, rivendicando anzi il diritto a tornare a livelli di produzione pre-sanzioni - appare sempre più in grado di incrinare i già deboli meccanismi di coordinamento in seno all'organizzazione, mettendo in luce le difficoltà della leadership saudita a guidare il gruppo dei paesi produttori.

Di fatto, l’atteggiamento intransigente dei sauditi durante il vertice straordinario, poiché la posizione iraniana sul proprio contributo al congelamento della produzione era chiara da tempo, ha alimentato il disappunto dei partecipanti, inclusi gli alleati più stretti di Riad nella regione.

L’impatto della sfida con Teheran
È evidente come al fallimento dei negoziati di Doha seguirà inevitabilmente un ulteriore drenaggio di risorse finanziarie per i paesi produttori, i quali hanno avviato quasi all’unanimità forme più o meno strutturate di revisione della spesa pubblica e delle politiche fiscali nazionali.

Questa situazione potrebbe determinare una destabilizzazione della situazione socio-politica interna ad alcuni di questi paesi, come dimostrato dagli scioperi dei lavoratori del settore petrolifero in Kuwait: proteste che nel giro di tre giorni hanno di fatto dimezzato la produzione dell’emirato (e fatto risalire i prezzi del greggio).

Al contempo, le divergenze sancite dal vertice straordinario potrebbero riaccendere la rivalità tra i due grandi attori regionali nel quadrante medio orientale, creando i presupposti per possibili escalation nei teatri geopolitici più caldi, come il Bahrein, il Libano, la Siria e lo Yemen.

Tra le pieghe del conflitto di matrice religiosa tra sciiti e sunniti che attraversa il Medio Oriente, la sfida esplicita dell’Iran alla leadership saudita nella regione -palesatasi con l’assenza al vertice di Doha - contribuisce ad accrescere le tensioni in un’area già profondamente instabile.

A livello globale, l’esito di Doha contribuisce a rimescolare le carte dei maggiori player seduti al tavolo energetico, con l’Arabia Saudita che ne esce particolarmente indebolita. Gli Stati Uniti, maggiori responsabili degli attuali livelli dei prezzi in virtù della rivoluzione dello shale, avrebbero visto di buon occhio lo sforzo dello storico alleato per assicurare il raggiungimento di un accordo formale.

Tuttavia, anche alla luce dell’avvicinamento di Washington a Teheran, l’allineamento tra americani e sauditi appare quanto mai in discussione. Divergenze con Riad rese esplicite dalla Russia, che non ha nascosto la propria amarezza per il buco nell’acqua del vertice straordinario, individuando nell’atteggiamento saudita la causa principale del non-risultato conseguito. L’Iran, rimasto strategicamente alla finestra, per ora ringrazia.

Nicolò Sartori è Responsabile di ricerca e Coordinatore del Programma Energia dello IAI. Leonardo Giansanti è Tirocinante presso il Programma Energia dello IAI.
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lunedì 18 aprile 2016

Integrazione in Europa. l'urgenza di una soluzione

Europa e Islam
Modelli d’integrazione, se l’Italia sta a guardare
Jessica Cavallero
10/04/2016
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Gli attentati di Bruxelles rendono urgente, ancora una volta, l’elaborazione di una seria risposta al quesito sull’esistenza di un modello di integrazione di successo per le società europee.

Nella maggior parte dei Paesi europei, l’esigenza di dare risposte concrete alla gestione del fenomeno migratorio ha iniziato a farsi sentire dagli Anni Settanta, da quando cioè Paesi come Italia, Belgio e Svezia si sono trasformati da realtà di emigrazione a territori di immigrazione.

Questo passaggio era avvenuto già da decenni in Paesi di più vecchia immigrazione - come Gran Bretagna, Francia e Germania -, che si sono trovati prima del nostro ad affrontare la sempre crescente multiculturalità e religiosità delle loro società.

Ogni singolo modello ha le proprie caratteristiche particolari. Proprio questo potrebbe facilitare l’elaborazione di una classifica dei paradigmi da evitare e di quelli, invece, cui il nostro Paese potrebbe guardare nel suo cammino verso un modello unico e peculiare.

Virata restrittiva in Svezia
Partendo dai modelli più inclusivi, il caso svedese dimostra che un assistenzialismo statale sfrenato nel lungo periodo non è del tutto sostenibile. All’inizio del processo migratorio, l’obiettivo era di integrare velocemente i nuovi arrivati. Questa “generosa politica migratoria” era sostenibile poiché si fondava su un forte controllo dei nuovi entrati.

La religione si configurava come scelta individuale senza alcun riflesso sulla vita pubblica. Ma è proprio in questo modo che s’impedisce a una religione come l’islam, fortemente comunitaria, di rendersi visibile nello spazio pubblico e di ricomporre nuovi luoghi dove tessere legami sociali e religiosi.

Già all’inizio del secolo, questo delicato equilibrio si spezza perché aumenta il numero degli immigrati e i costi per lo stato iniziano a lievitare. Il modello svedese si trova minacciato da una serie di ostacoli che ne insidiano la tenuta: confinare la religione interamente nella sfera privata degli individui non è la soluzione.

Tolleranza e laicità non bastano
A dimostrare ancora meglio come la privatizzazione del credo non sia la strada giusta per una reale integrazione è il modello francese. Si tratta di un modello individualista in cui a contare è il singolo e non la comunità della quale un individuo può sentirsi parte.

Un simile atteggiamento ha impedito un riconoscimento pieno dell’Islam nella vita pubblica della République, così com’è avvenuto nei Paesi scandinavi. Siamo sicuri che in nome della laicità vogliamo rinunciare a uno dei valori più importanti della stessa Francia - e della stessa Europa -, cioè la tolleranza?

La tenuta del modello tedesco
Il caso tedesco dimostra, invece, come la Germania sia riuscita a modificare le regole in corsa e come sia oggi diventata uno dei Paesi cui la maggior parte dei musulmani europei guarda con favore. Anche l’Italia potrebbe cercare di fare uno sforzo in questo senso.

L’apertura di scuole per la formazione degli imam può essere una pratica cui guardare. In primo luogo per evitare infiltrazioni di esponenti più radicali nelle moschee e nei centri islamici e in seconda battuta perché l’opinione pubblica, quella perlomeno più “integralista” nel rifiuto dell’altro, possa veder ridotti i motivi sui quali fondare la sua caccia allo straniero, molto spesso al musulmano.

Il muro d’Inghilterra e il pluralismo belga
Il caso inglese documenta come l’integrazione delle differenze possa mostrare anch’esso dei limiti. Pensiamo alla città di Bradford, chiamata anche piccola Islamabad,e che rappresentava il successo delle politiche di integrazione. Quella Bradford che, però, era stata anche teatro di manifestazioni a favore della fatwa contro Salman Rushdie, dopo la pubblicazione dei suoi “Versi satanici”, ritenuti blasfemi da parte di alcuni islamici.

Se si trattasse di vere manifestazioni fondamentaliste, o piuttosto di un forte segnale di quella minoranza musulmana che si sente tollerata ma non riconosciuta, è difficile dirlo.

In Belgio, il Parlamento si pronunciò a favore dell’inserimento dell’Islam nell’assetto costituzionale già nel 1974. L’Islam viene però riconosciuto solo se si rende conforme ai modelli istituzionali già presenti nel Paese.

La società belga ha fatto sì che fossero le grandi divisioni ideologico-politiche a plasmare l’organizzazione di tutto il sistema sociale. Il pluralismo istituzionalizzato belga ha retto fino a questo momento, ma ora il precario equilibrio si è spezzato. Ancora una volta, la tolleranza non è una risposta sufficiente.

Il non modello italiano
Diversi Paesi europei hanno elaborato un modello riconoscibile e unico per l’integrazione degli stranieri presenti nelle proprie società sforzandosi di incontrarsi e non di scontrarsi con le minoranze, soprattutto quella musulmana.

Si pensi alla costruzione di moschee: in Gran Bretagna esiste un progetto per costruire una moschea per sole donne, esistono degli incentivi economici per i giovani che vogliono fare impresa seguendo l’etica musulmana; mentre in Germania sono attive le già citate scuole deputate alla formazione degli imam.

In Italia nulla di tutto ciò è avvenuto. Sono diverse le comunità islamiche che si sono proposte come rappresentanti dell’islam italiano con l’obiettivo di siglare intese con lo Stato. Ogni tentativo è tuttavia fallito.

Anche alla luce dei recenti fatti di Bruxelles, sono due i comportamenti da incoraggiare: non guardare ai musulmani come inevitabili minacce per società di cui sono protagonisti indiscussi e non adottare un comportamento di mera tolleranza, ma riconoscere in toto il loro diritto a essere cittadini e non semplici soggiornanti in quella che per molti è la loro patria. L’Italia è ancora in tempo.

Jessica Cavallero è laureata in Scienze Internazionali all'Università degli Studi di Torino. Giornalista, gestisce il blog zeroeffetticollaterali.com. Dalle sue ricerche al Cairo è nato l'ebook "La primavera rubata".
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Le mosse della Banca europea

Salve e pallettoni nel bazooka di Super Mario 
Simone Romano
30/03/2016
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Il 10 marzo 2015 iniziava ufficialmente il quantitative easing europeo, il massiccio programma di acquisto di titoli da parte della Banca centrale europea, Bce, per un totale di 60 miliardi di euro al mese fino a settembre 2016.

Nei 12 mesi trascorsi dall’avvio, il programma è stato potenziato da diversi punti di vista, espandendo le tipologie di titoli acquistabili dalla Bce, aumentando l’ammontare di acquisto mensile a 80 miliardi di euro e estendendo la durata del programma fino al marzo 2017.

Con l’inflazione dell’area euro vicina allo 0% e le deludenti dinamiche di crescita dell’occupazione e dell’economia reale, confermate dal taglio delle stime di crescita avvenuto oggi da parte di Standard &Poor’s, sono sorti da più parti dubbi sull’effettiva utilità di questa politica monetaria espansiva non convenzionale.

Cosa non sta funzionando
Il mandato della Bce è mantenere l’inflazione nell’eurozona vicina al livello del 2%, una soglia considerata compatibile con una crescita economica sostenibile e con la stabilità monetaria dell’area.

Dopo gli scarsi risultati ottenuti in tal senso a seguito dell’abbassamento dei tassi di rifinanziamento principale fino alla soglia dello 0%, e dopo aver portato in territorio negativo i tassi che la Bce paga sui depositi che le banche detengono presso di essa, l’istituzione di Francoforte si è impegnata in una politica di immissione di liquidità, il quantitative easing, senza precedenti.

Tuttavia,non ci sono state risposte positive né da parte del livello prezzi né dagli investimenti. Lo swap 5y5y che misura le aspettative dei mercati riguardanti l’inflazione futura è ben al di sotto dalla soglia del 2% e anche la core inflation, depurata dagli effetti della crisi dei prezzi energetici, non sale oltre la soglia dell’1%.

Le stime presentate oggi da Standard and Poor’s prevedono che il tasso di inflazione non superi l’1,4% nei prossimi due anni. Gli investimenti sono lontanissimi dal livello pre-crisi, nonostante le condizioni di finanziamento estremamente vantaggiose.

La gravità della situazione è accentuata dal circolo vizioso che è in grado di generare: le aspettative di bassa inflazione non incentivano gli investimenti e, a sua volta, la carenza di investimenti rallenta la crescita della domanda aggregata nel breve periodo e della produttività nel lungo periodo, incidendo in maniera negativa sulle performance economiche e sulle dinamiche dei prezzi.

Cosa sta funzionando
L’indebolimento della moneta unica europea nei mercati valutari e il conseguente stimolo per le esportazioni dei paesi membri dell’euro sono da iscriversi tra le implicazioni positive della politica monetaria non convenzionale.

Queste dinamiche hanno permesso di migliorare il saldo della bilancia commerciale dell’eurozona in un momento non semplice a livello globale, con molti dei principali mercati di sbocco delle merci europee che attraversano momenti di crisi. L’effetto positivo più evidente del quantitative easing europeo è però costituito dall’abbassamento del costo del debito, sia per i privati che per le autorità pubbliche. L’Italia è il Paese più avvantaggiato da questa condizione, avendo risparmiato negli ultimi 12 mesi circa 6,5 miliardi di euro di interessi.

Che sarebbe successo senza la mossa di Draghi?
Considerando quanto detto, molti ritengono l’esito del quantitative easing deludente. Sono passati più di 12 mesi da quando Mario Draghi ha caricato il suo bazooka ma, nonostante i due potenziamenti intercorsi nel frattempo, la situazione per i paesi membri dell’euro non sembra essere migliorata sensibilmente.

Anche i risultati positivi non sono scevri da critiche, come, ad esempio, l’accusa che le condizioni agevolate di finanziamento abbiamo fatto da deterrente per la realizzazione di necessarie riforme strutturali.

Seppure la stagnazione dei prezzi, il basso livello di investimenti e la debole crescita economica siano realtà innegabili per i paesi dell’eurozona, bisogna anzitutto tenere conto dell’influenza delle dinamiche dell’economia globale.

Le spinte deflazionistiche accomunano molte delle economie più mature, dal Giappone agli Stati Uniti, e il crollo del prezzo delle materie prime energetiche concorre ad aggravarle. In mercati sempre più globalizzati, queste dinamiche si rafforzano a vicenda tramite gli effetti di spillover.

Inoltre, la transizione in atto nell’economia cinese e la crisi profonda della Russia, caratterizzata anche dalle sanzioni e contro-sanzioni, sono esempi di come molti tra i principali mercati per le esportazioni europee stiano attraversando fasi di contrazione, non agevolando un miglioramento più massiccio della bilancia commerciale europea.

Al di là di questo, per valutare davvero l’utilità del bazooka di Mario Draghi, occorre chiedersi come sarebbe la situazione europea se il governatore della Bce non avesse mai imbracciato la tanto discussa arma.

Se i prezzi, i livelli di occupazione e gli investimenti nell’Eurozona sono su livelli così bassi dopo 12 mesi di politica monetaria iper-espansiva, cosa sarebbe accaduto se questa non fosse stata messa in atto, costringendo i governi in difficoltà di finanziamento a misure di austerità ancora più drastiche e di lunga durata? Gli scenari suggeriti da questo interrogativo bastano a evidenziare la necessità delle misure fortemente volute da Draghi.

La Bce non sta lesinando gli sforzi, ponendo anche le condizioni una maggiore efficacia delle politiche fiscali. Tuttavia, la “zoppia europea” che prevede una sovranità monetaria comunitaria a cui è associata una sovranità fiscale frammentata a livello nazionale, si sta rivelando un fattore fondamentale nel diminuire l’efficacia di questi sforzi.

La risoluzione di questa asimmetria diviene cruciale per il futuro dell’Europa, ma questo problema non può essere imputato a una delle istituzioni comunitarie più attive nel contrastare la sempre più preoccupante crisi europea.

Simone Romano è ricercatore dello IAI.
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mercoledì 13 aprile 2016

Invitation. 21 april 2016.

The Institute of Advanced Studies in Geopolitics and Auxiliary Sciences (IsAG)
 requests the honour of your presence for the conference
 «CEDEAO-ECOWAS: 
the first and the upcoming 40 years», to be held on
 Thursday, 21st April 2016, from 15:00 to 18:00
, in the Refettorio Hall of the San Macuto Palace, Via del Seminario 76 – Rome, 
Chamber of Deputies.

In 2015, ECOWAS celebrated its first 40 years of activity in the domains of economic, political and security cooperation. Established on the goal of reaching “collective self-sufficiency”, the Economic Community of the West African States goes on with its work for integration, supporting its Member States in facing the most recent challenges not limited to the economic sphere. This meeting will offer the opportunity to give a summary of ECOWAS’ work, by highlighting its accomplishments and the potential of African cooperation. The meeting will deal with four main themes: – regional and international cooperation for economic and trade-related promotion, focusing on EPA (Economic Partnership Agreement) with the EU and on the monetary integration of the Western African area; – new perspectives for energy and infrastructures in the area; – cooperation for collective security; – the role of Italy in West Africa and as a Mediterranean focal point for African initiatives.

Please click here to view the conference full programmepdf | jpg

Pre-registration required by April 17th through the following online form:
Collar and tie required for gentlemen. No food or beverage allowed

martedì 12 aprile 2016

Bando. Corso Dal Peacekeeping al Peacebuilding. Scadenza domande 25 aprile 2016




SCUOLA DI AGGIORNAMENTO E ALTA FORMAZIONE
“Giuseppe Arcaroli ”


Anno Accademico 2015-2016

Enti promotori

La Scuola di aggiornamento e alta formazione “Giuseppe Arcaroli”, istituita dall’ANVCG - Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra Ente Morale (D.C.P.S. 19 gennaio 1947) e dall’ANRP  - Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento, dalla Guerra di Liberazione e loro familiari  (Ente Morale D.P.R. 30 maggio 1949), è rivolta in particolare alla trattazione dei temi relativi ai diritti umani e ai conflitti, al fine di esaminare le conseguenze di questi ultimi nei confronti degli stessi belligeranti, dei prigionieri o feriti e della popolazione civile, nonché allo scopo di sottolineare che  la  violazione dei diritti umani, sempre di più, accende la responsabilità penale dei singoli di fronte alla Comunità internazionale in quanto tale.
Il tratto distintivo della Scuola è la multidisciplinarietà, caratteristica che permette di approfondire la tematica dei diritti umani nelle sue varie sfaccettature e di promuovere, inoltre, l'insieme delle attività formative in linea con le attuali dinamiche, volte ad assicurare un pieno rispetto dei diritti e dei bisogni delle vittime dei conflitti armati, a ridurre mali superflui e sofferenze inutili, nonché a facilitare il processo di riconciliazione e pace.


Corso di alta formazione anno accademico 2015-2016

Dal Peacekeeping al Peacebuilding:
gestire i conflitti per costruire la pace

informazioni e notizie sull'ottenimento di Borse di Studio per la frequentaza : scrive a
 coltrinari2011@libero.it
Scadenza delle domande 25 aprile 2016.