La Rivista può essere chiesta a: sqgreteriagenerale@istitutonastroazzurro.org
martedì 19 marzo 2024
sabato 9 marzo 2024
Valentina TRogu Aspetto sociologico della deterrenza nucleare
In
sociologia la deterrenza viene studiata nell’ambito delle teorie della devianza
inserite in un contesto criminologico. Lo studio delle problematiche legate
all’ordine sociale ha portato alla definizione di una prima teoria sociologica
basata sull’analisi dei comportamenti criminali dovuti a scelte deliberate.
Tale teoria della scelta razionale[1]
dei criminologi Cornish e Clarke presuppone che le persone tendano ad attuare
strategie individuali libere nella decisione di compiere un’azione criminale
valutando i benefici che si potrebbero trarre dalla condotta deviante. Un
insieme di elementi, dunque, interviene nel processo decisionale in base al
quale si effettua un’accurata analisi dei costi e dei benefici dell’opportunità
criminale. Le variabili dipenderanno dalle abilità cognitive e dalle
informazioni a disposizione del criminale e risulteranno determinanti
nell’elaborazione del modello strategico da seguire. Secondo questa teoria, le
persone agiscono per libero arbitrio ma è necessario introdurre nello schema
altri fattori come il background personale – competenze, capacità individuali,
personalità, educazione – e i fattori situazionali – dipendenze da alcool e
droghe, forti pressioni esterne, estrema vulnerabilità del soggetto. Le scelte
dei soggetti, poi, sono legate a due fondamentali presupposti, la
disorganizzazione sociale e il controllo sociale. Il primo concetto porta alla
constatazione che i desideri e bisogni personali possano essere soddisfatti
mediante azioni illegali. Il secondo presupposto, invece, sottolinea il calcolo
di costi e benefici dell’azione deviante o legale con conseguente scelta della
via più conveniente da seguire. Con il concetto del controllo sociale si
introduce la Teoria del deterrente, sviluppata intorno alla metà del XX secolo.
Secondo questa teoria, l’idea di una punizione dovrebbe fungere da deterrente
all’attuazione di azioni criminali. Non si nasce criminale ma la devianza è
frutto di scelte legate ai benefici e ai costi. Nel momento in cui la
possibilità di incorrere in una punizione dovesse risultare maggiore rispetto
al raggiungimento di presunti benefici, il soggetto sarà portato ad invertire
la tendenza deviante e rispetterà la legge. Ad una sanzione più severa
corrisponderà, secondo i teorici della deterrenza, un potere deterrente più
elevato, ci si allontana, dunque, dal pensiero di Beccaria[2]
secondo il quale la gravità del reato e la pena dovessero equivalersi.
Partendo
dalle tematiche della devianza sociale che sottolineano l’intervento razionale
e irrazionale nell’orientamento del processo decisionale si arriva a
considerare l’importanza che il pensiero di una possibile azione della
controparte detiene per il compimento di specifiche scelte. Il riferimento è
alla Teoria dei giochi e alla spiegazione sociologica che ne viene data. La
lettura vede le decisioni strategiche legate a ciò che fa o che potrebbe fare
l’altro. L’attenzione si concentra, dunque, sull’interdipendenza dei giocatori
e sulle attese che ognuno ha nei confronti dell’avversario/alleato.
Allargando
i concetti citati ai contesti internazionali, l’uso della deterrenza tra
nazioni, così come è avvenuto durante il periodo dell’Equilibrio del terrore,
diventa più comprensibile. Le minacce del compimento di una azione dai risvolti
devastanti sono servite per prevenire tali azioni prima che accadessero. Al
pari del singolo individuo, uno Stato valuta costi e benefici di una azione
intesi in termini di guadagni, aspettative, ammontare dei costi materiali e
non, la possibilità di una perdita del proprio status e del potere rivestito,
tutti elementi che saranno determinanti nel stabilire l’azione successiva. In
conclusione, se le minacce e i calcoli strategici dovessero colpire nel segno
come conseguenza si avrà un’inazione
dell’altro.
giovedì 29 febbraio 2024
La Gestione delle crisi internazionali
Ten. cpl. Art. Pe. Sergio
Benedetto Sabetta
L’attuale
crisi politico ed economica che investe tutto l’arco del Mediterraneo unita
alla pressione demografica dalle aree del Sud, i traffici che questo ha
permesso di sviluppare, hanno portato al riemergere delle problematiche di
intervento già manifestatesi nei primi anni ’90 del Novecento con il crollo del
sistema bipolare.
L’inserirsi di una ulteriore destabilizzazione
politica in Ucraina e le rivendicazioni di nuovi potentati locali nelle varie
parti del globo hanno reso ulteriormente complicata la scena, a questo si è
aggiunta una profonda crisi economica unita al diffondersi di una tecnologia di
comunicazione più ampia e a buon mercato, disponibile globalmente in settori
sempre più ampi con conseguenti effetti di vasi comunicanti, è riemerso quindi
l’interesse ad una analisi non solo economica dello scenario mondiale, secondo
un filone che dalla crisi del “Golfo Persico” dei primi anni ‘90 del Novecento
si succede fino all’attuale crisi del bacino del Mediterraneo.
Il nostro
sistema internazionale è articolato in una dimensione globale ed in una
dimensione regionale, i due sistemi hanno caratteri peculiari in quanto si
organizzano con regole e istituzioni diverse, fino agli anni Cinquanta la
prevalenza era costituita dalla dimensione globale conseguenza dei vasti imperi
coloniali e dell’accentramento del potere economico, tecnologico e militare
nelle mani di pochi stati, con la decolonizzazione sono entrate nella scena
internazionale innumerevoli nuove entità statali, le quali hanno
progressivamente rivendicato un proprio ambito di influenza.
Si è
cominciato a parlare di regionalizzazione del sistema internazione e ci si è
accorti di una diversa sensibilità dei sottosistemi geografici ai processi in
atto del sistema globale. I criteri per la delimitazione di queste regioni,
sono la continuità e l’isolamento geografico, la comunità storico-culturale ed
economica, infine una elevata interdipendenza politica.
Le
organizzazioni locali relazionano tra loro in un’altalena di cooperazione -
conflittualità e quanto maggiore è la cooperazione tanto minore è la
possibilità di influenza nella regione per potenze esterne, comunque si dovrà
sempre tenere presente che,in ultima analisi, sono sempre le èlite degli Stati
regionali a dettare i criteri del loro agire, anche in opposizione ai dettati
dei governi esterni, occorre, inoltre, considerare l’ipotesi sempre più frequente
che uno stesso Stato sia coinvolto in più regioni, come può accadere nel
Mediterraneo o nel famoso “arco della
crisi” che va dal Mar Rosso al Golfo Persico fino a ricongiungersi col
Mediterraneo.
Si può
concludere affermando che la politica internazionale di un’area è la risultante
delle politiche esterne degli stati che ne fanno parte e dei processi e delle
pressioni politiche operanti nelle regioni confinanti, ma è anche causa, in
quanto retroagisce, delle politiche delle regioni circostanti.
Secondo la concezione classica,
derivante dalla Seconda Guerra Mondiale, del sistema internazionale come
sistema rigidamente bipolare, i conflitti erano originati dallo scontro Est – Ovest,
sarebbero stati in altre parole gli interessi delle due Superpotenze a
incoraggiare e ingigantire gli scontri regionali.
Dalla fine
del bipolarismo altre cause intervengono a spiegare l’andamento della
conflittualità internazionale, come l’emergere di potenze regionali su nuove
basi ideologiche o l’aumento del commercio delle armi, quello che è comunque
evidente è la perdita da parte delle Superpotenze e degli altri Stati centrali
al sistema internazionale , della capacità di gestire e controllare le crisi
regionali periferiche.
Vi è una discontinuità delle regole
della sicurezza con cui si organizza il sistema e non essendovi validi accordi
collettivi di difesa o regole di tutela gerarchicamente definite, prevale l’autotutela
territoriale e politica, con la conseguente instabilità del sistema, se poi vi
sono condizioni per rivalità egemoniche locali che si inseriscono su diverse
ideologie di legittimazione dei regimi e delle gerarchie locali, il quadro si
fa cupo.
In breve, le conflittualità locali sono conseguenza di
una evoluzione delle politiche internazionali locali, che dopo una fase di
coalizione delle forze nazionali al fine di costruire il nuovo apparato statale
fanno emergere i problemi culturali, etnici e religiosi difficilmente gestibili
dai giovani organismi statali troppo deboli organizzativamente ed economicamente.
Nello stesso tempo gli Stati regionali più solidi cominciano a perseguire una
politica estera più incisiva per affermare una propria sfera di influenza,
magari in contrasto con le potenze globali e del centro del sistema.
Se non ci si
vuole perdere nell’analisi dei conflitti locali, occorre sempre tenere presente
che lo Stato come qualsiasi organismo vivente, tende ad assicurarsi le
condizioni migliori per la sopravvivenza.
Gli elementi
vitali in quanto costitutivi sono il territorio, la popolazione e le
istituzioni di Governo, quando uno di questi tre elementi viene ad essere
minacciato si ha una diminuzione della “sicurezza
nazionale” con conseguente crisi internazionale, necessita perciò che ogni
sistema abbia regole ed istituzioni specificamente designate a garantire la
sicurezza collettiva, nel difficile passaggio da comportamenti competitivi a
comportamenti cooperativi.
Una
sintetica classificazione dei fattori di conflitto si può articolare in tre
gruppi: fattori nazionali, intraregionali
ed extraregionali.
I primi venivano da “arbitrarie”
delimitazioni territoriali in conseguenza delle quali questioni etniche,
linguistiche, religiose e ideologiche sono cause di guerre. I secondi sono antagonismi storici tra
Stati a causa di contrasti nei valori socio-politici fondamentali, oppure
rivalità di potenza per contrasti di interessi geopolitici. I terzi derivano da interventi diretti o
indiretti di potenze straniere che fomentano i contrasti locali per propri
fini.
La gestione
di una crisi presenta sempre notevoli problemi, in quanto ciò che per uno Stato
può essere un pericolo da contrastare, per un altro può essere un’opportunità
da sfruttare, se a questo si aggiunge la molteplicità dei protagonisti si può
capire perché il concetto di controllo della crisi è per molti aspetti
fuorviante ed eccessivamente ottimistico.
Fattore
fondamentale di una crisi è il fattore tempo, che può indurre le autorità
responsabili a risposte affrettate, tali da determinare l’uso della forza fino
al precipitare in un conflitto. Collegati strettamente al fattore tempo vi è
quello dell’importanza delle poste in gioco, tali da fare accettare rischi
elevati, entrambi poi (tempo e posta in gioco) possono dare origine ad una
notevole tensione che può tradursi operativamente in una “escalation”
irreversibile.
In tutto questo la complicazione
consiste nella tentazione di sfruttare una presunta maggiore sensibilità
dell’avversario ai pericoli del confronto, specialmente se i vantaggi appaiono
molto allettanti, naturalmente tutto viene complicato dalla presenza di
alleanze, in cui ciascun membro porta propri interessi e proprie valutazioni.
Si capisce
la difficoltà di una sagace gestione delle crisi in cui il prevalere del
compromesso sarà la risultante di un difficile equilibrio di rinunce e di
acquisizioni, infatti “la gestione della
crisi è essenzialmente un tentativo di bilanciare e conciliare i diversi
elementi” (Phill Williams). La
chiave sta nel costringere con cautela e nel conciliare a buon mercato,
naturalmente il problema è che quanto più lieve sarà la coercizione, tanto
minore sarà la possibilità di ottenere concessioni o di costringere
l’avversario a desistere dai suoi propositi.
Ugualmente
quanto più il compromesso è a buon mercato, tanto minori saranno le probabilità
di persuadere l’avversario sulla convenienza delle offerte a lui pervenute (Glenn Snyder - Paul-Diesing).
Il primo
passo per i vertici politici in presenza di una crisi è di stabilirne la
tipologia, ossia se si tratta di una crisi tipo Monaco (1938), con la necessità
di rintuzzare una seria minaccia dell’avversario, o piuttosto di una simile a
Sarayevo (1914), con la conseguente necessità di impedire che gli avvenimenti
sfuggano dal controllo, il criterio di valutazione potrà essere la volontà o
meno di creare lo stato di crisi anche se un tale esame può essere dei più
difficili ed ingannevoli.
Il seguente passo dell’attivazione
dei sistemi di sicurezza, senza tuttavia precipitare la crisi, è dei più
essenziali, come del resto lo è l’attivazione dei contatti con le cancellerie
alleate e contrapposte, anche se tale lavoro può essere frustrante e laborioso.
In questa procedura, rapidissima
nell’attuazione, possono crearsi momenti di scollamento tra potere politico e
militare oltre che notevole stress a livello politico, tale da determinare una
paralisi decisionale o misure avventate, tenendo conto della difficoltà di
formulare proposte in brevissimo tempo necessarie per una seria trattativa, ma
che al contempo tengano conto di tutte le dimensioni della potenza che vanno da
quella politica, a quella militare, a quella economica, per non parlare
dell’ideologia che sottende l’azione dell’avversario.
Se questo è
lo scenario internazionale e tali sono le dinamiche in atto in una eventuale
crisi del sistema, si arguisce che ben pochi sono i mezzi giuridici a
disposizione di uno Stato per garantirsi dall’aggressione di un altro Stato.
La vecchia
massima per cui l’unico mezzo a disposizione di uno Stato per imporre
l’osservanza del diritto internazionale è costituito dall’autotutela, rimane
purtroppo in auge.
Quanto affermato si ricollega alla struttura
della Comunità internazionale, in cui i singoli Stati sovrani riassumono tutti
i poteri, né si è costituita una istituzione sovranazionale fornita di poteri e
mezzi necessari per imporre l’esecuzione delle norme internazionali, anche le
Nazioni Unite nella situazione politica attuale non hanno potuto modificare tale
stato di cose.
Poste queste
brevi premesse si deve sottolineare che l’uso della forza non potrà mai essere
indiscriminato, ma sempre proporzionato alle violenze altrui, superare questo
limite fa sì che venga meno qualsiasi regola di diritto internazionale e
prevalga la pura violenza bellica, intesa come fase tutta dominata dai rapporti
di sola forza, deve comunque farsi una sottile distinzione tra legittima difesa
e rappresaglia, in quanto diversa può essere la portata dell’azione bellica.
Ne primo
caso si tende a prevenire il danno maggiore, cosicché l’azione dell’aggredito
interviene quando l’illecito è ancora in
itinere, non del tutto consumato, nel secondo caso si ha uno scopo punitivo
e quindi maggiore sarà l’incidenza del principio della proporzionalità.
La moderna
teoria dell’autotutela nei rapporti tra Stati ha cercato di sviluppare forme
non violente, o meglio non belliche, partendo dalla tesi della dottrina
positivistica tedesca formulata dallo Jellinek,
la quale considerava il diritto internazionale come frutto di autolimitazione
del singolo Stato, si è cercato di sviluppare l’uso della forza sul piano
interno dello Stato anziché sul piano internazionale.
Nell’ambito
della propria comunità possono venire adottate quelle misure legislative o
amministrative che, risolvendosi nella violazione di norme internazionali, si
giustificano come prevenzione o reazione contro gli illeciti altrui.
Rientra in
questo ambito il principio della reciprocità, per cui se uno Stato straniero
prevede norme contrarie al diritto internazionale o peggio assume condotte
illegittime, la sua condotta costituisce presupposto per analoghe misure di
ritorsione, logicamente questo principio avrà una maggiore restrizione nel caso
di vincolo di solidarietà e di collaborazione tra Stati membri di
un’organizzazione.
Il ricorso alla autotutela ed alla
reazione con la propria inadempienza a quella altrui, costituisce extrema ratio, perseguibile solo dopo
che tutte le altre strade offerte dall’organizzazione per ottenere giustizia
sono state esperite.
Siamo così
giunti al concetto dell’arbitrato, il quale riposa sulla volontà e quindi sull’accordo
di tutti gli Stati parti di una controversia, infatti in caso di disaccordo non
è possibile costringere uno Stato a sottoporsi a giudizio, l’istituto si è
notevolmente evoluto a partire dalla metà del secolo scorso, mantenendo il
carattere volontaristico per le parti coinvolte, ma creando al contempo
meccanismi atti a favorire la formazione dell’accordo e istituzionalizzando la
funzione arbitrale.
L’avvio
all’istituzionalizzazione si ha con la Corte Permanente di Arbitrato, creata
dalle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre, peraltro
l’istituzionalizzazione è minima trattandosi di un elenco di giudici,
periodicamente aggiornato, tra i quali gli Stati possono scegliere i singoli
membri per la formazione del collegio arbitrale, anche le regole di procedura
non sono molte e possono cedere di fronte a quelle eventualmente stabilite
dalle Parti.
Con il
sorgere delle Nazioni Unite nel 1945, si è affiancata alla Corte dell’Aja un
nuovo istituto detto Corte Internazionale di Giustizia, avente sempre sede
all’Aja, che ha sostituito la Corte Permanente di Giustizia Internazionale
della Società delle Nazioni, essa funziona sulla base di uno Statuto annesso
alla Carta dell’ ONU, ricalcante lo statuto della vecchia Corte Internazionale.
Trattasi di
un corpo permanente di giudici, eletti dall’Assemblea generale su proposta del
Consiglio di Sicurezza, che giudica in base a precise e complesse regole di
procedura inderogabili dalle parti, si tratta pur sempre di un tribunale
arbitrale che opera sul presupposto di un accordo tra tutti gli Stati in
controversia.
La
ricomposizione di controversie mediante arbitrati o reazioni non violente non
ha dato sempre buoni risultati se le trattative non vengono accompagnate da
dimostrazioni di forza o dalla presenza di corpi armati, inoltre la palese
insufficienza dimostrata dagli organismi
internazionali, con particolare riferimento alle Nazioni Unite in determinate
circostanze nelle quali alta era la posta in gioco, ha spinto le superpotenze e
gli altri Stati centrali del sistema a dotarsi di forze di intervento rapido,
queste non sono altro che il risultato della nuova “conflittualità diffusa” che si innesta nei nuovi rapporti Nord/Sud.
Le forze di
intervento rapido non si differenziano sostanzialmente dalle forze
multinazionali, in quanto queste possono essere formate mettendo insieme sotto
un unico comando reparti tratti dalle prime, al contrario i contingenti
dell’O.N.U. si differenziano notevolmente essendo prevalentemente forniti da
unità di supporto degli Eserciti di campagna.
Il giudizio
su tali forze di rapido intervento non può che essere positivo per il fine
ultimo del mantenimento della pace, almeno fino a quando i meccanismi
istituzionali delle Nazioni Unite non saranno in grado di sostituirle e sempre
che il loro utilizzo non debordi dagli stretti fini iniziali.
Si può
concludere con le parole di Maddalena sul
principio di moderazione e il conseguente ordine che l’Atene imperiale di Pericle conteneva, in contrapposizione al
“delirio di onnipotenza” manifestato
dai suoi successori fino alla tragica spedizione di Alcibiade, in equilibrio “
tra la giustizia assoluta e l’ingiustizia
assoluta (entrambe impossibili)”.
L’impero,
nato dalla forza e per la forza, è ingiusto di per sé, tuttavia seppure
ingiusto, se è retto con moderazione, attenua l’inevitabile ingiustizia ponendo
ordine (ordine relativo ) là dov’è disordine.
L’impero retto con moderazione è insomma, in
questo mondo dove regna la forza, creatore della massima utilità possibile concessa
all’uomo ( Maddalena).
Estratto dalla relazione dell’autore alla XLII Sessione
del Centro Alti Studi della Difesa - ROMA
martedì 20 febbraio 2024
To apeiron, ovvero l’essere “indefinito” Riflessi sull’identità nazionale
ESSERE
NAZIONE
Te. Cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto Sabetta
“ Il termine ellenico to apeiron non significa
solo infinitamente lungo/grande, ma anche indefinibile, complesso al di là di
ogni ragionevolezza, ciò-che-non-può-essere-gestito” ( David Foster Wallace – 39- Tutto di più, Codice ed.)
Osserva Cardini che nella cultura vi è un trend con una “concentrazione qualitativa ma forte diminuzione
qualitativa di chi detiene una preparazione medio – alta, proletarizzazione
culturale in fortissimo aumento, crescita dell’analfabetismo di ritorno e della
demobilitazione intellettuale” (109), che si accompagna ad una “generale tendenza alla sparizione dei ceti
medi e alla proletarizzazione delle “moltitudini”.
In questa mancanza di un’idea di
Occidente vi è il disperdersi senza indirizzo, privi di una “cultura del limite” che ne costituisca il contenitore, se, come sottolinea Edward O. Wilson, “all’interno dei gruppi gli individui egoisti vincono sugli altruisti”, ma “gruppi
quelli che contengono altruisti vincono su quelli formati da egoisti” ( 79).
Vi è pertanto la necessità di un equilibrio fondato su
un’idea riconosciuta di Occidente con i suoi valori identitari.
Bauman
parla di una “decostruzione della
morte” e di una parallela “decostruzione
dell’immortalità”, in cui ad uno spostare l’attenzione sulle cause della
morte, che diventano comunque evitabili e razionalmente aggredibili, si
contrappone un annullamento dell’idea di eternità, in un presente fatto di
momenti, dove non vi è più distinzione fra transitorio e duraturo, dove la
storia e l’eterno, il prima e il dopo vengono a volatilizzarsi.
Viene annullata la distinzione tra il
presente dell’uomo e l’infinito di Dio, nella confusione che si crea cessa il
concetto di futuro, il ponte tra presente e infinito luogo d’incontro tra la
finitezza umana e la sua coscienza della divinità, nel volere ridurre tutto al
presente, al futuro prossimo, si vuole negare la probabilità di un infinito
immanente e causale sui destini umani, trasformandosi l’insieme in un “indefinito” privo di freccia temporale.
La scissione che è avvenuta tra mente e
corpo a partire da Descartes ha
favorito le “decostruzioni” indicate
da Bauman, la distinzione fra
proprietà attribuite ai soli eventi mentali e quelle proprie degli eventi
fisici ha fatto sì che il corpo, privo e staccato dalle manifestazioni di
intenzionalità mentali, è stato visto come una macchina da riparare i cui
guasti sono razionalmente aggredibili, fino a giungere ad un “naturalismo eliminazionalista” che
superando la stessa “teoria dell’identità”
ha negato l’esistenza dei fenomeni mentali autonomi dai concetti fisici ( Feigl – Place – Feyerabend), invertendo
l’antico prevalere della mente sul corpo.
Il rapporto tra mente e corpo è stato,
altresì, visto in termini esterni al sistema, nei quali impulsi provenienti da
differenti ambienti danno luogo a interpretazioni differenti del sistema
stesso, il tutto, quindi, manovrabile completamente dal e mediante il contesto
ambientale ( Putnam).
L’intrinseca capacità della natura di
elaborare informazioni comporta una complessità del sistema con una conseguente
ridotta capacità di prevedibilità delle future informazioni, lo stesso vuoto
tra un’informazione e l’altra modifica e
interpreta l’informazione trasmessa, ma nell’uomo vi è l’ulteriore complessità
determinata dalla moltitudine di linguaggi come mezzi di trasmissione dell’informazione.
Osserva Lloyd
che è più semplice quantificare l’informazione, come energia o denaro, che
qualificarla e definirla correttamente, d’altronde l’ambiguità del linguaggio
umano da elemento di disturbo del sistema diventa di per sé stesso un ulteriore
mezzo espressivo, che arricchisce le possibilità di trasmissione a fronte della
non conoscenza dei modi di elaborazione delle informazioni da parte della mente
umana.
Molta informazione è invisibile senza la necessità di alcun
intervento umano, se a questo aggiungiamo la logica e una certa
autoreferenzialità si ottiene l’imprevedibilità delle azioni umane.
Il sogno della certezza, della prevedibilità solo
presente e quindi del tutto controllabile delle nostre vite ci fornisce la
certezza economica per una totalità dei consumi, in cui l’accumulo mediante
risparmio per un arco di tempo incerto perde le caratteristiche della virtù
invertendo i valori, d’altronde la stessa finanza ha provveduto a sbriciolare
le certezze future.
Il nostro finito costeggia senza posa
l’infinito, l’unità uomo è inscatolata in infinite strutture sommariamente
identiche che tuttavia variano la “risoluzione” dell’immagine su scale
differenti in una proiezione indefinita del tempo, quello che può anche
definirsi un “ideale a infinito interno”
(Luminet - Lachiéze - Rey), in questa
lotta perenne tra finito e intuizione dobbiamo occuparci non solo e tanto dell’esistenza
quanto di quello che Russell definisce
una “possibilità di esistenza”, frutto di una composizione infinita di
trasformazioni infinitesimali.
Il tempo risultato del continuo
cambiamento della configurazione del sistema viene da noi percepito in funzione
della nostra posizione nel sistema che ci comprende, la somma dei nostri
diverso “Adesso” in cui la nostra esperienza
è immersa crea le varie probabilità che possiamo percepire (Barbour), ma noi tendiamo a vivere nel
qui ed ora quale risultato di una causalità orizzontale della totalità delle
cose, così che per noi le cose non diventano ma sono.
Viene, pertanto, negata la probabilità
degli eventi per un immanentismo totale senza futuro, ma anche senza la
possibilità del rischio della morte e dell’impotenza che diventa antieconomica
e quindi da negare, ogni azione umana viene così imperniata nella negazione
della possibilità del cessare, nell’ esistere di un continuo presente che
rinasce quale idea ad ogni costruzione dell’uomo, da quella economica a quella
giuridico – sociale e quindi politica.
Vi è pertanto uno scollamento sul
sentimento di identità nazionale, la Nazione quale società degli antenati
legata ad un territorio tra passato e futuro, questa viene a sciogliersi in una
globalità indefinita, nell’interstatualità di un internazionalismo obliquo e
indeterminato, nella cui generale incertezza rientra anche il problema
demografico, ridotto anch’esso in gran parte ad un puro aspetto economico
individuale, non come investimento collettivo.
In questo sciogliersi dell’identità
dell’individuo nell’indefinito, utile ad un determinato modello economico,
nasce inaspettatamente lo scontro, il conflitto con le diverse realtà culturali
esistenti e il loro riaffermarsi anche in termini bellici.
Bibliografia
·
AA.VV.,
Popolazione e potere, Aspenia, 2023;
·
Z. Bauman,
Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Il Mulino, 1995;
·
J. Barbour, La
fine del tempo, Einaudi, 2003;
·
F. Cardini, La
deriva dell’Occidente, Laterza, 2023;
·
L. Geymonat,
storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti,1996;
·
S. Lloyd, Il
programma dell’universo, Einaudi, 2006;
·
J.P. Luminet, M.
Lachiéze-Rey, Finito o infinito?, Cortina ed., 2006;
·
Edward O. Wilson,
Le origini profonde delle società umane, Raffaello Cortina Ed., 2020.
lunedì 12 febbraio 2024
Daniele di Placiodo. Premessa alla tesi di laurea Master di 1° Livello in Terrorismo ed Anti terrorismo Internazionale
IL CONTRIBUTO DELL’ESERCITO ITALIANO ALLE
MISSIONI NATO DAGLI ANNI 2000
Premessa
Negli anni che seguirono la fine
del secondo conflitto mondiale, l’Italia contribuì alla fondazione di numerose Organizzazioni
Internazionali il cui scopo era quello di aumentare la cooperazione tra i Paesi
aderenti in diversi ambiti. Nel marzo del 1949, il Consiglio dei Ministri della
neonata Repubblica Italiana si pronunciò in senso unanime per “l’accessione in
via di massima al Patto atlantico[1]”, esprimendo la volontà di aderire come
Paese fondatore alla North Atlantic Treaty Organization (NATO), compiendo
quella che fu definita “una lungimirante scelta di politica estera per garantire
la pace nella sicurezza” [2].
Altro passaggio fondamentale per
l’evoluzione dello strumento militare italiano fu l’adesione all’Organizzazione
delle Nazioni Unite, avvenuta nel dicembre del 1955: circa trent’anni più tardi,
infatti, le prime operazioni di peacekeeping in cui le Forze Armate italiane
furono impiegate fuori dai confini nazionali, furono condotte sotto l’egida
dell’ONU in Libano (missione UNIFIL, 1982-84), Somalia (missioni UNITAF e
UNOSOM, 1992-94 e l’Operazione UNITED SHIELD del 1995) e Mozambico (missione
ONUMOZ, 1993-94); furono queste le prime occasioni in cui le Forze Armate italiane
furono chiamate ad esprimere le proprie capacità di schierare e supportare
logisticamente grandi contingenti formati da un elevato numero di uomini, mezzi
e materiali stanziati a migliaia di chilometri dall’Italia.
Anche le operazioni NATO condotte
nei Balcani nella seconda metà degli anni ‘90 costituirono degli importanti
banchi di prova per le Forze Armate italiane: in Bosnia, con la partecipazione alla United Nation Protection Force
- UNPROROF (1993), alla Implementation Force - IFOR (1995) e alla sua
successiva riconfigurazione in Stabilization Force SFOR (dal 1996), e in Kosovo,
con la partecipazione alla Kosovo Force – KFOR (iniziata nel 1999 e tutt’ora in
corso), Esercito, Marina, Aeronautica e l’Arma dei Carabinieri contribuirono
con diverse migliaia di militari alla formazione dei contingenti internazionali
di peacekeeping.
Fu probabilmente sotto l’influsso di
questi numerosi impegni internazionali che venne concretizzata l’importante
idea di sospendere il servizio obbligatorio di leva per alimentare le Forze
Armate esclusivamente con personale professionista volontario: come dichiarò
nell’ottobre del 2000 l’allora Ministro della Difesa, l’Onorevole Sergio
Mattarella, attuale Presidente della Repubblica italiana, all’epoca si era
consolidata la necessità di avere delle Forze Armate “adeguate alle esigenze
contemporanee, che non sono di guerra, bensì di strategia di difesa della pace
e dei diritti umani[3]”.
In linea con la riorganizzazione in
atto in seno alla NATO in quel periodo storico, al fine di sviluppare
l’identità di sicurezza e difesa europea e rafforzare l’efficacia militare
dell’Alleanza, questa decisione permetterà all’Italia nel corso degli anni successivi
di dotarsi di Forze Armate in grado di assolvere ai nuovi compiti
internazionali, finalizzati a favorire la stabilità della sicurezza
euro-atlantica attraverso il rafforzamento di istituzioni democratiche, senza
tralasciare il classico compito di difesa e deterrenza.
Grazie a questi importanti
cambiamenti, le Forze Armate italiane poterono partecipare da protagoniste nelle
sfide alla stabilità internazionale che si presentarono dopo l’attacco
terroristico avvenuto negli Stati Uniti l’11 settembre del 2001: fu di enorme
peso il contributo italiano nelle missioni in ambito NATO che si svilupparono
in risposta ai sopra citati attentanti; in particolare l’Esercito Italiano fu
tra i principali contributori in termini numerici per quanto riguarda personale,
mezzi e materiali impiegati nelle complesse missioni svolte in scenari
operativi ad alta intensità in Iraq e Afghanistan.
L’enorme sforzo profuso nel corso
dei lunghi anni di operazioni hanno permesso all’Esercito Italiano di
accumulare una profonda esperienza nella pianificazione e gestione di
operazioni condotte in collaborazione con le forze armate dei Paesi della NATO
a grandi distanze dal territorio nazionale.
Terminate le operazioni di
contrasto al terrorismo, questa esperienza, riconosciuta a livello
internazionale e maturata anche grazie al sacrificio dei soldati caduti, a
seguito delle attività della Federazione Russa iniziate con l’occupazione della
penisola della Crimea, è stata nuovamente messa a disposizione della NATO per
la sorveglianza e la difesa del confine orientale dell’Alleanza, attraverso la partecipazione
alle operazioni di presenza e deterrenza denominate “Enhanced Forward
Presence (EFP)” ed “Enhanced Vigilance Activity (EVA)”.
Tesi di laurea.
[1]
L. ROMANINI, Breve storia dell’ostruzionismo nel Parlamento Italiano, Carocci
Editore, Roma, 2017, p. 145
[2]
www.avvenire.it
[3]
www.repubblica.it
mercoledì 31 gennaio 2024
Antonio Trogu. Paesi del club dell'atomo
Stati con armi nucleari
5
Per “Stati con armi nucleari" si
intendono quelle nazioni che hanno costruito, hanno testato e sono attualmente
in possesso di armi nucleari di qualunque tipo, in base ai termini
del Trattato di non
proliferazione nucleare(TNP), entrato
in vigore il 5 marzo 1970. Sono quindi considerati ufficialmente "Stati
con armi nucleari" (nuclear weapons states o NWS) quelle nazioni che
hanno assemblato e testato ordigni nucleari prima del 1º gennaio 1967: Stati Uniti d'America, Russia (succeduta
all'Unione Sovietica), Regno Unito, Francia e Cina, ovvero i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza
delle Nazioni Unite. Stati Uniti e Russia possiedono circa il 90 per cento del
totale di armi nucleari al mondo. Seguono le altre tre potenze che siedono nel
Consiglio di sicurezza dell’ONU, e a cui il Trattato di non proliferazione
nucleare del 1970 riconosce il diritto di possedere tali armi.
sabato 20 gennaio 2024
I dieci maggiori Paesi venditori di Armi
Gli Stati Uniti è il paese che ha una quota di vendita di oltre il 40% Tranne la Corea del Sud e la Cina, tutti gli altri sette paesi sono europei, considerando Israele nell'orbita europea-occidentale. L'Italia si colloca a metà in questa graduatoria.
Fonte Le mondi diplomatique, Anno XXXI, n. 1 - Gennaio 2024.
mercoledì 10 gennaio 2024
Antonio TRogu Illusione dell'equilibrio nucleare
L’obiettivo
era raggiungere l'equilibrio atomico, cioè un livello "sufficiente"
di capacità di distruzione reciproca (MAD, Mutual Assured Destruction), in
modo tale che ogni variazione nel numero di missili e testate non comportasse
più effetti pratici nei confronti del nemico. Per tale motivo USA e URSS iniziarono
a temere la concreta possibilità che l'avversario li superasse negli armamenti
e nelle dottrine tipiche della guerra "classica", tendendo alla
supremazia in campo tattico e nella politica delle alleanze. In tale contesto, pertanto, si
rischiava di indirizzare la propria economia di guerra su di un
sistema che poteva rimanere inattivo come uno spauracchio, mentre forze
insignificanti, con armi tecnologicamente superate ma efficaci se usate in modo
tradizionale, sarebbero
state in grado di colpire senza scatenare l'inferno atomico. Da qui una nuova teoria basata sulla necessità di raggiungere la superiorità quantitativa e
tecnologica a tutto spettro, con maggiore mobilità, capacità d'anticipo,
proiezione della potenza a distanza, dispiegamento
di intelligence sul territorio e sulle reti di comunicazione.
Dal
punto di vista degli apparati industriali-militari, lo sviluppo della competizione
tra coalizioni è stato ovviamente coinvolgente e anzi travolgente; il loro
obiettivo non è più stato l'equilibrio del terrore non appena si è
avvertita una crisi dal punto di vista dell'economia e dei rapporti fra
nazioni, ma la ricerca spasmodica comunque di una superiorità. Tuttavia
l'equilibrio è sempre stato precario, essendo legato a troppe variabili dipendenti non solo dalle differenze economiche, politiche e ideologiche ma in realtà dalla
contrapposizione di nazioni capitalistiche concorrenti con i loro rispettivi
territori di caccia.
Nel 1963 USA, URSS e Gran Bretagna arrivarono finalmente ad un
accordo, il cosiddetto “Partial
Test Ban Treaty”,
per fare cessare i test nucleari terrestri e subacquei, ma non quelli
sotterranei.
I negoziati fra americani e sovietici sull'impegno a sospendere l'attività
di sperimentazione nucleare, rappresentarono una svolta nei rapporti Est-Ovest.
Il testo offre un'attenta ricostruzione dei primi passi compiuti da Stati Uniti
e Unione Sovietica verso il superamento di uno dei periodi più tesi della
Guerra Fredda attraverso le trattative che portarono alla firma del primo
accordo per la messa al bando degli esperimenti nucleari. L'emergenza nucleare poteva dirsi conclusa, si
ricompose il quadro delle relazioni fra le due
superpotenze nel momento in cui emergeva il comune interesse a frenare la
diffusione degli arsenali nucleari e a tenere a bada le velleità di indipendenza
e autonomia dei rispettivi alleati. Era comunque chiaro che fin quando ci fosse stato anche un
solo ordigno la minaccia per l'umanità sarebbe proseguita. In questo contesto
destarono apprensione i ripetuti esperimenti nucleari della Francia nell'atollo di Mururoa, iniziati nel 1966 e terminati nel 1996.
Negli anni sessanta all'utilizzo dell'espressione “Era
atomica” si iniziò a preferire quello di “Era spaziale”, aperta ufficialmente dal lancio
dello Sputnik nello spazio, nel 1957. Se nel 1959, secondo l'Agenzia statunitense pubblica per
sondaggi d'opinione
Gallup, la percentuale di cittadini americani
preoccupati per un'imminente guerra nucleare è del 64%, nel 1965 si scende al
16%.
mercoledì 20 dicembre 2023
domenica 10 dicembre 2023
mercoledì 29 novembre 2023
Fine del Trattato INF e stabilità strategica
Antonio Trogu
Con
la denuncia del trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces) e’
stata inflitto un ulteriore colpo all’architettura di sicurezza e stabilità
internazionale instaurata all’indomani della Guerra Fredda. In effetti il
trattato INF è, o meglio era, uno di quei grandi trattati che
sanciscono la stabilità strategica e sono rarissimi i casi di una loro
denuncia.
Il
Trattato Inf costituì uno dei principali fattori
che condussero al superamento della Guerra Fredda. Nonostante l’INF fosse
un trattato bilaterale, esso ebbe un impatto decisivo sulla sicurezza mondiale.
Negli anni Settanta con l’iniziò della costruzione di un arsenale di missili a
medio-lunga gittata da parte dell’Unione Sovietica la dipendenza dell’Europa
Occidentale dalla deterrenza estesa statunitense aumentò considerevolmente.
Seguendo la logica della deterrenza, gli USA dispiegarono così un numero
ragguardevole di missili nucleari su territorio europeo, avvalendosi del
sistema NATO. Al fine di porre un limite alla costosa corsa agli armamenti in
Europa, le due superpotenze si trovarono a dover convergere sulla necessità di
stabilire un sistema di controllo reciproco. Venne stipulato nel 1987 a
conclusione della cosiddetta ‘crisi degli euromissili’ originariamente
stanziati dall’Unione Sovietica in Europa orientale, cui la Nato rispose con la
decisione di spiegare missili nucleari in quattro Paesi europei tra cui
l’Italia (nella base di Comiso in Sicilia).
Una
lunga trattativa durata otto anni condusse all’insperata conclusione di un
accordo tra Stati Uniti e Unione Sovietica sulla proibizione totale di tale
categoria di vettori nucleari e la loro distruzione sotto verifica
internazionale, il trattato fu firmato dall’allora presidente degli Stati Uniti
Ronald Reagan e dal leader sovietico Mikhail Gorbacev, un successo senza
precedenti che ora rischia di essere gettato alle ortiche. I problemi
sono iniziati già a partire dal 2014, quando gli USA hanno accusato la Russia
di aver violato le disposizioni del trattato. Queste accuse non hanno mai
trovato una soluzione in forma negoziale e, dopo aspre vicissitudini, hanno
invece condotto alla fine del trattato.
Secondo
gli Usa la Russia avrebbe ricominciato già da tempo a produrre i missili
9M729, ovvero missili nucleari a medio raggio che possono essere lanciati da
terra. Secondo gli Stati Uniti, il missile da crociera a propellente solido
9M729 Novator (SSC-8) con un’autonomia stimata di 5500 km è attualmente
impiegato, assieme a missili da crociera, nel sistema Iskander-K [1]. Se così fosse, il Novator violerebbe i
trattati INF e se venisse lanciato da Mosca potrebbe colpire tutta l’Europa
occidentale. Dalla Siberia avrebbe nel raggio la costa occidentale degli Stati
Uniti. Le brigate missilistiche Iskander sono schierate nella Transbaikalia,
nella regione di Leningrado, nel sud della Russia, in Siria ed a Kaliningrad.
La
Russia, che ha confermato l’esistenza del missile nel novembre 2018,
afferma invece che con una gittata di 480 km il missile 9M729 non viola il
Trattato INF . Il 9M729 Novator è stato equipaggiato con una testata più
potente ed un sistema di guida più efficiente del 9M728 e ciò conferisce al
sistema d’arma una maggiore precisione nel colpire il bersaglio. Il Ministero
della Difesa russo ha rilevato che i missili sono riforniti in fabbrica e
consegnati pronti al lancio, con autonomia limitata dai requisiti del Trattato
INF.
Secondo
Mosca sono i siti di difesa antimissile terrestri Aegis Ashore[2] in Polonia e Romania che
costituiscono una violazione americana del Trattato INF. Lo scudo europeo
sarebbe in grado di sconvolgere la stabilità strategica in quanto non si
tratterebbe di un sistema difensivo, ma parte di un asset nucleare strategico
avanzato in Europa orientale.
Per
i russi, la natura polifunzionale del Vertical Launching System MK-41
rappresenta una chiara violazione del Trattato sulle forze nucleari a raggio
intermedio (INF). Inoltre la Russia ritiene che il programma Prompt Global
Strike in fase di sviluppo negli Stati Uniti, sistema d’arma convenzionale in
grado di colpire obiettivi in tutto il mondo in meno di un’ora con precisione
micidiale, va contro il Trattato INF che vieta lo sviluppo di missili con una
gittata compresa tra i 500 ed i 5500km.
Un
fattore significativo dell’uscita degli USA dall’INF, a detta dell’allora
Presidente Trump, riguardava la Cina che è invece libera di sviluppare i
missili proibiti dall’accordo perché non ne fa parte, mettendo gli Stati Uniti
in una posizione di svantaggio. La Cina non ha mai aderito al trattato che la
costringerebbe a distruggere quasi tutti i suoi missili, le armi che le
consentono di dettare legge sul Pacifico e minacciare il potere americano nella
regione. Infatti Pechino può installare sul proprio territorio missili a
gittata medio-breve in grado di colpire gli alleati degli Stati Uniti nella
regione e la base americana di Guam, nel Pacifico occidentale. Inoltre i
missili a breve gittata rappresentano anche un deterrente notevole nei
confronti delle aspirazioni indipendentistiche di Taiwan.
Secondo
quanto dichiarato dal direttore generale del dipartimento controllo armamenti
del Ministero degli Esteri cinese, nonostante questa ferma posizione, la Cina
resta coinvolta nei processi di disarmo e controllo degli armamenti: ad esempio
ha citato il Comprehensive Test Ban Treaty (Ctbt) [3], il trattato sul divieto totale di test
nucleari a cui Pechino ha partecipato affinché si arrivasse a conclusione,
nonché la convenzione sulle armi biologiche e chimiche (la Cwc). Ma la Cina non
ha mai ratificato il Ctbt.
Per
quanto riguarda l’Europa è apparsa divisa sin dall’inizio sulla decisione USA
di uscire dal trattato INF, salvo accettarla, nei fatti, senza particolari
reazioni. La NATO, oltre a impegnarsi a mantenere un deterrente nucleare
«safe, secure and effective», ha deciso di focalizzare la sua risposta
sul rafforzamento dell’attività di intelligence, sorveglianza e ricognizione,
delle capacità di difesa aerea e antimissile e delle capacità militari
convenzionali. Ma un potenziamento del dispositivo militare alleato nei Paesi
dell’Europa centro-orientale rischia di alimentare il contrasto con la Russia
che, come gia’ osservato, nel sistema Aegis Ashore e nella sua
presunta capacità dual use convenzionale/nucleare vede la vera
ragione della crisi del trattato INF.
Dopo
che sia Mosca che Washington si sono ritirate dal Trattato sulle forze nucleari
a raggio intermedio del 1987 nel 2019, New START è l’unico accordo sul
controllo degli armamenti nucleari rimasto tra i due paesi. Il New Start è
rimasto l’unico trattato in corso che riesce a limitare le forze nucleari
russe, oltre a rappresentare un’ancora di salvataggio per la stabilità
strategica tra le due Nazioni.
Prima
della scadenza del trattato il parlamento russo ha approvato e il presidente
russo Vladimir Putin ha firmato la legge per estendere per cinque anni il New
Start: i legislatori russi, con un’azione accelerata arrivata pochi giorni
prima della scadenza, hanno approvato l’estensione dell’ultimo trattato sul
controllo degli armamenti nucleare Russia-USA rimasto. Il Cremlino ha detto di
aver accettato di completare le necessarie procedure di estensione in breve
tempo.
Il
rinnovo per cinque anni del trattato New Start, stabilisce dei tetti
concordati per le testate nucleari ed i vettori strategici delle due potenze.
La proroga di cinque anni, che è quella massima prevista dal trattato,
darà il tempo per negoziare ulteriori riduzioni che potrebbero questa
volta anche includere altri Paesi detentori di armi nucleari.
Nel
dettaglio, l’accordo prevede sostanziosi tagli, secondo il testo ufficiale
concordato dalle due superpotenze, Stati Uniti e Russia dovranno rispettare il
limite di 700 missili, 1.550 testate e 800 lanciatori.
L’accordo
consente inoltre di effettuare 18 ispezioni in loco ogni anno che permettono a
ciascuna parte di tenere d’occhio le capacità degli altri.
La
posizione UE si evince dal COMUNICATO STAMPA 65/21 del 3.2.2021
Proroga
del nuovo START: dichiarazione dell’alto rappresentante a nome dell’Unione
europea
L’UE accoglie con favore l’accordo
raggiunto tra gli Stati Uniti e la Federazione russa sulla proroga del nuovo
trattato START per altri cinque anni.
L’UE attribuisce la massima
importanza al nuovo trattato START e lo considera un contributo fondamentale
alla sicurezza internazionale ed europea. La riduzione degli arsenali nucleari
strategici dispiegati, prevista dal nuovo trattato START e rafforzata in
particolare dal relativo meccanismo di verifica rigorosa, contribuisce
all’attuazione dell’articolo VI del TNP attraverso la riduzione complessiva
delle scorte mondiali di armi nucleari dispiegate. Aumentando la prevedibilità
e la fiducia reciproca tra i due maggiori Stati dotati di armi nucleari, il
trattato limita la concorrenza strategica e aumenta la stabilità strategica.
L’UE sottolinea la necessità di
preservare e sviluppare ulteriormente i processi generali di controllo degli
armamenti, di disarmo e di non proliferazione. Nel rammentare gli obblighi
derivanti dall’articolo VI del TNP per tutti gli Stati dotati di armi nucleari,
sottolineiamo che i due Stati dotati di armi nucleari con il più vasto arsenale
sono investiti di una particolare responsabilità in materia di controllo degli
armamenti e disarmo nucleare. Li esortiamo a intraprendere ulteriori riduzioni
dei loro arsenali – comprese le armi nucleari strategiche e non strategiche,
dispiegate e non dispiegate – e a proseguire le discussioni sul rafforzamento
della fiducia, la trasparenza, la riduzione dei rischi, incluse le misure di
riduzione del rischio strategico e nucleare, nonché le attività di verifica,
gettando le basi per futuri accordi e relazioni sul controllo degli armamenti
ancora più solidi. A tale riguardo, l’UE accoglie con favore la maggiore
trasparenza dimostrata da alcuni Stati dotati di armi nucleari relativamente
alle loro dottrine e alle armi nucleari di cui dispongono e invita gli altri
paesi a fare altrettanto.
Per
quanto riguarda la Cina, questa non intende partecipare all’accordo e
sostiene che il suo è un piccolo arsenale, incomparabile con quello di Russia e
Usa. Pechino ha dichiarato di essere disponibile a entrare in un accordo del
genere solo quando Mosca e Washington avranno ridotto il numero di testate al
livello di quello cinese. In pratica per arrivare alla parità nucleare fra
le tre potenze, Washington e Mosca dovrebbero diminuire il loro arsenale del
90%. La Russia auspica l’adesione di tutti gli Stati con armi nucleari a un New
Start allargato ma ha anche detto più volte che non intende mettere pressione a
Pechino. Il Cremlino è in cattivi rapporti con gli Usa e l’Unione europea: la
partnership strategica con il gigante asiatico gli serve per bilanciare
l’ostilità del campo occidentale.
La
Cina non ha intenzione di rallentare la propria corsa egemonica, limitandosi in
trattati limitanti e limitativi che avrebbero gravi ripercussioni sul
potenziamento dell’arsenale nazionale. Lo scenario più probabile, potrebbe
essere, come riportato recentemente dal quotidiano del Partito
Comunista Cinese una espansione in tempi rapidi dell’arsenale atomico a mille
testate, come deterrente “per frenare le ambizioni strategiche degli Stati
Uniti”.
Cosa
aspettarsi allora dalla proroga del New Start limitato a USA e Russia
considerando che e’ comunque un accordo che tende a
garantire equilibri nucleari e geostrategici. Stati Uniti e Russia che
sono al primo e al secondo posto in termini di volume degli arsenali
atomici, rinnovando il trattato si impegnano a ridurre la propria
disponibilità di armi nucleari e questo e’ comunque un aspetto positivo. Non si
puo’ però sottacere che comunque Cina, India, Israele, Iran e Corea de Nord,
che hanno sviluppato missili INF poiché il trattato vincolava soltanto le due
superpotenze, non sono interessati ad una versione multilaterale per il futuro
del controllo dei missili nucleari a medio-lungo raggio.
In conclusione dal 2 agosto 2019 il Trattato
INF è ufficialmente ”morto”, e questo contribuisce in maniera drammatica alla
crisi dell’attuale sistema di controllo degli armamenti e rischia di innescare
una nuova corsa agli armamenti, oggi ancora più pericolosa per il crescente
sviluppo e l’introduzione su larga scala di nuovi tipi di tecnologie militari
(missili ipersonici, difese antimissile, attacchi cibernetici, tecnologie di
Intelligenza Artificiale, armi autonome).
[1] Iskander è
un complesso missilistico operativo e tattico russo ideato per neutralizzare
meccanismi di difesa, posti di comando e hub di comunicazione, aeroporti e fortificazioni
avversarie.
[2] Aegis
Ashore è la variante terrestre del sistema di armi Aegis della Marina. Ogni
sito Aegis Ashore include tre tubi MK 41 VLS con otto celle ciascuno per un
totale di 24 intercettori per sito.
[3] Il
CTBT vieta qualsiasi esplosione di test di armi nucleari o qualsiasi altra
esplosione nucleare. Il Trattato comprende un protocollo in tre parti:
Parte I che descrive in dettaglio il Sistema internazionale di monitoraggio
(IMS); Parte II sulle ispezioni in loco (OSI); e Parte III sulle misure di
rafforzamento della fiducia (CBM).