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martedì 3 giugno 2014

Articolo:. Guerra, Conflitti e politica

Mario Rino Me*

Guerra, conflitti e politica

“I hate war, as only a soldier who has lived it can, as one who has seen its brutality, its futility, its stupidity”. Dwight Eisenhower

 Fino alla Guerra Fredda, il divenire della storia si identifica, per lo più, con quello della guerra e poiché la storia vede gli uomini  come protagonisti, nel binomio politica e guerra, i due hanno costituito un coppia inseparabile. In effetti, la mappa della geografia politica, i singoli Stati e le istituzioni che noi conosciamo ci sono stati tramandati da un continuo succedersi di conflitti. La guerra é dunque un fattore di rilievo nell’evoluzione ciclica delle costituzioni statuali, ma anche il progresso delle società, nei momenti cruciali dello scontro tra diverse culture, è stato influenzato dal verdetto sul campo (basti pensare alle guerre greco - persiane, romano - cartaginesi, ecc). Invero, come già avveniva dai tempi della pace di Westphalia, nello iato tra le due guerre mondiali e durante la Guerra Fredda c’è stato anche un po’ di spirito di cooperazione che ha fatto progredire la costruzione del sistema internazionale. Il cosiddetto “male necessario”, come lo definiva il Barone Henry de Jomini[1], era, quantomeno accettato con rassegnazione, e veniva raffigurato come la “sanguinosa soluzione di una crisi[2]”. Ma a Thomas Jefferson, appariva anche un’arma a doppio taglio che la definiva “as much a punishment to the punisher as to the sufferer”. A fattor comune il fatto che si tratta di una polemica violenta e rischiosa, nella quale la distruzione fisica delle forze dell’avversario e quella morale della sua volontà di combattere, sfocia, in una sorta di giudizio ordalico, nel rapporto di forza che si viene a determinare. Un contesto dove, come scrive von Clausewitz “la violenza che si vuol infliggere all’avversario è funzione delle reciproche pretese politiche” e, come in un duello, “i contendenti sono spinti dalla reciprocità delle azioni, ad una tensione estrema delle forze fisiche, della fatica e della sofferenza”.  Tucidide ha definito la guerra come il “cattivo maestro ”, in quanto “portando via le comodità delle consuetudini di ogni giorno, è maestra di violenza, e rende conforme alle circostanze l'indole dei più”.[3] In epoca rinascimentale, Leonardo da Vinci, ne dava una raffigurazione pittorica nella battaglia di Anghiari, una delle opere più enigmatiche del suo genio, lasciata interrotta e pervenutaci attraverso un disegno di P. Paolo Rubens. Il dipinto “raffigura l’idea che nella folle violenza del conflitto [che, di solito, si accentua nella lotta intestina], gli esseri umani rischiano di corrompere anche gli animali”[4]. Dunque una realtà fenomenica dove le componenti immateriali, come i fattori morali, difficili da pesare, «sfuggono al sapere attinto nei libri, non si lasciano ridurre in cifre né in categorie; debbono essere veduti e sentiti.[5]». Parimenti, le dinamiche sprigionate sono difficilmente prevedibili. Soggetto all’incertezza e aleatorietà, il fenomeno bellico segue dunque un profilo non “lineare”come dicono alcuni esperti, che non si presta, data la sua complessità, a schematismi e modelli previsionali propri della guerra «a tavolino».  Quel  “camaleonte” della guerra è poi, e soprattutto, un atto politico, la cui essenza è distillata dal costrutto filosofico di K von Clausewitz. Il generale sostiene che “l’obiettivo primario[6] di tutte le operazioni militari è quello di abbattere il nemico, vale a dire distruggere le sue forze. Il che costituisce il solo mezzo di cui dispone la guerra”. Precisando che si tratta di “un mezzo serio per un affare serio”, egli aggiunge che “la guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi[7]». Vista in questa prospettiva, la locuzione “con altri mezzi” sta a significare, come ribadirà nel successivo libro VIII[8], che la guerra “non interrompe lo scambio politico” tra i contendenti. Esso, infatti, viene modulato dall’andamento dei combattimenti, dato che, non solo “la politica non si ferma alla cessazione degli scambi di note diplomatiche”, ma permea i combattimenti in quanto “la condotta della guerra è di per se fare politica”. La guerra come politica dunque, che sembra in contrasto con quanto detto prima. In breve, “la guerra deve essere coerente con gli obiettivi politici e le linee politiche coerenti con i mezzi disponibili”, in quanto “al più alto livello, l’arte della guerra evolve in indirizzi politici, che si riflettono nella condotta di battaglie piuttosto che nell’invio di note diplomatiche”.  In definitiva, egli si chiede retoricamente “non è la guerra un’altra forma di scambio di pensieri, note verbali ?”. In questa prospettiva intensità e scala (ampia o ridotta che sia ) dei combattimenti servono a inviare messaggi politici sulle proprie intenzioni[9].

Il quadro e lo schema
Michael Handel, nella sua analisi comparativa sui maestri del pensiero strategico, ravvisa che lo stratega cinese Sun Tzu del 4° secolo a.c., includendo la creatività (“creare condizioni  e circostanze”) aveva già definito un quadro politico militare più ampio di quello tracciato da Clausewitz. Quest’ultimo, infatti, pur riconoscendo la supremazia della dimensione politica si era limitato a un trattato su “waging war itself[10], senza dunque argomentare ulteriormente in termini di portata politica (interesse, posta in gioco ecc). Oltre un millennio prima, il maestro cinese, cui spetta anche la primogenitura dei principi della guerra, aveva definito la guerra come “una questione di importanza vitale per lo stato, l’ambito di vita o di morte, la strada per la rovina o sopravvivenza”, e che, come tale, doveva “essere studiata compiutamente”, dato che per poter vincere occorreva fare “tanti calcoli”. In effetti questa definizione, che, nella gravità delle parole suona anche come avvertimento, pone dei paletti alle possibilità di ricorso alla guerra. Detto altrimenti, si può ragionevolmente dedurre che, se non sussistono condizioni di necessità tali da motivarne la scelta, è bene perseguire altri approcci. Di conseguenza, questo strumento della politica non può essere utilizzato per risolvere dispute o rimostranze, rispondere a torti o questioni personali tra capi di governo e via dicendo. Purtroppo, anche dopo il periodo delle guerre “tra governi, che non coinvolgevano il popolo”, non sempre, è andata così.
Dal punto di vista socio-antropologico il fenomeno della contesa violenta è riconosciuto come fisiologico e sistematico. “E’ la politica che ha generato la guerra”, afferma von Clausewitz. Senza ulteriori elaborazioni, la domanda spontanea si sposta sul come. Tucidide nell’analisi, non solo storiografica, della “Guerra del Peloponneso” da lui vissuta come στρατηγός, ci offre una raffigurazione, oggettiva e realistica del contesto ricorrente nel divenire storico degli imperi[11]. Le ragioni più profonde che, in un clima di concorrenza tra i due poli (Atene e Sparta), portarono alla denuncia della pace sono riconducibili, egli afferma, alla ”crescita della potenza ateniese e timore che esso incuteva agli spartani“. Dunque, non le motivazioni addotte dalle parti in causa, di cui lo storico, convinto dell’immutabilità della natura umana dà un’ampia descrizione, “in modo che esse diventino un possesso dell’umanità”. Ciò al fine di far comprendere meglio gli avvenimenti “che hanno portato al più grande sconvolgimento prodottosi nel mondo greco ..e in certa misura per gran parte dell’umanità, dato che entrambi i contendenti affrontavano la guerra al culmine delle loro forze e in ogni settore dell’apparato bellico. Mentre il resto del mondo greco si schierava con gli uni o gli altri“. Appare dunque all’orizzonte il fenomeno di quella che diventerà la dialettica dell’ascesa e declino delle potenze a fronte delle sfide da parte del peer competitor di turno. Proprio le caratteristiche di ineludibilità e sistematicità del fenomeno e i risvolti dell’impiego della forza organizzata, ma pur sempre distruttiva, sono all’origine di un lungo dibattito filosofico incentrato sulla moralizzazione del ricorso a questo strumento politico, alla luce dei valori universalmente riconosciuti del bene e della giustizia. Non ultimo per rispondere anche alla domanda di calmierarne ricorrenza ed effetti. Nella sua analisi, Von Clausewitz, riprendendo, ancorché parzialmente, la teoria della Guerra Giusta di  S. Agostino, precisa che lo scopo finale “è quello di portare alla pace”[12]”. L’opera del generale prussiano, che aveva vissuto gli effetti della nuova trasformazione del “fare la guerra come ..i francesi”, per dirla alla N. Machiavelli[13], rappresenta il primo approccio sistematico allo studio alla realtà fenomenica. Essa viene osservata e dissezionata attraverso il prisma delle sue dinamiche interne, della sua pianificazione e condotta ai vari livelli, e del suo utilizzo come strumento della politica. In fatti, egli aveva percepito il fatto che, con l’applicazione di una logica di sistema, alias l’èsprit de système Napoleonico, la tipologia di guerra assoluta, ben diversa da quel “gioco vero..“, fino a ”una forma più forte di diplomazia[14]”, proprio dell’epoca pre-rivoluzionaria, era divenuta una realtà irreversibile. Nella sua opera, il fenomeno viene schematizzato in una “strana trinità” (eine wunderliche dreifaltigkeitt)[15]”di tendenze, composto “violenza primordiale, dal gioco delle probabilità e dal caso e dalla natura subordinata di strumento politico, che si affida alla ragione [16]”. Schema che, trasposto alla struttura sociale dà origine, nella consustanzialità dei componenti, alla nota trilogia composta da popolo, governo, esercito. E’ questa una raffigurazione, dal significato profondo. Difatti la violenza originaria del suo elemento di base è associabile al popolo, nella versione di demone per dirla alla Shakespeare, al tempo fronte interno e sorgente della risorsa più preziosa; nel mondo contemporaneo, si accosta alla società e opinione pubblica, il cui sostegno è sempre più necessario anche ai fini del morale delle forze armate. Al governo si associa “l’intelligenza personificata “cui corrisponde il fine politico che deve mantenere una relazione di proporzionalità (calcolo) tra la finalità e  attese di guadagno da una parte, e, dall’altra, lo sforzo militare. Probabilità e caso la rendono una “attività creativa dello spirito dove giocano “talento, coraggio, carattere”. Infine il governo che ne definisce scopi e natura. Vista in termini di flusso logico, che vede l’atto fisico del combattimento diretto da una forza mentale, talché la forza bruta, irreggimentata nell’esercito, diventa organizzata e controllata dalla ragione governativa, che la rende nella visione di Max Weber ,”monopolio dello stato”. In quest’ottica, il calcolo razionale, che rappresenta un raccordo importante alla filosofia orientale della prudenza, che consente la gestione del rischio e l’individuazione o previsione dei possibili sviluppi (o scenari, come si direbbe oggi), diventa un’esigenza cogente. Quest’ultima si traduce in una sorta di ricostruzione virtuale che si cerca di sovrapporre alla presumibile realtà .


Lo schema di von Clausewitz
Prima di addentrarsi nel ginepraio della guerra occorre dunque riflettere. E’ questo un must che il nostro autore presenta in termini perentori con un caveat che sa  tanto di avvertimento: é “imperativo ..non fare il primo passo se non si considera anche l’ultimo”[17]. Anche perché come aveva spiegato prima, “solo i grandi successi tattici portano a grandi successi strategici[18]”, detto altrimenti calma e occhio al portafoglio perché  ça coute cher. Quest’aspetto viene chiarito con una osservazione che illustra la struttura portante del suo pensiero. Egli dice “nessuno inizia, o piuttosto dovrebbe iniziare, una guerra senza avere chiaro in mente cosa intende ottenere con quell’impresa e come intende condurla. Il primo è lo scopo politico, il secondo è l’obbiettivo militare.. E’ [questo] un principio che segue il corso degli eventi, prescrive la scala dei mezzi e lo sforzo richiesto, ed esercita la sua influenza fino all’ultimo dettaglio operativo”[19]. E questo principio lastrica la strada per quella che sarà definita la catena di comando, che dovrà assicurare il continuum politico–militare tra fini politici e obiettivi militari. Nell’universo clausewitziano segnato dall’influsso della scienza newtoniana, che lo porta ad associare il contrasto alla polarizzazione del mondo fisico,  il successo in guerra, richiede la concorrenza dei fattori all’interno della famosa trilogia, per cui “ogni teoria che stabilisca relazioni arbitrarie tra i tre pilastri è in conflitto con la realtà”[20]. In effetti, quella che lui, usando un termine che diventerà di moda, definirà la “trasformazione della guerra”, associata a un camaleonte, era riconducibile “cambiamenti della società e nuove condizioni sociali”. Difatti, le nuove forze sprigionate dalla rivoluzione e la sua esportazione con la guerra a mente dell’architettura dello stato westphaliano, di profondi mutamenti, all’interno nello spaccato delle singole componenti, negli equilibri e nell’agenda politica. All’esterno, la lévée en masse, la mobilitazione delle risorse e gli schemi operativi introdotti dal “genio” napoleonico avevano fatto il resto. Proprio il genio, l’antesignano della Grand Strategy, non si spaventava per le perdite umane; ispezionando il campo di battaglia a Lipsia, si dice che abbia osservato “une nuit de Paris repeuplera tout cela”.
Lo schema clausewitziano serve a chiarire che, pur nella variabilità delle relazioni tra le parti, se non si raggiunge all’interno un equilibrio stabile e sostenibile, le cose potrebbero andare male.  Sullo sfondo dei principi introdotti da Aristotele prima nel mondo greco –latino e poi occidentale, la politica deve dunque fornire delle linee di indirizzo, da trasformare, successivamente,  in obiettivi chiari, concedere margini di manovra nonché autonomia ai militari nel preparare e mettere in atto piani operativi. Quanto alla querelle sugli scopi della guerra, un secolo più tardi, B. Liddel Hart, senza far riferimento al dibattito filosofico medievale, chiosava che lo scopo della guerra è “una pace migliore”, talché era “opportuno condurre la guerra con un occhio costante alla pace che si desidera, .. tenendo presente il prolungamento della politica alla fase di cessazione delle ostilità in vista dei benefici postbellici. Occorre dunque avere sottomano una politica rivolta al dopo-guerra, che, come si è visto nelle recenti operazioni fuori-.area, comporta impegni di rilievo. Si tratta, in definitiva, di “vincere la pace”. Difatti, concentrandosi esclusivamente sulla vittoria, senza considerare gli effetti successivi.. si rischia di rimanere esausti e di non cogliere i frutti della pace..é certo che sarà una pace non riuscita che contiene i germi  per una nuova guerra… Lezione questa sorretta da una notevole esperienza (storica)”.  Conclusioni che saranno riprese, più tardi dal pensiero di Raymond Aron, che, in forma tranchant, lancerà il suo j’accuse ai capi di governo  Alleati della seconda Guerra Mondiale, che, “pretendendo la resa incondizionata”, dunque comportandosi da comandanti militari, “non avevano inteso la differenza tra strategia e  politica”.
Von Clausewitz è stato criticato, soprattutto dalle élites britanniche, che hanno preferito seguire cultura militare e insegnamenti storici del loro paese, per aver via via identificato l’obiettivo militare[21] nella “distruzione totale delle forze avversarie“, che corrisponde alla nozione di “vittoria totale”.  Lo ripete in continuazione e nella parte del libro VIII, relativa al piano di guerra da predisporre per l’annientamento dell’avversario, richiama i due principi dell’agire: con la massima concentrazione (poche azioni, idealmente una) contro le fonti della forza avversaria e con la massima velocità. Ovviamente, il tutto rientra nel quadro generale dell’economia dello sforzo. Ciò non implica che le forze non si devono dividere nello spazio e nel tempo; le eccezioni alla regola devono essere soppesate vis à vis l’esigenza primaria della concentrazione. Quanto alle tesi che, per dirla alla B. Liddel Hart “intossicarono” il pensiero strategico germanico, si può osservare che l’autore prussiano, pur riconoscendo che l’annientamento della forza avversaria costituisce sempre “il miglior modo per cominciare”, precisa che vi possono essere, tuttavia, circostanze che modificano questo semplice assioma. Egli infatti prosegue dicendo che “occorre tenere in mente le caratteristiche dominanti dei belligeranti. Da esse può scaturire un centro di gravità, snodo del potere e movimento da cui dipende tutto. Qui occorre concentrare lo sforzo”. Di conseguenza, prendere una capitale potrebbe risultare più significativo della distruzione dell’esercito avversario, come pure sferrare un colpo decisivo contro un suo alleato più forte. Qui Clausewitz introduce la nozione importante del baricentro dello sforzo, non esclusivamente militare, che è il punto centrale di qualsiasi pianificazione operativa e non. In breve Liddel Hart, riconosceva a Clausewitz il merito di aver “messo in evidenza i fattori umani…la metodica’, ma gli rimproverava la “visione miope, ..l’idea che il combattimento fosse alla base di qualsiasi attività militare..di aver inculcato idee astratte e assolute (come la distruzione delle forze)..di incitare i generali a cercare battaglie decisive alla prima opportunità senza considerare favorevole..la dimostrazione logica di tesi sbalorditive (c’è un solo mezzo, la battaglia) salvo poi ammettere anche eccezioni (l’obiettivo può essere ottenuto anche senza combattere[22]”). Poi, l’affondo, “come spesso succede i discepoli di Clausewitz portarono i suoi insegnamenti agli estremi più di quanto egli volesse[23]”. Ma non ha voluto infierire su alcuni aspetti dogmatico-aprioristi, come la scarsa considerazione all’intelligence (l’intelligence “può accorgersi della realtà occasionalmente e [solo] un gran coraggio può far recuperare da un abbaglio… tutte le informazioni sono soggette al dubbio[24]”), ancora dubbi sull’applicabilità della teoria degli “obiettivi  limitati “ in quanto la levée en masse del post 1792 , a Valmy, aveva messo in luce che “le lancette dell’orologio non possono tornare indietro”  ). Se Jomini rinfacciava al suo contemporaneo di essere “una penna vagabonda[25]”, L. Hart ritiene che Clausewitz si sia cercato da solo questi duri commenti; forse perché la sua cultura del keep it simple non perdona linguaggio involuto, logiche tortuose e  la retorica bellicista (l’idea che solo grandi generali possano vincere grandi battaglie). Per contro, il Britannico  privilegia, in nome del fine supremo, gli aspetti “meno nobili” (opportunismo tornaconto, artifizi vari ecc). Poi c’è un altro aspetto: la natura della guerra e delle metodiche che cercano di controllarla richiede la disponibilità di opzioni. Nella vulgata il “piano B”. Liddel Hart attribuisce a Napoleone Bonaparte, formatosi nella cultura settecentesca francese, il detto di “faire son thème en deux façons”.
Resta il fatto che il pensiero dominante dell’opera clausewitziana ha trovato terreno fertile nella cultura militare prussiana, tra le più muscolari. Difatti, mezzo secolo più tardi Von Moltke il vecchio di fronte alle richieste di natura umanitaria di diminuire la violenza degli scontri, replicava che “in guerra, il più grande atto di gentilezza che si può compiere è quello di portarla alla rapida conclusione”. In effetti il fautore della teoria dello ”indirect approach” e delle strategie attendiste di “Obiettivi limitati” propugnando concetti  non ortodossi, propone nuovi schemi e amplia le opzioni. Come  l’adozione di manovre seguendo direttrici inattese, per poter produrre il noto “cambiamento del fronte“, causando in tal modo, oltre agli effetti psicologici, la dislocazione strategica avversaria; oppure soluzione innovative, ad esempio, quando la sconfitta dell’esercito avversario non é perseguibile (per numeri ecc.) lo sforzo bellico può essere corroborato dalla messa in campo forze diplomatiche[26]. In breve la visione del britannico si può condensare nell’acquisizione di un vantaggio decisivo, fermo restando che, contrariamente a quanto sostenuto dal citato von Moltke il vecchio, la politica può intervenire operazioni durante cambiando le linee di policy.

Il quando
Per risultare efficaci e opportune, le azioni vanno fatte al momento giusto. La saggezza popolare (conventional wisdom) ricorda poi che c’è un tempo per tutto, e l’appropriata sequenza delle decisioni prese può rappresentare tanto se non proprio tutto. Il problema della definizione della tempistica dunque. Qui Federico il Grande può impartire una lectio magistralis. Questi era un profondo conoscitore del suo tempo, che, in virtù di un equilibrio nato con la pace di Westphalia e consolidatosi circa sessant’anni dopo con i vari trattati di  Utrecht[27], era caratterizzato dall’esistenza di una ”ordinarie égalité des forces” tra le potenze dell’epoca. Egli osservava realisticamente che “tutto quello che i principi possono ottenere [in una guerra, ndr] attraverso un cumulo di successi si riduce a una cittadina di frontiera o una periferia , che, anche a fronte delle perdite,  non ripaga lo sforzo bellico..”. Ragion per cui non restava che seguire una regola prescritta dalla ragione, “ cui nessun uomo di stato può sottrarsi: cogliere l’occasione e agire quando essa è favorevole, ma senza forzare, abbandonando tutto al caso. Ci sono dei momenti che richiedono di agire decisamente per cogliere l’opportunità, ma vi sonno anche altri momenti in cui la prudenza suggerisce di fermarsi[28]”. Il sovrano dunque, seguendo Machiavelli in materia di ragion di stato, invocava il principio dell’opportunità-opportunismo, e creava il precedente a quelli che qualche secolo più tardi vennero definiti i ”giri di valzer” che sparigliavano le alleanze. Nella trattazione della guerra offensiva\difensiva con scopi limitati, che sottintende dunque la possibilità di controllare il fenomeno, Clausewitz, discute sul da farsi allorquando, le circostanze escludono la possibilità di sconfitta dell’avversario. Qui, il nodo da sciogliere è rappresentato dalle prospettive future. Rapportato ad oggi, il contesto delle operazioni contemporanee di risposta alle crisi, in cui il tempo lavora per l’insorgenza, appare associabile allo scenario favorevole per l’avversario, che rende l’impresa alla stregua di una rincorsa contro il tempo; in questa situazione, egli sostiene che si deve prendere l’iniziativa, nel senso di “sfruttare i vantaggi del momento”. Del resto, la guerra difensiva, che si associa al guadagnare tempo, non esclude controffensive. Lo stesso vale in caso di scenario di futuro indeterminato, in quanto, possedendo l’iniziativa politica, si gode di uno “scopo attivo”, che deriva dalla condivisione delle politiche di ricostruzione con le autorità del paese assistito. Il fatto che ne sia valsa, oppure no, la pena di intervenire è un’altra cosa; da questo punto di vista, la visione di Clausewitz, “romantica“ per dirla, correttamente, alla Bernard Broodie, non sempre tiene conto degli aspetti, a volte cinici e poco eroici, dell’interesse nazionale[29] o di espedienti non degni del “furor d’inclite gesta”. Il tema centrale della decisione verrà poi ripreso da Lenin e da Beaufre che nella definizione a lui cara della strategia[30], vede la vede come “avvenimento [oggi  si direbbe effetto, n.d.r.] di ordine psicologico che si vuole produrre sull’avversario: convincerlo che gettarsi nella lotta o proseguirla è inutile.. attendere di decidere sfruttando una situazione che porta alla disintegrazione morale  sufficiente a fargli accettare condizioni”[31]. Naturalmente questo può essere ottenuto con la vittoria militare sul campo, ma, a volte, come detto a proposito delle “guerre irregolari“, per dirla alla Gérard Chaliand, questo non è sempre possibile. Per cui si richiedono altri mezzi e allargando l’ambito alla “psicologia dell’avversario si possono trovare dei fattori decisivi”. Conta la decisione nel momento cruciale, che può compensare precedenti rovesci; ma le logiche del “ora o mai“, che, come ricorda il citato Broodie avevano portato il Giappone a sferrare un attacco di sorpresa Pearl Harbour[32], danno l’idea dei “pericoli connessi con le linee d’azione condizionate” da questi stati d’animo. Se da un lato, le decisioni vanno poi viste, ex-post, a fronte delle circostanze che le hanno determinate, la considerazione della dimensione psicologica porta sia nel campo della dissuasione, o deterrenza, propria della minaccia politica dell’uso del nucleare, sia nelle logiche rivoluzionarie del logoramento.  A questo proposito Lenin, che aveva anch’egli studiato Clausewitz, è noto per aver intuito che questo momento è dominato dagli aspetti psicologici. Egli in una frase molto citata scrive “ritardare le operazioni fino a che la disintegrazione morale del nemico rende contemporaneamente possibile e facile assestargli il colpo decisivo”[33]. Lenin rigettava dunque la predetta logica stringente, allorquando “l’ora” in questione si collocava in una situazione “sfavorevole per l’azione offensiva”.

E oggi ?
L’economia è divenuta di fatto una forza politica trainante, e detta l’agenda anche ricorrendo a maniere forti (Vassilis Vassilakis, parla di “dispotismo dell’economia”). Cambiati contesti e circostanze, si riscopre che la guerra è un fenomeno endemico. Durata e costi degli interventi in Iraq e Afghanistan, hanno demolito alcune certezze come la fattibilità di operazioni militari a zero morti, on the cheap. Le guerre “irregolari” contemporanee sono diventate complesse: asimmetriche, all’interno degli stati e dunque civili e poliedriche con la partecipazione di molti attori e sotto lo della giurisprudenza internazionale e dei media. Dove la sintesi e l’estetica portano a semplificazioni, non sempre coerenti con la realtà. Peraltro, prevale a volte l’interesse a non raccontare la vera storia, se non, addirittura, menzogne per forzare la mano.  La guerra non é più il bellum tomistico (contra extranes hostes, inter nationes liberas, multitudo ad multitudinem) e “trinitario”, per dirla alla van Creveld, e presenta nuovi aspetti  che mettono in discussione la teoria clausewitziana. Da tempo, le grandi potenze, ma anche le medie, anche a causa dell’interconnessione delle economie, sono nelle condizioni di non potersi permettere di fare più  la guerra tra di loro. Usando l’analogia usata per i colossi bancari (troppo grande per fallire), dalla fine della seconda Guerra Mondiale, le grandi potenze sono oramai “troppo grandi per combattersi”. La violenza organizzata, ma sempre più vincolata, propria delle legittime entità istituzionali annaspa di fronte alla violenza portata dagli insorti, e, con il ricorso al terrorismo, raggiunge gli estremi. Nel frattempo, il centro di gravità si è spostato alla popolazione, non più blocco monolitico, nelle cui “acque”, per dirla alla Mao, nuota la guerriglia, e che, nella ricostruzione della struttura statuale e societale, le forze legittime cercano di portare dalla propria parte, nel quadro di quella che viene chiamata ”la conquista dei cuori e delle menti”. Vecchi schemi di interpretazione, soggetti alle sfide dei nuovi contesti, sono saltati o devono essere riadattati.

 Le nuove sfide
Il fire power tradizionale deve essere accompagnato dalla capacità di restare in zona per completare l’opera, ed ecco allora il nuovo concetto dello staying power[34]. Da usare però quanto basta, anche perché se si è percepiti come occupanti, iniziano i pasticci. Ma se la “mala bestia” dei conflitti sembra molto più difficile da domare, restano, tuttavia, in piedi alcuni principi. Ad esempio, quello tipicamente  clausewitziano della distruzione delle forze si applica selettivamente privilegiando, con un mix di forza e dialogo, l’annichilimento della volontà di combattere delle parti anti-governative. Difatti, nella continuità clausewitziana dei rapporti tra i duellanti, una delle lezioni apprese nella lotta all’insurrezione armata consiste nell’aumentare il canale di scambio con l’organizzazione politica del movimento ostile alle forze governative. Senza poi trascurare il fatto che quello che il generale G. Templer[35] definiva  “the shooting side of the business” è una delle parti dell’intera impresa, forse la più difficile. Anche perché le nuove tecniche di contro-insurrezione sono rivolte a due generi di audience con l’intento comune di tranquillizzare: l‘opinione pubblica di casa e la popolazione assistita. Ma servendo due padroni si rischia di rivivere la vicenda di Arlecchino. In breve, pazienza e una combinazione di attività armata e di negoziazione. Con le nuove dottrine, concetto quest’ultimo che merita una riflessione a parte visto il loro  carattere non dogmatico[36], si riscopre poi l’originale approccio italiano a questo genere di conflitti, basato su una presenza attiva nella società del paese da sostenere. Iniziata dal generale Franco Angioni nella crisi libanese dei primi anni 80, si è sviluppata e perfezionata seguendo uno sviluppo dal basso (bottom up). A H. Kissinger viene attribuita l’apparente gioco di parole in base al quale ”finché le forze regolari non vincono, esse perdono, per contro, finché la guerriglia non perde, essa vince”. Egli apre dunque la questione della definizione di successo in questi scenari. Ho detto successo in quanto nel confronto militare tradizionale c’è sempre stato un verdetto, ancorché a volte sfumato. Figuriamoci nello scenario magmatico evocato da Kissinger, decisamente diverso dal conflitto di tipo tradizionale incentrato sulla vittoria sul campo. In breve, ancor più che nel passato, non c’è un risultato netto in bianco e nero, di vittoria o sconfitta, ma uno spettro di possibili risultati che non possono essere riconducibili a un semplice e generico end-state, ripetuto come una litania.
Premessa la sconfitta militare delle forze avversarie e dell’infrastruttura di sostegno, il modello seguito dagli USA, e, per esteso dal sistema di Alleanze riconducibile alla politica estera di Washington,  si è articolato su una serie di attività che si snodano dal controllo dello stato e istituzioni del paese, divenuto nel frattempo assistito, alla riforma del suo sistema politico e di governo, alla ricostruzione dell’economia e infrastruttura, al riallineamento della politica estera e all’impianto di una nuova relazione strategica[37]. Se da una parte gli interventi in Iraq e Afghanistan hanno sortito il successo politico –militare dell’abbattimento dei rispettivi sistemi dispotici, le difficoltà incontrate nel colmare il vuoto nella fregola del regime change, il pesante tributo di vittime, le enormi risorse profuse vis à vis le incertezze del post- presenza militare, pongono governi e opinioni pubbliche di fronte alla domanda se ne sia valsa o no la pena di intervenire, considerando anche gli impegni dopo il ritiro. In definitiva occorre definire una cornice concettuale per definire la relazione di costi benefici connessi con l’intervento militare, che sancisce, per definizione, l’elevato livello di interesse per il paese e i conseguenti obblighi operazione durante e dopo il disimpegno militare.  In Afghanistan, dopo i frequenti episodi di fuoco amico, a quanto risulta dalle ultime cronache, le Forze armate di quel paese incontrano difficoltà nel frenare l’emorragia di diserzioni, bassi tassi di reclutamento che obbligherebbero le autorità nazionali a sostituire annualmente il 30% degli organici[38]. Senza poi trascurare il venir meno alcuni capisaldi, come il coinvolgimento dei talebani, per cui si sta consolidando l’opzione per  approcci che contemplano un maggior coinvolgimento afgano. Il che complica l’intero impianto della exit strategy dell’Alleanza Atlantica.


Conclusione
Oggi, nel contesto del complesso fenomeno della globalizzazione, sono aumentati i campi del confronto  (si pensi, al malware cibernetico[39]);  mentre sull’attacco armato non c’era alcun dubbio interpretativo, oggi si richiedono pertanto nuove e chiare definizioni su cos’é un’aggressione e se, in che misura e come si possa contrastarla rimanendo in una cornice di legittimità. Su questa tela di fondo, van der Dennen, definendo le linee di politica  come “la continuazione della guerra con altri mezzi[40]”, inverte, paradossalmente, i fattori. Politica come guerra dunque anche se non sottesa da logiche di “potenza” per dirla alla Aron (guerra dei cambi, guerre commerciali ecc). Pace e guerra, secondo lui, non differiscono, quantomeno teoricamente, nei fini, ma nei mezzi per conseguirli; resta però il fatto che le due formulazioni esprimono il perdurare, in tutti i campi, di una competizione ad ampio spettro, condotta con una vasta gamma di mezzi, violenti e non. In effetti, il consolidarsi nel tempo del sistema internazionale, delle democrazie e delle società, tutti meno inclini alla guerra in linea con le tesi Kantiane della pace perpetua, riprese nel 900 da B. Angell[41], molte cose sono in meglio. Ciò grazie anche alla costante tendenza verso sistemi più democratici, all’opera sistematica di educazione al controllo della forza, all’affermazione degli studi nel campo delle scienze socio-politiche, che hanno contribuito a meglio definire le interrelazioni tra le parti della citata trilogia, e, non ultimo, alla definizione del quadro normativo in tema di controllo democratico e direzione politica delle forze armate. Ma l’altro lato della medaglia evidenzia che dopo i fatti dell’11 settembre 2001 e degli anni successivi, il fenomeno dell’insurrezione su scala nazionale, ha dimostrato che gli Stati non hanno più il monopolio della violenza organizzata. Non è venuta meno, tuttavia, anche in ambito multilaterale, la non infrequente interferenza politica, e non solo, su questioni di livello tecnico-gestionali, di squisita pertinenza militare. Anche per la politica, pertanto, ci sono momenti in cui essa deve ritirarsi. Nelle strutture organizzative stratificate, la predetta tendenza alla verticalizzazione dall’alto in basso, viene definita con il termine “micro management”, già presente in passato e come tale stigmatizzato dalle icone del pensiero strategico[42]. Sfasamento politico-militare, mezze misure militari e tiepido sostegno politico, avversione delle società a imbarcarsi e sostenere imprese di cui non si percepisce necessità, interessi e\o posta in gioco (anche perché non sempre ben informate o preparate, n.d.r.), nonché scarsa conoscenza delle culture \società locali, sono all’origine di tante amare esperienze di quest’ultimo cinquantennio. Già mezzo secolo fa Raymond Aron sosteneva che  “les Europèens voudrayent sortir de histoire, la grand Histoire qui s’écrit en lettres de sang”, che è all’origine di un diverso approccio alla storia tra le due sponde dell’Atlantico. Non sempre si è dato ascolto alle lezioni del passato e agli avvertimenti dei grandi del pensiero strategico. Le cui opere, nonostante alcune diversità, riconducibili allo spirito del tempo, mettono in evidenza una continuità di pensiero, che ci offre un insieme armonico di regole, esperienze conoscitive e tecniche, in cui il valore aggiunto del fattore umano è costituito dalla creatività e flessibilità nell’interpretarle e metterle in pratica. In breve una chiarezza intellettiva, preparazione, buon senso ed equilibrio delle persone che le hanno avute in dote, e del sistema socio-culturale che li ha prodotti. In estrema sintesi, l’uso, orale o scritto che sia, del linguaggio strategico ha una diffusione generale, che precede codificazioni storiche; inoltre, lo scrivere con giudizio e buon senso, dote che assomma le qualità del sapere e della comunicazione, travalica le barriere dello spazio e del tempo. Alla luce delle nuove realtà, resta tuttavia da riconcettualizzare il modello di intervento sin qui seguito per l’assistenza ai paesi in cui si è intervenuti, attagliandolo al fattibile e non al desiderabile.
Per concludere, il Feldmaresciallo Bernard Montgomery[43] riporta nel libro da lui curato un detto di Mao Tse Tung, che, a tal proposito, sosteneva : “Tutte le leggi e le teorie militari che sono nella natura dei principi,rappresentano l’esperienza delle guerre combattute dai popoli nel passato o nei nostri giorni. Ne dovremmo studiare seriamente queste lezioni, pagate col sangue che costituiscono l’eredità delle guerre passate. Questo è un punto, ma ve n’è un altro. Noi dovremo sottoporre queste conclusioni al vaglio della nostra esperienza , assimilare tutto ciò che è utile, respingere ciò che è inutile e aggiungere quanto specificamente nostro. Quest’ultima cosa è molto importante, perché, altrimenti , non potremmo  condurre la guerra. Leggendo s’impara, ma anche applicando s’impara: è anzi la migliore maniera per imparare”.


  • Mario Rino Me



[1]   Henry de Jomini, Sunto sull’arte della Guerra, Stamperia Reale Napoli 1855, pag 9. (l’edizione originale in francese risale al 1835). L’autore, nel lamentare l’eccessiva attenzione agli apostoli della pace perpetua, osserva, parafrasando Hegel , che la guerra non solo serve a “innalzare o sollevare gli stati ma sibbene per garantire il corpo sociale dalla dissoluzione”. Detto altrimenti, il pericolo unisce.
[2]   Karl von Clausewitz, On War ,edited and translated by Michael Howardand Peter Paret, Everyman’s Library, London , 1993,   libro I pag 57 (?)
[3]  Tucidide La Guerra del Peloponneso, libro III 82,2° cura di Luciano Canfora, Einaudi-Gallimard, 1996
[4]   Roberto Esposito, La Repubblica 20 Agosto 2012. L’impressione pittorica della battaglia del 1420 , vinta dai fiorentini sui milanesi , rappresenta l’eccesso che conduce gli uomini a perder sial culmine della loro spinta.. i cavalli partecipano allo scontro con la medesima furia dei cavalieri con cui fanno tutt’uno, assalendosi a vicenda” in contrasto con le leggi della natura.
[5]   Karl Von Clausewitz, On War , libro III cap 3
[6]    Nella versione in inglese “Grand Objective
[7]    Klaus von Clausewitz, On War , Translated by Michael Howard and Peter Paret, Everyman’s Library, pag 38
[8]  Scritto circa 10 anni più tardi rispetto all’edizione del manoscritto sulla teoria della guerra (1816-1818). Se nei capitoli precedenti l’autore si dilungo sul legame strategia –tattica, il cap. VIII tratta gli aspetti politico-militari, rendendolo, sotto certi punti di vista , il più interessante. Esso si conclude con un piano di guerra che doveva rispondere alla situazione che vedeva la Prussia presa a tenaglia tra Francia e Russia. Situazione che diviene una costante e che troverà diverse risposte. Von Moltke, il vecchio, raccomandava guerra difensiva ad Ovest e offensiva ad Est. Von Schliffen, optò per il contrario, con il risultato, nel 1914  di impantanare la macchina bellica tedesca  a causa dei problemi tattici, che non consentirono i risultati operativi e, nell’aggregato, strategici. E’ ben vero che la famosa ala destra fu alleggerita di due corpi d’armata (contrariamente a quanto raccomandato dal suo fautore che, a quanto si racconta, in punto di morte raccomandò l’attenzione a quel settore) Ciò in relazione alla penetrazione in profondità dei russi nella Prussia orientale. Da rilevare infine che fu proprio l’invasione del Belgio a far rompere gli indugi alla Gran Bretagna che dichiarò la guerra(errore strategico dunque) , e che i due predetti corpi d’armata non furono mai impiegati . Erano ancora nei loro treni quando avvenne la battaglia dei Laghi Masuri e di Tannenberg
[9]    In questa prospettiva , l’estrema prudenza italiana nella condotta delle operazioni nei primi mesi successivi all’entrata in guerra a fianco della Germania, fu sicuramente interpretata da parte britannica come non convincente.
[10]     Michael Handel, Masters Of War: Sun Tzu, Clausewitz, Jomini”, Frank Kass, London 1992, pag. 32.
[11]    Tucidide, La guerra del Peloponneso, Edizione a cura di Luciano Canfora, Einaudi Gallimard, Parigi1996, 1-144.
[12]   Karl von Clausewitz,   libro II cap 5
[13]   Nicolò Machiavelli, Discorsi Libro Secondo capitolo 6 (Come i Romani procedevano nel fare la guerra), Opere a cura di C.  Vivanti, Ed Einaudi-Gallimard . A proposito Jacopo Guicciardini  scriverà “Innanzi al 1494 erano le guerre lunghe.. Vennono e' Franzesi in Italia e introdussono nelle guerre tanta vivezza in modo che insino al '21, perduta la campagna, era perduto lo stato” . La blitz Krieg nasce dunque con Carlo VIII che aveva curato la spedizione curando tutti i particolari (antesignano anche del comprehensive approach e dello shock and awe ) http://www.italica.rai.it/scheda.php?monografia=rinascimento&scheda=rinascimento_categorie_guerra
[14]    Karl von Clausewitz, libro VIII, cap3.
[15]  Ibidem , libro primo, paragrafo 28. Nelle varie traduzioni, appare anche come “rimarchevole”, o “paradossale  trinità”.
[16]    Karl von Clausewitz, libro I , La natura della Guerra, che cos’è la Guerra.
[17]   Karl von Clausewitz, On War, pag 584
[18]    Ibidem,    Libro IV, cap. 3, pag 238.
[19]    Absolute war and real war
[20]    Ibidem libro primo para 28.
[21]  Era partito con  “l’obiettivo della Guerra in astratto ….disarmare l’avversario” che, in un crescendo arriverà all’estremo della scala.
[22]    Questo cardine dell’opera di Sun Tzu , sara’ ripreso nello Strategikon dell’imperatore Maurizio, opera forte anche di contenuti etico-morali. Egli scrive “La guerra è come la caccia[dove] le prede vengono catturate con esplorazioni , trappole , appostamenti accerchiamenti e altri stratagemmi del  genere..Il generale… [che] studia con  attenzione l’avversario, ..é in grado guardarsi dai suoi  punti di forza..e di trarre vantaggio dalle sue debolezze..Tentare di sconfiggere il nemico in campo aperto..corpo a corpo..significa condurre un’impresa rischiosa e dispendiosa. A meno dicasi di assoluta necessità..é assurdo tentare di ottenere una vittoria così a caro prezzo che porta inutile gloria. (Strategikon Maurizio Imperatore, a cura di Giuseppe Cascarino, il Cerchio,  Rimini 2006, pag 78-79). Queste tesi saranno riprese nell’Arte della Guerra da N. Machiavelli in questi termini: “Meglio è vincere il nimico con la fame che col ferro, nella vittoria del quale può molto più la fortuna che la virtù”.  Si dice che questo testo fosse studiato nelle scuole militari del 6-700 e che fosse capitato tra le mani di Napoleone. Di certo nell’epoca romatica  tutto ciò che era riconducibile a Bisanzio non suonava bene. Eppure, grazie a una Grand Srategy nazionale l’Imperò durò circa un millennio stabilendo un primato
[23]    Basil Liddel Hart, Strateg, Second revision, A  Meridian Book, London 1970, pag 338-340. Ironicamente aggiunge “Il fraintendimento é il comune destino della maggioranza dei profeti e dei pensatori. A proposito, secondo lui  il tedesco è un codifying thinker più che uno creativo o dinamico”.
[24]     Karl von Clausewitz, On War, Libro I, cap 3,  pag 117
[25]     Henry de Jomini, Sunto dell’Arte della Guerra, prima traduzione dal Francese dell’edizione di Parigi del 1838, Stamperia dell’Iride, 1855, pag   20
[26]     B. Liddel Hart, Strategy, second revised edition, Meridian Book, London 1991 , pag324-328.
[27]  65 anni dopo la pace di Westphalia che conteneva l’importante riferimento del “ad servandum in Europa Equilibrium”, nei numerosi trattati di cui si compone la pace di Utrecht,  le quattro potenze emerse dalla guerra di successione spagnola, Francia-Gran Bretagna-Repubblica Olandese- Austria, in una sorta di formato P4, accorpando i loro interessi a mò di un’unico fascio, stabilirono nella sostanza che le pretese di qualunque  altro stato (a partire da quelli piccoli come la Savoia e la Prussia) dovevano sottostare alla loro approvazione in nome del predetto equilibrio. Il che rendeva scontenta la parte spagnola. Nasceva così il balance of power, che con il tramonto dell’Olanda e la comparsa della Russia, rimarrà in piedi per tutta la durata della Santa Alleanza.  
[28]    Memoires de Frédric Roi de Prusse, ‘Ecrites par Lui-meme”, ed. Henri Plon 1866, pag 10.
[29]   Bernard Brodie, nei suoi commentari, che lui definisce “guida alla lettura”, all’opera Clausewitziana tradotta da Peter Paret e Michael Howard , ne fornisce un ampio resoconto e una chiave di lettura moderna. Anche perché i tanti  riferimenti a Federico il Grande e altri protagonisti d’antan presuppongono una conoscenza della storia del loro tempo. 
[30]  “L’arte della dialettica delle volontà che impiegano la forza per risolvere i loro conflitti”. André Beaufre, Introduction à la Stratégie, Hachette, 1998, pag. 34.
[31]    ibidem
[32]  Non rivelatosi decisivo Sia perché basato su assunti errati (accettazione USA del fait accompli) sia per averlo incentrato sulla componente militare delle portaerei. Queste ultime al momento dell’attacco erano in mare , per cui il raid giapponesi sortì l’affondamento e il danneggiamento di vecchie navi da battaglia, che  furono riparate o sostituite.
[33]   Questa frase viene riportata da Beaufre , citata Vue d’ensemble de la Strategie , pag 420, e ripresa negli stessi termini e commenti da Broodie.
[34]   Alexandra de Hoop Scheffer, L’Iraq en quete de sens, http://www.ceri-sciencespo.com/cherlist/hoopscheffer/maghreb_machrek07.pdf
[35]    The Economist, Modern Warfare, edited by Benjamin Sutherland, pag 273-276.
[36]   Da considerare una guida nel dominio dell’agire, più che una serie di regole rigide,  tipo catechismo. In breve una sorta di cornice di riferimento.
[37]    William C. Martell, Victory in War, Cambridge University Press, New York, 2007, pag 137-144.
[38]    Rod Nordland, Afghan’s Army Turnover threatens US Strategy, NYT ,Oct 15 2012
[39]   Vedi A new Kind of Warfare, Editorial ot the Times, NYT  9 Sept 2012.
   [40]  Joham MG van der Dennen,  On War: Concepts, Definitions, Research data: A short literature Review and Bibliograpphy,http://rechten.eldoc.ub.rug.ni l/FILES/root/Algemeen/overigepublicaties/2005enouder/UNESCO/UNESCO.pdf.
[41]   Bernard Angell, The Great Illusion, 1910. L’autore, che nel suo libro “La grande Illusione “ sosteneva la futilità della guerra, non faceva tutavia previsioni sulla scomparsa del fenomeno. Egli sosteneva che commercio e industria erano le fonti del benessere e non lo sfruttamento di popolazioni sottomesse. L’illusione era riconducibile agli apparenti i guadagni del colonialismo con guerre di conquista ecc . Nel 1933 , dopo la riedizione del libro, in cui, con l’avvento della Società delle Nazioni , introduceva la nozione di sicurezza collettiva, fu insignito del premio Nobel. http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/1933/angell.html
[42]  Von Clausewitz  descrive la situazione in questi termini “ se l’uomo di stato guarda a certe mosse e attività  militari, che sono a lui estranee, allora la politica  influenzerà le operazioni al peggio”.
[43]   Bernard Montgomery, Storia delle Guerre, Rizzoli, Milano ,1970, pag. 17.

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