Immigrazione Turchia: il partner difficile e obbligato Riccardo Perissich 22/03/2016 |
I gufi hanno di nuovo avuto torto e il Consiglio Europeo dell’ultima ora ha trovato l’accordo. Continueranno a gufare.
L’accordo fra gli europei è fragile e anche quello con la Turchia è precario. È anche per certi versi imbarazzante perché interviene a fronte di una evidente involuzione autoritaria del paese e in un momento in cui la popolarità del presidente Racep Tayyep Erdogan in Europa è ai minimi storici.
Ne consegue l’indignazione per un’Europa che ha “venduto l’anima” dei negoziatori da salotto che amano guardare il mondo con lo stesso realismo di quelli che ripetono a tavolino la battaglia di Waterloo sperando che Grouchy arrivi prima di Blucher.
Soldi, visti e processo di adesione
Nell’accordo ci sono vari elementi. Abbiamo promesso alla Turchia molti soldi: tre miliardi più altri tre. Sono molti, ma il Paese deve far fronte a due milioni e mezzo di rifugiati; un disastro umanitario che per quanto possibile non vorremmo trasferire da noi.
Abbiamo anche promesso di accelerare l’eliminazione dei visti per i turchi che si recano nella zona Schengen. Chi protesta dimentica che è un processo in atto da molto tempo e richiede che la Turchia soddisfi un certo numero di condizioni già enunciate; alcune comportano modifiche legislative.
Certo, è legittimo il dubbio che l’aver posto la scadenza di giugno conduca gli europei a essere troppo tolleranti, o la Turchia a non soddisfare alcune condizioni e poi usare il mancato compimento del processo come pretesto per non rispettare gli impegni presi. Vedremo.
La decisione di riaprire un capitolo del negoziato d’adesione è psicologicamente la più contestata perché può essere interpretata dalla nostra opinione pubblica come un via libera definitivo.
L’adesione della Turchia all’Unione europea, Ue, è una saga che dura da mezzo secolo e assomiglia sempre più a una commedia di Pirandello. La verità e che nessuno, né ad Ankara né a Bruxelles crede più che l’adesione sia possibile e in fondo nemmeno desiderabile.
L’Europa ha capito che non è in grado di assorbire un Paese con quelle caratteristiche e che la nostra possibilità di influenzare l’evoluzione del paese è limitata. La Turchia ha invece preso una strada di cui non conosciamo lo sbocco, ma che la porta nella migliore delle ipotesi a essere vicina all’Europa, ma non all’interno di essa; anche i turchi a noi più vicini lo sanno, anche se non vogliono ammetterlo.
È una finzione cui nessuno vuole rinunciare: noi, nell’illusione di aiutare un’opposizione kemalista che sembra incapace di esistere per conto suo, Erdogan perché vuole dimostrare al Paese di non aver del tutto tradito la visione di Ataturk.
Gestione dei flussi e dei respingimenti
Resta la parte più importante dell’accordo: la gestione dei flussi, delle riammissioni e dei respingimenti. Sarà, anche ammesso che tutti lavorino in buona fede, straordinariamente difficile. La Turchia dovrà contrastare filiere di criminalità organizzata che hanno all’evidenza vaste complicità all’interno del paese.
Noi dovremo essere capaci di aiutare massicciamente la Grecia; compito reso oggettivamente più arduo dalla decisione, presa in ottemperanza al diritto internazionale, di valutare i respingimenti su base individuale.
È precario anche l’accordo fra europei. Le decisioni più importanti, superamento di Dublino, gestione comune delle frontiere e programmi di ricollocamento, comportano grandi difficoltà e necessitano cessioni di sovranità. Ci vorrà una forte leadership soprattutto da parte di Germania e Italia, i due paesi più impegnati e, per ragioni diverse, più esposti.
Dovremo anche essere preparati a spiegare ai paesi recalcitranti che rifiutare la solidarietà comune comporta dei costi. Non bisogna peraltro dimenticare che, anche se l’Ue facesse pienamente la sua parte, la gestione dell’accoglienza resterebbe un problema nazionale e addirittura locale con problemi logistici e organizzativi non indifferenti.
Non sono impressionanti solo i numeri, ma anche le implicazioni per l’ordine pubblico, le caratteristiche sociali e culturali dei nuovi arrivati. Non possiamo illuderci che la macropolitica risolva problemi che invece richiedono un’accorta microgestione.
In Italia, un’opinione pubblica schizofrenica deve essere educata alla realtà. Non possiamo essere il Paese che fino a ieri voleva la Turchia nell’Ue subito e che ora la considera alla stregua di uno stato canaglia.
Non possiamo essere la nazione dove i sondaggi indicano un consenso maggioritario all’uscita da Schengen, quando siamo quello che ha finora accolto proporzionalmente il minor numero di migranti e rifugiati e per cui la chiusura delle frontiere sarebbe una misura a dir poco masochista.
Un accordo di interessi
L’accordo con la Turchia non è una promessa di matrimonio, ma riflette la consapevolezza di due attori in difficoltà che hanno bisogno l’uno dell’altro. Noi perché lì è la chiave per cominciare ad affrontare la crisi dei rifugiati. Loro perché il paese è sempre più isolato sul piano internazionale.
Resta il fatto che l’Europa è stata lasciata sola a gestire un problema che ha dimensioni planetarie. Dall’America in preda alla sua involuzione populista. Dalle Nazioni Unite che sembrano interessarsi alla questione solo per ricordarci i nostri obblighi umanitari. Sono lezioni di cui dobbiamo tenere conto.
Gli europei amano usare, spesso a sproposito, la parola crisi usandola per vicende che sono invece solo difficoltà superabili. Questa volta invece di crisi si tratta e addirittura esistenziale: non è affatto detto che la supereremo e ancor meno che arriveremo al traguardo tutti insieme.
Confortano due fatti di cui sembrano essere pienamente consapevoli le classi dirigenti al potere. Il fenomeno non è arrestabile con la costruzione di muri. I costi, politici ed economici, della fine di Schengen sarebbero giganteschi. Per chi crede ancora nella forza della ragione non è poco, anche se non sarà facile: per ogni populista xenofobo c’è anche un buonista che grida “avanti, c’è posto per tutti”.
Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.
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L’accordo fra gli europei è fragile e anche quello con la Turchia è precario. È anche per certi versi imbarazzante perché interviene a fronte di una evidente involuzione autoritaria del paese e in un momento in cui la popolarità del presidente Racep Tayyep Erdogan in Europa è ai minimi storici.
Ne consegue l’indignazione per un’Europa che ha “venduto l’anima” dei negoziatori da salotto che amano guardare il mondo con lo stesso realismo di quelli che ripetono a tavolino la battaglia di Waterloo sperando che Grouchy arrivi prima di Blucher.
Soldi, visti e processo di adesione
Nell’accordo ci sono vari elementi. Abbiamo promesso alla Turchia molti soldi: tre miliardi più altri tre. Sono molti, ma il Paese deve far fronte a due milioni e mezzo di rifugiati; un disastro umanitario che per quanto possibile non vorremmo trasferire da noi.
Abbiamo anche promesso di accelerare l’eliminazione dei visti per i turchi che si recano nella zona Schengen. Chi protesta dimentica che è un processo in atto da molto tempo e richiede che la Turchia soddisfi un certo numero di condizioni già enunciate; alcune comportano modifiche legislative.
Certo, è legittimo il dubbio che l’aver posto la scadenza di giugno conduca gli europei a essere troppo tolleranti, o la Turchia a non soddisfare alcune condizioni e poi usare il mancato compimento del processo come pretesto per non rispettare gli impegni presi. Vedremo.
La decisione di riaprire un capitolo del negoziato d’adesione è psicologicamente la più contestata perché può essere interpretata dalla nostra opinione pubblica come un via libera definitivo.
L’adesione della Turchia all’Unione europea, Ue, è una saga che dura da mezzo secolo e assomiglia sempre più a una commedia di Pirandello. La verità e che nessuno, né ad Ankara né a Bruxelles crede più che l’adesione sia possibile e in fondo nemmeno desiderabile.
L’Europa ha capito che non è in grado di assorbire un Paese con quelle caratteristiche e che la nostra possibilità di influenzare l’evoluzione del paese è limitata. La Turchia ha invece preso una strada di cui non conosciamo lo sbocco, ma che la porta nella migliore delle ipotesi a essere vicina all’Europa, ma non all’interno di essa; anche i turchi a noi più vicini lo sanno, anche se non vogliono ammetterlo.
È una finzione cui nessuno vuole rinunciare: noi, nell’illusione di aiutare un’opposizione kemalista che sembra incapace di esistere per conto suo, Erdogan perché vuole dimostrare al Paese di non aver del tutto tradito la visione di Ataturk.
Gestione dei flussi e dei respingimenti
Resta la parte più importante dell’accordo: la gestione dei flussi, delle riammissioni e dei respingimenti. Sarà, anche ammesso che tutti lavorino in buona fede, straordinariamente difficile. La Turchia dovrà contrastare filiere di criminalità organizzata che hanno all’evidenza vaste complicità all’interno del paese.
Noi dovremo essere capaci di aiutare massicciamente la Grecia; compito reso oggettivamente più arduo dalla decisione, presa in ottemperanza al diritto internazionale, di valutare i respingimenti su base individuale.
È precario anche l’accordo fra europei. Le decisioni più importanti, superamento di Dublino, gestione comune delle frontiere e programmi di ricollocamento, comportano grandi difficoltà e necessitano cessioni di sovranità. Ci vorrà una forte leadership soprattutto da parte di Germania e Italia, i due paesi più impegnati e, per ragioni diverse, più esposti.
Dovremo anche essere preparati a spiegare ai paesi recalcitranti che rifiutare la solidarietà comune comporta dei costi. Non bisogna peraltro dimenticare che, anche se l’Ue facesse pienamente la sua parte, la gestione dell’accoglienza resterebbe un problema nazionale e addirittura locale con problemi logistici e organizzativi non indifferenti.
Non sono impressionanti solo i numeri, ma anche le implicazioni per l’ordine pubblico, le caratteristiche sociali e culturali dei nuovi arrivati. Non possiamo illuderci che la macropolitica risolva problemi che invece richiedono un’accorta microgestione.
In Italia, un’opinione pubblica schizofrenica deve essere educata alla realtà. Non possiamo essere il Paese che fino a ieri voleva la Turchia nell’Ue subito e che ora la considera alla stregua di uno stato canaglia.
Non possiamo essere la nazione dove i sondaggi indicano un consenso maggioritario all’uscita da Schengen, quando siamo quello che ha finora accolto proporzionalmente il minor numero di migranti e rifugiati e per cui la chiusura delle frontiere sarebbe una misura a dir poco masochista.
Un accordo di interessi
L’accordo con la Turchia non è una promessa di matrimonio, ma riflette la consapevolezza di due attori in difficoltà che hanno bisogno l’uno dell’altro. Noi perché lì è la chiave per cominciare ad affrontare la crisi dei rifugiati. Loro perché il paese è sempre più isolato sul piano internazionale.
Resta il fatto che l’Europa è stata lasciata sola a gestire un problema che ha dimensioni planetarie. Dall’America in preda alla sua involuzione populista. Dalle Nazioni Unite che sembrano interessarsi alla questione solo per ricordarci i nostri obblighi umanitari. Sono lezioni di cui dobbiamo tenere conto.
Gli europei amano usare, spesso a sproposito, la parola crisi usandola per vicende che sono invece solo difficoltà superabili. Questa volta invece di crisi si tratta e addirittura esistenziale: non è affatto detto che la supereremo e ancor meno che arriveremo al traguardo tutti insieme.
Confortano due fatti di cui sembrano essere pienamente consapevoli le classi dirigenti al potere. Il fenomeno non è arrestabile con la costruzione di muri. I costi, politici ed economici, della fine di Schengen sarebbero giganteschi. Per chi crede ancora nella forza della ragione non è poco, anche se non sarà facile: per ogni populista xenofobo c’è anche un buonista che grida “avanti, c’è posto per tutti”.
Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.