Economia internazionale L’Fmi del XXI secolo: molte sfide, poche risorse Carlo Cottarelli 05/02/2016 |
L’aggiornamento delle stime contenute nel World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale, Fmi, è stato recentemente presentato a Londra. Il quadro che ne risulta descrive una situazione in chiaroscuro.
L’economia globale tra crescita e squilibri
Il tasso di crescita medio dell’economia mondiale per il prossimo biennio si attesta sul 3,5%. Tuttavia, i motivi di preoccupazione non sono pochi. In Brasile è in corso un pesante aggiustamento fiscale con effetti sul Pil più negativi del previsto.
L’economia cinese, pur crescendo a tassi ancora elevati, è nel bel mezzo di una transizione verso un modello di crescita più equilibrato.
In Europa la disoccupazione è ancora molto elevata mentre il tasso di inflazione è vicino allo zero in molte delle economie più sviluppate. La produttività della forza lavoro cresce a un ritmo fortemente inferiore al recente passato. Il debito pubblico e privato, dopo il rapido aumento nel periodo successivo alla crisi del 2008, resta elevato. La distribuzione del reddito si è andata concentrando verso l’1% più ricco della popolazione con conseguenze negative sulla domanda aggregata.
La situazione economica mondiale rimane dunque caratterizzata da notevoli squilibri ed esposta a rischi molto significativi. È prevedibile che il Fondo Monetario Internazionale venga chiamato a intervenire nuovamente a sostegno dei paesi colpiti da shock negativi o in crisi, ma sarà pronto a farlo?
La questione principale riguarda le risorse a disposizione. Il Fondo è un’istituzione che dovrebbe, in linea di principio, finanziare i suoi prestiti con le proprie risorse, ossia le quote pagate dai membri. Ciascun paese contribuisce alla dotazione dell’Fmi versando, in valuta di riserva o Diritti Speciali di Prelievo, una quota proporzionale alla dimensione della sua economia nazionale.
Tuttavia, a causa della scarsezza di tale risorse, l’Fmi, che non prende a prestito dai mercati anche se legalmente potrebbe farlo, si è trovato più volte costretto a prendere fondi in prestito dai paesi membri. Il problema è che le quote non hanno tenuto il passo con la crescita dell’economica mondiale e dei flussi finanziari.
Riforma delle quote
Nel dicembre 2015 il Congresso americano ha ratificato una riforma, precedentemente approvata dai governi dei paesi membri del Fondo nel 2010, che prevede il raddoppio delle quote totali versate dai paesi e la redistribuzione delle stesse alla luce dei nuovi equilibri macroeconomici mondiali.
Le risorse proprie del Fondo passano così da 238.5 miliardi a 477 miliardi di Diritti Speciali di Prelievo, unità di conto del Fondo che corrisponde circa a 1,38 dollari statunitensi.
Questo aumento, a fronte della sostenuta crescita che ha caratterizzato l’economia mondiale negli ultimi 40 anni, non è comunque sufficiente a riequilibrare il rapporto tra quote e Pil mondiale che permane del 40% più basso rispetto agli anni ’70, mentre il rapporto tra quote e flussi di capitale è addirittura del 50% più basso.
Quanto descritto implica limitazioni non secondarie: nel 1976-1977 il Fondo Monetario ha fatto prestiti a paesi come l’Italia e il Regno Unito, cosa che oggi sarebbe molto difficile considerato il fabbisogno di finanziamento lordo di questi paesi (il fabbisogno lordo del Tesoro italiano è attualmente di circa 40 miliardi di dollari al mese).
Le conseguenze pratiche di questa scarsità di risorse sono diverse. Primo, continua a lasciare il Fondo alla dipendenza di prestiti dei paesi membri nel caso di necessità. Secondo, comporta una maggiore prudenza da parte del Fondo nell’erogazione di prestiti al di sopra di un certo ammontare.
Il Fondo ha definito da tempo una politica di Exceptional Access per la quale i prestiti di dimensione superiore a 2-3 volte la quota versata dal paese richiedente ricevono condizioni particolari come, ad esempio, tassi di interesse più elevati (per scoraggiarne l’uso prolungato) e criteri di valutazione della sostenibilità del debito più stringenti.
Dato il criterio basato su un multiplo delle quote, la riduzione della dimensione delle stesse rispetto all’economia globale comporta l’aumento dei casi considerati eccezionali. A mio giudizio, la scarsa dimensione delle risorse ha anche portato il Fondo a essere più favorevole di un tempo alla ristrutturazione del debito.
Una recente prova di questa tendenza è stata la recente abolizione della cosiddetta “clausola sistemica”. Fino a poco tempo fa, il Fondo poteva prestare a paesi considerati sistemici ammontari di importo “eccezionale” (nel senso sopra indicato) anche se il loro debito pubblico non fosse considerato sostenibile con alta probabilità.
Questa clausola, che era stata introdotta per consentire il prestito alla Grecia nel 2010, è stata ora abolita e paesi il cui debito è considerato sostenibile ma non con alta probabilità potranno tipicamente prendere a prestito dal Fondo solo dopo aver proceduto almeno a un “reprofiling” del debito (una ristrutturazione in termini di scadenza e tassi di interesse).
La scarsità di risorse comporterà inoltre la crescente necessità di cooperare con accordi di finanziamento regionale quali lo European Stability Mechanism nell’Eurozona o l’Accordo di Chian Mai in Asia.
La governance, emergenti sempre più rappresentati
La riforma recentemente approvata modifica anche la rappresentanza dei paesi all’interno del Fondo. La quota dei voti dei paesi emergenti e in via di sviluppo sale dal 39,5% al 42,3%. Quella dei paesi avanzati scende dal 60,5% al 57,7%. I quattro Brics (Brasile, Russia, India, Cina) saranno tra i primi dieci Paesi per quota.
L’influenza della Cina nello specifico è aumentata e la decisione di far entrare la moneta di Pechino nel paniere dei Diritti Speciali di Prelievo ne è una testimonianza concreta.
Gli Stati Uniti, mantenendo una quota superiore al 15%, hanno ancora il diritto di veto su molte decisioni del Fondo e un’influenza particolare. Basti pensare che il Congresso ha richiesto l’invio da parte dell’amministrazione americana dei documenti sulle riunioni del consiglio del Fondo relativi a prestiti di importo eccezionale almeno una settimana prima delle riunioni, il che comporta che tali documenti dovrebbero essere presentati al parlamento americano come documenti strettamente confidenziali prima che siano dati a qualunque altro ente non governativo.
L’Europa è ancora divisa. L’Italia, che sostiene la necessità di avere un unico direttore esecutivo a livello di area dell’euro, pur scendendo, con la riforma delle quote, dal 3,31% al 3,16% dei voti, mantiene il settimo posto come quota.
In un’economia mondiale la cui dimensione e i cui squilibri continuano a crescere, l’impoverimento degli strumenti a disposizione del Fondo potrebbe rappresentare un problema aggiuntivo, soprattutto alla luce della maggiore interdipendenza delle economie nazionali che avrebbero bisogno di istituzioni internazionali in grado di coordinarle nel raggiungimento di un maggiore benessere su scala globale.
Carlo Cottarelli è economista, attualmente è direttore esecutivo per l’Italia al Fondo Monetario Internazionale.
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Il tasso di crescita medio dell’economia mondiale per il prossimo biennio si attesta sul 3,5%. Tuttavia, i motivi di preoccupazione non sono pochi. In Brasile è in corso un pesante aggiustamento fiscale con effetti sul Pil più negativi del previsto.
L’economia cinese, pur crescendo a tassi ancora elevati, è nel bel mezzo di una transizione verso un modello di crescita più equilibrato.
In Europa la disoccupazione è ancora molto elevata mentre il tasso di inflazione è vicino allo zero in molte delle economie più sviluppate. La produttività della forza lavoro cresce a un ritmo fortemente inferiore al recente passato. Il debito pubblico e privato, dopo il rapido aumento nel periodo successivo alla crisi del 2008, resta elevato. La distribuzione del reddito si è andata concentrando verso l’1% più ricco della popolazione con conseguenze negative sulla domanda aggregata.
La situazione economica mondiale rimane dunque caratterizzata da notevoli squilibri ed esposta a rischi molto significativi. È prevedibile che il Fondo Monetario Internazionale venga chiamato a intervenire nuovamente a sostegno dei paesi colpiti da shock negativi o in crisi, ma sarà pronto a farlo?
La questione principale riguarda le risorse a disposizione. Il Fondo è un’istituzione che dovrebbe, in linea di principio, finanziare i suoi prestiti con le proprie risorse, ossia le quote pagate dai membri. Ciascun paese contribuisce alla dotazione dell’Fmi versando, in valuta di riserva o Diritti Speciali di Prelievo, una quota proporzionale alla dimensione della sua economia nazionale.
Tuttavia, a causa della scarsezza di tale risorse, l’Fmi, che non prende a prestito dai mercati anche se legalmente potrebbe farlo, si è trovato più volte costretto a prendere fondi in prestito dai paesi membri. Il problema è che le quote non hanno tenuto il passo con la crescita dell’economica mondiale e dei flussi finanziari.
Riforma delle quote
Nel dicembre 2015 il Congresso americano ha ratificato una riforma, precedentemente approvata dai governi dei paesi membri del Fondo nel 2010, che prevede il raddoppio delle quote totali versate dai paesi e la redistribuzione delle stesse alla luce dei nuovi equilibri macroeconomici mondiali.
Le risorse proprie del Fondo passano così da 238.5 miliardi a 477 miliardi di Diritti Speciali di Prelievo, unità di conto del Fondo che corrisponde circa a 1,38 dollari statunitensi.
Questo aumento, a fronte della sostenuta crescita che ha caratterizzato l’economia mondiale negli ultimi 40 anni, non è comunque sufficiente a riequilibrare il rapporto tra quote e Pil mondiale che permane del 40% più basso rispetto agli anni ’70, mentre il rapporto tra quote e flussi di capitale è addirittura del 50% più basso.
Quanto descritto implica limitazioni non secondarie: nel 1976-1977 il Fondo Monetario ha fatto prestiti a paesi come l’Italia e il Regno Unito, cosa che oggi sarebbe molto difficile considerato il fabbisogno di finanziamento lordo di questi paesi (il fabbisogno lordo del Tesoro italiano è attualmente di circa 40 miliardi di dollari al mese).
Le conseguenze pratiche di questa scarsità di risorse sono diverse. Primo, continua a lasciare il Fondo alla dipendenza di prestiti dei paesi membri nel caso di necessità. Secondo, comporta una maggiore prudenza da parte del Fondo nell’erogazione di prestiti al di sopra di un certo ammontare.
Il Fondo ha definito da tempo una politica di Exceptional Access per la quale i prestiti di dimensione superiore a 2-3 volte la quota versata dal paese richiedente ricevono condizioni particolari come, ad esempio, tassi di interesse più elevati (per scoraggiarne l’uso prolungato) e criteri di valutazione della sostenibilità del debito più stringenti.
Dato il criterio basato su un multiplo delle quote, la riduzione della dimensione delle stesse rispetto all’economia globale comporta l’aumento dei casi considerati eccezionali. A mio giudizio, la scarsa dimensione delle risorse ha anche portato il Fondo a essere più favorevole di un tempo alla ristrutturazione del debito.
Una recente prova di questa tendenza è stata la recente abolizione della cosiddetta “clausola sistemica”. Fino a poco tempo fa, il Fondo poteva prestare a paesi considerati sistemici ammontari di importo “eccezionale” (nel senso sopra indicato) anche se il loro debito pubblico non fosse considerato sostenibile con alta probabilità.
Questa clausola, che era stata introdotta per consentire il prestito alla Grecia nel 2010, è stata ora abolita e paesi il cui debito è considerato sostenibile ma non con alta probabilità potranno tipicamente prendere a prestito dal Fondo solo dopo aver proceduto almeno a un “reprofiling” del debito (una ristrutturazione in termini di scadenza e tassi di interesse).
La scarsità di risorse comporterà inoltre la crescente necessità di cooperare con accordi di finanziamento regionale quali lo European Stability Mechanism nell’Eurozona o l’Accordo di Chian Mai in Asia.
La governance, emergenti sempre più rappresentati
La riforma recentemente approvata modifica anche la rappresentanza dei paesi all’interno del Fondo. La quota dei voti dei paesi emergenti e in via di sviluppo sale dal 39,5% al 42,3%. Quella dei paesi avanzati scende dal 60,5% al 57,7%. I quattro Brics (Brasile, Russia, India, Cina) saranno tra i primi dieci Paesi per quota.
L’influenza della Cina nello specifico è aumentata e la decisione di far entrare la moneta di Pechino nel paniere dei Diritti Speciali di Prelievo ne è una testimonianza concreta.
Gli Stati Uniti, mantenendo una quota superiore al 15%, hanno ancora il diritto di veto su molte decisioni del Fondo e un’influenza particolare. Basti pensare che il Congresso ha richiesto l’invio da parte dell’amministrazione americana dei documenti sulle riunioni del consiglio del Fondo relativi a prestiti di importo eccezionale almeno una settimana prima delle riunioni, il che comporta che tali documenti dovrebbero essere presentati al parlamento americano come documenti strettamente confidenziali prima che siano dati a qualunque altro ente non governativo.
L’Europa è ancora divisa. L’Italia, che sostiene la necessità di avere un unico direttore esecutivo a livello di area dell’euro, pur scendendo, con la riforma delle quote, dal 3,31% al 3,16% dei voti, mantiene il settimo posto come quota.
In un’economia mondiale la cui dimensione e i cui squilibri continuano a crescere, l’impoverimento degli strumenti a disposizione del Fondo potrebbe rappresentare un problema aggiuntivo, soprattutto alla luce della maggiore interdipendenza delle economie nazionali che avrebbero bisogno di istituzioni internazionali in grado di coordinarle nel raggiungimento di un maggiore benessere su scala globale.
Carlo Cottarelli è economista, attualmente è direttore esecutivo per l’Italia al Fondo Monetario Internazionale.
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